L’attimo non può che essere confrontato con ciò che avviene in seguito e che, pertanto, apparirà sconosciuto al presente, non fosse altro perché insieme formano una coppia oppositiva, dove gli elementi si contrappongono in quanto entità o concetti diversi. Il tentativo di preveggenza, ossia leggere le cose come segni per divinare il futuro è il desiderio che caratterizza l’impeto lirico di Luciana Bianchera ed è un fervore onnipresente nel suo nuovo libro di poesie Non sarà che un attimo, Gilgamesh, 2025, tradotto in spagnolo da Antonio Tari Garcia. Il libro è bilingue in quanto nato dai continui viaggi che la poetessa, per motivi di lavoro, ha effettuato negli ultimi anni, poiché potente e influente è stato il suo incontro con la lingua spagnola. È certamente dovuta alla professione della poetessa, che si occupa di psicoanalisi ed etnoclinica, la propensione a vedere in ogni aspetto dell’esistenza, una sorta di simbolizzazione continua, a tratti estenuata, che quasi sorvola poeticamente il legame che pure tesse tra aspetti affatto distanti. Siffatto slancio non è dovuto soltanto all’interpretazione della psicologia individuale, a cui, peraltro, non viene meno la consapevolezza dell’arbitrio insito nell’atto interpretativo della realtà effettuato tramite linguaggio. Il primo riferimento, d’altronde, lo troviamo proprio nella prima poesia: “Bambini affaccendati / nel gioco dell’invenzione del gioco”, verso che richiama in contrappunto “Sospendo il gioco”, in riferimento alla lettura dei segni istituiti dal vecchio cappello e dallo scialle appartenuti ai nonni da cui, appunto giocando, non si perviene ad alcuna risoluzione futura. Luciana si abbandona all’intuizione; solo così riesce ad afferrare per qualche istante il mistero del domani. La dichiarazione sulla nostra tendenza all’interpretazione si trova a essere giustamente limitata dalla coscienza, indica la poetessa, poiché la realtà non corrisponde alla nostra volontà o ai nostri desideri e, dunque, risulta più equilibrata quella visione che appare maggiormente rispettosa dei limiti. Inoltre, è da considerarsi che “Nel sogno / ogni cosa / prenderà altra forma”. Un’ulteriore modalità esegetica si frappone in tal modo tra la realtà e il soggetto, rendendo maggiormente complessa l’analisi dei dati. E, in aggiunta, come districare il sogno dalla credenza, l’apporto della cultura dall’uso della lingua? Sarà per questo che la sua scrittura ci appare come bucata dall’incertezza della divisione tra i corpi, tra le menti e tra l’esperienza e i sogni, i propri e quelli degli altri, visto che anche il soggetto e l’altro sono due forme di categorizzazione prive di margini, a tratti entità addentellate (“Nel mio corpo / scorrono le vite degli altri”), sovrapposte o imcompossibili. Cosicché Bianchera si sottrae alla facile tendenza di congetturare profili certi e si addentra nell’esplorazione dell’informe. Non dismette però lo slancio del sogno a occhi aperti, della visione favolosa con i suoi risvolti miracolosi e intangibili. Sicché una freschezza, un candido sguardo, una levità tracimano dalle pagine, nonostante le dolenti illusioni, in codesta repentina versatilità emotiva, sempre sotto dettato del contingente. E che dire, d’altra parte, quando la natura invia segnali di corrispondenza amorosa tra i suoi diversi elementi, mentre la propria esistenza appare priva di amore? “Il cielo / penetra nell’acqua / che si arrende placida / all’amore”. Lo scarto è certamente da registrare, ma tocca adeguarsi. Inutile tergiversare su giustificazioni, speranze, attese. Il dato viene consegnato con lucida chiarezza allo sguardo divenuto per questo accogliente e comprensivo del lettore.
Il linguaggio è sotto la lente di osservazione di Bianchera, in quanto a esso affidiamo la nostra possibilità di dire chi siamo di volta in volta e che cosa desideriamo. Wittgenstein ci avvisa che il linguaggio interiore non esiste, che noi lo usiamo, avendo appreso dagli altri le regole della sua applicazione, che quello che crediamo interiorità non è che una fioritura linguistica, contingente, con cui esperiamo qualcosa, con il quale ci raccontiamo a noi stessi, dal quale ripartiamo soddisfatti o insoddisfatti. Per questo non si smette mai di parlare. “Non ricordo la storia / di ogni oggetto. / Mi svanisce il ricordo di te”, pertanto si dovrà cercare ancora, scrivendo, un pensiero che ripresenterà la forma desiderata, quella con cui si crede di coincidere: un pensiero linguistico. Si seguono le evoluzioni delle delicatissime forme che Luciana Bianchera rilascia come petali durante le sue sfiorite giornate o come gioiosi strali luminosi lanciati in azzurri cieli. Il loro susseguirsi scandisce il quotidiano in quanto rosario di attimi. Ed è certamente il tempo a funzionare da collettore, aggregatore di istanti percepiti, di sogni, di disguidi, di coincidenze. A tal punto, che è il tempo che, aggregando ciò che è eterogeneo, potrebbe essere definito il vero poeta. La coesione dell’eterogeneo viene dunque effettuata da un agglutinatore in grado di riconfigurare ciò che è sfaldato, di ridare identità a ciò che è non riconosciuto. “Senza lottare”, però, poiché questo sembra essere il quid afferrato, la saggezza raggiunta.
Tutto non è che un “Bastimento di ipotesi e intanto / il cielo si sta annuvolando”. Afferrata nelle maglie delle mille fugaci, iridiscenti o poderose e oscure immagini, Bianchera riesce a tenere ben saldo il timone fra i procellosi eventi e a godersi il loro susseguirsi lussuoso e arricchente. Ricucire, tessere, adombrare, prevedere sono fatiche pari a quelle che Sisifo deve sostenere, ma non è possibile astenersi dal vivere. La morte stessa, ci rammenta Luciana Bianchera, è un pensiero che funziona da sponda, quasi un muro che risponde a ogni nostro colpo. Se gli attimi della vita sembrano perdersi nel nulla, nonostante ciò tutto apparirà anche “meravigliosamente compiuto”.
Rosa Pierno