domenica 7 giugno 2020

Giuseppe Martella su “Figura e fondo: Tirrenide, di Maria Grazia Insinga, Anterem Edizioni, 2020”



“La musica è il piacere che la mente umana prova quando conta senza essere conscia di contare” (Leibniz), “La poesia è una prolungata esitazione fra il suono e il senso” (Valery): fra le più belle definizioni di queste due arti sorelle, le suddette vanno tenute in conto per l’esame della poesia di Maria Grazia Insinga, che pesca nella faglia tra numero e parola per rintracciare le dis/armonie del visibile e dell’udibile. Figure che affiorano dal fondo, armonici che emanano dal puro suono.  
L’essenziale asemanticità della musica può infatti farci cogliere fremiti, “movimenti furtivi del corpo o della coscienza, inaccessibili all’espressione verbale”. Il vissuto in presa diretta. L’impulso sotteso alla rappresentazione. Se nella poesia le parole e le frasi consuete si piegano ai principi del metro e della paranomasia per costituire un unico flusso ritmico-semantico, al contrario in musica è il flusso sonoro a costituire “figure” e “frasi” nel corso di una esecuzione. Poesia e musica appaiono perciò per molti aspetti complementari. Di questa loro reciprocità essenziale può avvalersi al meglio il poeta che sia anche musico in senso pieno, cioè che sappia leggere ed eseguire una partitura musicale. Questo è il caso di Maria Grazia Insinga che compone all’incrocio dei due linguaggi e delle due tradizioni, inventando nell’infimo spazio di gioco fra suono e senso, scavando dentro questa cesura intima (Riss) per abbozzare il profilo (Umriss) della parola-corpo. Lo fa a diversi livelli e regioni della catena dell’essere, dall’individuo all’ambiente, al cosmo, scoprendovi strati nascosti e continenti sommersi; ricomponendo geografia e orografia, memoria e storia, leggenda e mito, in una unica suggestiva sussurrata archeologia mediterranea: Tirrenide, che intreccia un ideale dialogo con l’Atlantide platonica, arricchendo la trama dei possibili rimandi, la polifonia del testo poetico, componendo una sinfonia dell’esserci nella varietà delle pieghe del linguaggio. Poeticamente, musicalmente, indaga nei tagli minimi tra vita e forma, tra essere e coscienza, riuscendo così a conferire un nuovo respiro al progetto della poesia in quanto tale. 
Insinga cerca insomma di recuperare il senso pieno del luogo dove vive e fare della sua terra un mondo dagli infiniti echi, mostrandoci tangibilmente come il suono, “l’assoluto non verbale”, possa farsi strada nel cuore della parola e sedurla verso l’innominabile. E come reciprocamente esso possa annidarsi nelle pieghe del discorso e convertirsi alla passione della parola, cioè alla verifica del senso, al sacrificio dell’indicibile al dicibile. Perciò ella evoca la varietà timbrica che attraversa i nostri corpi e lascia traccia nelle condensazioni e nei traslati onirici, facendone simbolo di un continente sommerso: Tirrenide è una allegoria quanto mai attuale di questa ambigua e incompiuta rivelazione. Sicché il suono vi accade come lacerazione delle figure del discorso in cui si innesta, come seme di una mutazione incipiente, sostrato del senso che affiora nelle sue intime pieghe, nei ritmi variati e nelle pause calcolate dei versi, nelle appena accennate dissonanze che ci avvertono che qui si tratta di quella musica del Novecento che corre sul filo fra distonia e silenzio. Ma si percepisce specialmente in questa poesia la consuetudine (forse improvvisamente interrotta) con uno strumento, il pianoforte, che filtra nella discontinuità della sua tastiera il continuo sonoro del mondo, in una dialettica proficua fra continuo e discreto, così come fra legato e staccato, un gioco di pedale difficilmente percepibile dai non addetti ai lavori. E tuttavia il testo nel suo insieme possiede una cristallina chiarezza, una forma nitida e una cadenza orecchiabile: ma il filtro strumentale del pianoforte ne sottende e orienta tutti i procedimenti poetici, coniugando il controllo e l’abbandono, l’entusiasmo e la tecnica, in una sapiente e suggestiva traduzione sillabica della materia sonora. E quindi qui si tratta di un’esperienza al limite, di una offerta e una sfida reciproca per la composizione e per l’ascolto. 

Tirrenide è un’opera in sei sezioni asimmetriche, versi e strofe irregolari, con abbondanza di eserghi e assenza di punteggiatura, eccetto qualche raro punto interrogativo. Inizia con una sestina che reca il titolo “dizionario verdiano” e costituisce una parodia atonale della ouverture in quanto forma sia operistica che sinfonica. In essa incontriamo subito l’ossimoro della “voce muta”, che sta nel contempo per voce trattenuta nel corpo (“voce-corpo”) e voce che muta precipitando “di un’ottava sola”, rovinando “in un dirupo liquido”. Immediatamente appaiono dunque la figura retorica e l’opposizione paradigmatica, solido/liquido, terra/mare, che caratterizzeranno l’intero poema, messe a tema in controcanto seriale, con la ripetizione finale “piano piano” che si può bene intendere come una indicazione agogica: “muta di voce di pensiero muta/ di corpo voce muta voce corpo/ voce e muta voce e precipitasti/ di un’ottava sola e rovinasti in/ dirupo liquido e rovina e muta/ voce muta il terzo piano piano. (8)
Così esplicitamente, anzitutto attraverso la permutazione insistita dei due termini dell’ossimoro “voce muta” su una ideale scala cromatica di dodici note, si attua la ricreazione verbale di un pensiero musicale immanente al testo. Già dalla lettura di questo primo lacerto della “voce corpo” si possono afferrare dunque il tenore e la portata della invenzione poetica di Insinga, nonché la finezza della tessitura armonica sottesa al dramma dello sprofondamento del corpo della voce (genitivo soggettivo e oggettivo) nella liquidità ritmica e fisiologica che la sottende, e si espande poi quasi naturalmente nella orografia ed ecologia mitiche di un continente sonoro sommerso, sotteso alla produzione di senso nel linguaggio verbale. E più in generale alla costituzione dell’accordo elementare o del simbolo (in un qualsiasi linguaggio) attraverso cui si possa poi esprimere l’emergenza di una singola forma di vita o di coscienza. Si tratta dunque di un’operazione radicale sul suono e sul senso, nel discorso in versi, quasi un equivalente di quel miracolo di ricreazione musicale in prosa che è il capitolo di “Sirene” nell’Ulisse di Joyce.   
Non si potrà certo seguire in dettaglio tale reciproca trasfigurazione di cellule semantiche e musicali, nell’ambito di una recensione e neanche di un breve saggio. Ci si dovrà perciò accontentare di esempi e lacerti che supportino il quadro ermeneutico delineato e il difficile orientamento dell’ascolto. Perché è un bilinguismo sapido e anfibio, voce e carne di sirena, quello che regge questa incredibile s/composizione di luogo nel linguaggio verbale, coinvolgendo terre e mari, l’emerso e l’immerso, il maschio e la femmina, i vivi e i morti, tutti evocati nel dialogo a distanza fra un pianoforte inceppato e un corno magico. In uno spazio tensorio che, come suggerisce Devicienti nella sua bella postfazione, evoca curvature gravitazionali e salti quantici, benché solo per analogia e alla lontana. Certo Maria Grazia Insinga è poeta colta, vigile e attenta, che mette poeticamente a frutto quello che sa del mondo. Ma ciò che davvero caratterizza il suo dettato è il dialogo competente e sorvegliato, benché vissuto in prima persona e sulla propria carne, fra il verbale e il musicale. Al di là di ogni pur suggestiva analogia, qui si tratta del tentativo consapevole di una ardua, reciproca trasposizione tra versi e frasi musicali, nello spazio minimo e incolmabile tra senso e suono, tra figura e fondo, tra la geografia delle terre emerse e la mitica Tirrenide. Un progetto peraltro perspicuamente riassunto nell’esergo della seconda strofa: “sotto una lingua a rullarne un’altra/ scava intere città cammina sull’acqua” (9)
Così al pianoforte muto, per qualche guasto o per un trauma subito dal suo esecutore, fa riscontro il “corno magico”, simbolo di fertilità nelle antiche religioni e connesso in Grecia alla potenza del canto di Apollo che sfida la legge del tempo uniforme, astrale, dettata da Crono o Saturno: cioè risolve in musica i decreti del cielo. Mi piace leggerlo così questo richiamo al corno che evoca l’emersione delle specie dal mare, facendo da ponte modulante fra l’acqua e l’aria: prende “a cornate l’aria l’aria vince”, (10) portando agli uccelli il canto della balena, costituendo un vertiginoso riepilogo di traiettorie evolutive all’interno delle modulazioni seriali delle parole e dei sintagmi verbali. E che a me ricorda in particolare il trio per corno, pianoforte e violino di Ligeti, dove il suono dello strumento a fiato, più vicino al respiro umano, media proprio la tensione fra il continuo degli archi e il discreto delle percussioni. 
Questo è solo un esempio di ciò che è sotteso alle parole e ai versi in questo testo, dove il dubbio e la predizione, l’esitazione e la scelta dell’esserci vengono evocati in una “lezione di scetticismo” svolta di nuovo in controcanto atonale col severo modo ipodorico, proprio della musica greca antica, con la variazione insistita sulla parola “dopo”, che conferisce una inflessione ironica a ogni tentazione escatologica: “e tanto diremo è tuttodopo/ora e non saremo e mai” (10). Perché “tutto è nuovo” in questa musica da bere che inghiotte parole e cose sul filo del rumore bianco come in una unica radiazione cosmica di fondo. In questo ponte fra suono e senso si innesta subito un riferimento esplicito (“tutta quella musica per una malatesta/e quella poesia per una malagrazia/l’idioma nascosto è pioggia oro”: 12) a un’opera di un compositore siciliano che funge come da specchio a questa di Maria Grazia Insinga. Un’opera dove la parola tenta proprio di riaffiorare a nuovo, in una sorta di palingenesi, emergendo dal suono stento, come il conato di una forma di vita nei cicli evolutivi, sull’orlo del silenzio, sull’abisso del buio. Si tratta di Mie luci traditrici (dramma vocale strumentale in due atti, musica e libretto di Salvatore Sciarrino, che verte sulla traduzione musicale del tradimento della parola data nel vincolo del matrimonio): perché quei “malatesta” e “malagrazia” che incontriamo in epigrafe di questa strofa, costituiscono un preciso rimando agli ominosi “Malaspina”, protagonisti del dramma del compositore palermitano. Dove quello della latenza del senso nel suono, del suo stentato pervenire alla parola e all’accordo, cioè della difficoltà della enunciazione sia verbale che musicale, costituisce il tema portante e il principio strutturale dell’intera composizione. Questo preciso rimando non indica però affatto una somiglianza nei procedimenti compositivi di Insinga e di Sciarrino, quanto piuttosto la loro significativa complementarità, la specularità dei loro percorsi dal suono alla parola e viceversa. In bilico entrambi sull’abisso del silenzio e sul buio che sottendono la trasmissione della parola e l’inganno dello sguardo. 
Un conato che diviene del resto esplicito (nella strofa seguente) in quel “corpo fonema”, in quel “precipitarsi” della parola-corpo nel “dirupo fonetico” sul filo del grecale che alimenta l’incendio appiccato nella macchia mediterranea (su una sponda del tirreno che ben conosco), fra terra e mare, dove calma la mano del poetacorregge la linea del fuoco”. (13) Tirrenide: la casa sottosopra della veggente palombara, tuffatrice, sirena, scandaglio e diapason di questo mare di segni e di suoni. In una logica arcaica, preumana, “non binaria”, musicale e biologicamente neutra, in un linguaggio “privato e privativo”, che esula da ogni politica di genere, andando molto più a fondo, fino a indagare il transessuale delle pietre e dei fiori: orchis, “orchidea e testicolo”. Linguaggio della mescola dei vini e dei colori nostrani: vin santo, inzolia, cataratto; spremiture di colori e di timbri, in un rito quasi eucaristico che ci porge l’ostia purificata dell’isola: “soffice santa pantelleria tutta oro colato”. (13-15) Una s/parizione nel silenzio minerale, dove pure può scorgersi qualche crepa, perché le pietre hanno “momenti di debolezza” (16) e cedono al ronzio animale dell’orto in un mondo aurale (mero suono) dove non c’è niente da decifrare e di cui la poesia è la carne, il poeta il carnefice. E ancora più indietro verso il cataclisma della sparizione del suono, del ritrarsi nel silenzio di un primo tempo e spazio insufficienti, dove la stessa fine di qualcosa (chissà, forse l’ascolto musicale), si risolve ossimoricamente e umoristicamente in una risata muta. In un dialogo primordiale che la poesia tiene con la musica che la sottende e che rimane precluso ai critici letterari e alle loro “dediche inopportune” (17). 
E’ in questo luogo arcano che si svolge lo smembramento rituale (sparagmos) della voce e la teofania della sirena che getta la propria ombra monca di braccia e dita sullo spazio anfibio tra la costa orlandina e il mar tirreno, sul confine eolico della “iancura”. In questo orizzonte apocalittico, “mentre gli emisferi /ribollono fino all’artico”, il sacrificio estremo del corpo-voce tenta di raccogliere e dire poeticamente (léghein, logos) la catastrofe ambientale nella cavità orale, sul farsi del nulla sul farsi del verso”, (19) dove si fondono “acqua luce fuoco o buio” e si compie lo sfinirsi di ogni figura, la regressione verso l’infanzia della parola, la caduta libera del senso nella evanescenza del suono, la confusione delle forme nel diafano della luce. In uno sviluppo dove ondulatorio e corpuscolare, melodico e percussivo, continuo e discreto si alternano e si integrano a vicenda in quel continente sommerso (Tirrenide) che non potrà di fatto mai più riaffiorare. 
E’ in questo orizzonte eolico (sul filo di iancura) che si svolge il dialogo ancestrale fra il sé e l’altra, la donna e la sirena, la poeta e la musicista, due facce della stessa medaglia: inverse e incompatibili, profili complementari che appaiono come in un esperimento subatomico, quello che la parola tenta di intavolare con la musica che la sottende e dove la solida materia verbale si risolve in fugaci accordi e pure frequenze, s/comparse di onde sonore o luminose: fremiti e vibrazioni dell’esserci.  In questo orizzonte ominoso, compare prepotente “idda” (21), teofania di Ligheia, quella Sirena che ha stregato per sempre il professor “La Ciura” nel racconto eponimo di Lampedusa. Epifania dell’Altra (intima e perturbante) cui espressamente non è accordata alcuna dedica in questo testo, ma il cui fantasma ubiquo sempre aleggia, ibrido fra la sirena e l’uroboro (“le dita di serpentessa lungo pendici/ vesuviane fino ‘a muntagna miele” (21): il drago primordiale che si morde la coda, simbolo complesso dell’eterno ritorno di ciò che è perturbante ma che qui rappresenta anche lo disseminazione rituale del canto antico della sirena nelle volute del verso: la scomposizione del suono che presiede alla donazione di senso nell’atto di parola. Uno smembramento che poi si precisa come “amputazione della mano”, una sorta di pegno pagato per quel dono della veggenza poetica che fa tutt’uno con la consapevolezza di essere sempre in ritardo sugli eventi e incapaci di coglierne appieno il senso: “sul far del verso eravamo in ritardo/ per non essere in tempo in ritardo/ inevitabilmente e dunque dunque” (21). Si tratta perciò qui di una vera e propria imputazione del talento poetico all’amputazione della mano che suona il pianoforte, nell’alternarsi di battere e levare, di anticipo e ritardo, in quel minimo fuori tempo che ci sospende sul nulla. In questa intima onirica alterità, l’impotenza delle mani fa tutt’uno con l’efficacia della parola e dell’immagine poetica che ne costituiscono il supplemento - al limite fra sogno e veglia, sul ciglio-fiore (ophyris) del discorso, sull’orizzonte diafano della iancura: “lei è ancora sonno/ la compressione dei nervi il formicolio lei/ alle mani… non potenza” (39). Così la mano amputata e inerte, sacrificata, si può considerare la parte “male-detta”, la sineddoche portante di questa mirabile trasposizione verbale di armonie e fughe musicali, sottese e impedite, o solo affioranti nei tagli di correnti equoree che vengono dal fondo, disegnando labili figure in superficie. Tra il sonno e la veglia, tra ripetizione e differenza, nel corso discontinuo del tempo, dove è futile nominare gli eventi, affiora a tratti il continente sommerso della musica sulla superficie della parola: in un dramma filogenetico oltre che esistenziale, dove l’altra dorme in un altrove liquido mentre la terra si fa più deserta.  
L’alter ego della poeta, la sirena che le dorme in petto, “nel sogno non decifrabile” (41) si precisa così nella ferita intima e nel contorno effimero di un’unica figura: l’altra è il fiore dell’acqua, ophirys, l’orchidea/orchide, il sopracciglio, il limine, il supplemento, lo svolazzo primordiale, la firma a margine di queste pagine, la sigla di quel patto po-etico, di quella presunzione di senso richiesta dal discorso in versi e accordata dal lettore, ma fino a un certo punto. Questo senso della misura metrico-morale è un altro tratto saliente della poetica di Maria Grazia Insinga, che non chiede mai quell’apertura di credito in bianco che altri poeti pretendono in virtù del loro essere “musici” (mistici, orfici, sperimentali). E benché ella sloghi all’occorrenza la sintassi verbale in funzione dell’effetto inteso, non arriva mai a torcerle il collo, non la sacrifica in nome di una arcana musicalità ma piuttosto fa interagire i due linguaggi in parallelo, attraverso la costruzione di serie armoniche che attraversano lo sviluppo tematico del testo, secondo frequenze variate che vanno ben al di là della misura dei versi o delle strofe. Ella tenta insomma di estendere musicalmente la variazione ritmica a tutte le dimensioni e i parametri del testo, come accade in buona parte della musica colta del Novecento, creando un continuo verbale allargato di flussi e riflussi, sprofondamenti e affioramenti, in un dramma che è musicale, appunto, ma nel contempo geologico ed ecologico: Tirrenide
 In questo orizzonte archetipico si proietta il dramma intimo, l’agone del corpo-voce e della sua caduta nell’indecifrabile onirico musicale. Un movimento che si incrocia con quello inverso della mutilazione della mano della pianista cosmica, che la costringe a rivolgersi alla parola e a stravolgerla poeticamente dal suo interno, seguendo le correnti e le esondazioni improvvise (“lei incurante esonda”: 40) del mare onirico musicale dove ancora vive l’altra che la abita, la Sirena dal canto insostenibile. L’inseparabile sorella che la attira sul fondo, in una casa preclusa agli umani, nella spirale del tempo (“corno completamente vuoto”: 41), nell’immemoriale del sonno e del mare, congiunte solo dall’inconcepibile ponte modulante del sogno, in  quanto passaggio formale da una sezione all’altra del vissuto planetario. E tutto ciò sul ciglio dell’abisso, sul limine e sul supplemento della parola, Ophyris (fiore del discorso e ciglio del volto della sirena). (43) Nell’intimità del frammezzo, dello stacco (Schied), della di-afferenza terracquea reciproca (Unter-Schied) che nell’esserci ambiguo della Sirena fa la “recreazione” del mondo in quest’opera, come la concepisce la sua autrice. Sulla soglia dell’udibile che ora si manifesta anche come orizzonte del visibile: “iancura”, la luce biancoceleste eolica, il limite quasi impercettibile, sfumato fra cielo e mare in una giornata di bonaccia. Margini e tagli d’orizzonte che perimetrano questa ricapitolazione onirica della genesi del vivente fra mare e terra, che fa tutt’uno con l’invenzione della parola poetica sul fondo ritmico-musicale, quel “sovrappiù di armonici” (44) che sottende la scansione dei versi e che fa sì che essi non possano essere segmentati alla maniera solita ma che piuttosto debbano essere ingoiati interi come in un atto di cannibalismo, nel sacrificio arcano del discreto del linguaggio al continuo musicale che lo pretende dal suo fondo. Perché “la voce e il libro sono la stessa cosa/ma la voce preesiste nella coesistenza” (45) Così, di passaggio, in questa metamorfosi marina della parola, può anche leggersi una dichiarazione di poetica. Perché qui, dove non si “distingue la fine dall’inizio la destra da sinistra” (45), sulla soglia del visibile appare la figura della Sirena (fusa con quella del serpente primordiale, simbolo di tutti i cicli) aspide mutilata delle mani, che compone sillabe in accenti e pause, scrivendo “la lallazione del tempo” sul limine del bianco celeste mutismo, nella iancura dove si intravvedono le Isole Eolie dalla costa tirrenica, da quella sua Capo d’Orlando che assume le fattezze di un “punto cieco di non ritorno”, per la voce poetica che scaturisce dai confini della terra (Finisterrea: 27).
Insinga trasfigura così la propria vicenda e la propria dimora in un orizzonte archetipico dove si svolge il dramma dello sprofondamento del linguaggio verbale sul suo fondo musicale. Dove il “pensiero piatto” cede ciclicamente alla “evoluzione di strutture sottomarine” (45). Dove il poema si consuma nel “flutto oceanico del ventre suo” (49) in un disordine anfibio, sui cui margini di spuma si svolge questo trasumanante dramma in versi, “tra voce primaria e secondaria” che farebbero “profonda/ perfetta coincidenza…se non ci fosse il tempo” che induce sfasamento tra le battute, tensione ritmico-melodica nell’unità poetica dell’esserci. “Il tempo grande scultore” (50) che pietrifica la musica nella parola agita e sillabata, in quel dialogo poetico-musicale che ora si conclude in un finale aperto, una sorta di naufragio con spettatore dove al calare delle notti, nello sfinimento dei giorni, quasi non ci si accorge neppure che questa “progressione armonica…di strutture sottomarine” (45), “diluvio e rovina e numero” (47), opera di “mala grazia” (51) è finita, o quasi. Che sta per concludersi insomma il dramma congiunto di corpo, voce e sguardo, dimezzati, anfibi e per ciò stesso veggenti. Mentre le due “divise invise” (52) facce dell’io poetico, l’una all’altra segrete, tuttavia aspirano all’intero (54): a una arcana, provvisoria congiunzione dell’esserci e dell’epoca, all’ecpirosi, al miracolo di una rigenerazione congiunta per aria e per fuoco.  

Giuseppe Martella

sabato 23 maggio 2020

Giorgio Bonacini “I segni e la polvere. 52 poesie distrattamente felici” Premio Arcipelago Itaca – 5^ Edizione, 2020




La perfezione non è di questo mondo. Dobbiamo confrontarci con la nostra forma umana, con i nostri limiti. Ma quel che potrebbe essere ambientato in uno scenario  postumo alla cacciata dal paradiso, forse è da trasporsi in ambito prevalentemente culturale, in un teatro che assume connotazioni plurime, dove il canto dalla terra è già canto mahleriano. Ma è anche canto strutturalmente insito nel tessuto poetico, con le rime (guerra/terra/afferra) che intessono fili di autonoma significazione, istituendo un testo all’interno di quello principale e disponendosi in posizioni ogni volta differente, in uno schema iterativo vario. Proprio la rima istituisce il doppio fondo di ogni elemento: ad esempio ristagna/cuccagna, scivoloso/amoroso, fioraia/pietraia, buddista/ nichilista, bagliore/vapore. Nessuna cosa riposa su se stessa ma si avvita nel torbido, solleva fango, da che leggiadra era.
Alla doppia chiave di lettura, che il testo istituisce anche tramite l’incantamento sonoro, è da far risalire quel sorriso freddo, guizzo cinico che diaccia la pelle, derivante da una consapevolezza non deponibile.
Lucida è la torsione con cui si passa dal mero dato fisico alla meraviglia della creazione culturale, per poi ricadere nel disordine dell’equivalenza segnica.


Umida allora
di liquide siepi
non è la distanza
né il muoversi 
troppo che assorbe 
nel ritmo 
un tamburo di guerra
ma ninnoli e note
nel canto alla terra
che ha perso
il teatro
e per te lo riafferra


La tensione fra ciò che si ascolta e ciò che si osserva è centrale. Parrebbe  l’umano venire travolto dalla cascata di percezioni che riceve. Pur anche dagli schermi tecnologici arriva il frastuono che asseconda la volontà di perdersi. Il paradiso appare come di seconda mano, tutto sfavillii e vetrini luccicanti, sbornia che satura e rende satolli. E dentro questa vorticosa congerie di stimoli visivi e sonori, si scorge l’essere umano ridotto a figurina.





La risposta
che addolcisce
e non scolora
ebbra
libera e ciarliera
più fruttifera 
l’ampiezza della voce
fa da gnomo                                           
innomine nel vero
e si appassiona
al finto niente
al quasi uomo


Con la trasmissione del senso di disorientamento, l’incapacità di leggere i segni, pur se affascinanti e scintillanti, con le sonorità colorate che fanno scivolare le strofe verso un fondo più aspro, la silloge precisa la propria ossatura attraverso il lessico preso in prestito da vari ambiti o, meglio, indagando le varie sfere dello scibile, dove non si riesce a trovare un filo comune per le numerose paratie stagne dei metodi conoscitivi. In un frastuono che somiglia alle bolge infernali, l’uomo si trova a essere non più artefice e creatore del proprio destino, bensì un soccombente che sprofonda sotto i colpi delle proprie creazioni.

Giorgio Bonacini passa al vaglio l’ambito artistico col suo reggimento di chiaroscuri; verifica il portato dell’osservazione naturale, ove persino le creature più semplici, ragni, lombrichi, mosche appaiono incombenti; confronta il campo religioso e filosofico con i termini che si oppongono in una guerra il cui il solo scopo pare l’eliminazione dell’avversario. Ed è certo la parola la prima colpevole, essa attraversa tutti gli ambiti conoscitivi e sembra avere da dire qualcosa in tutte le situazioni. Pur anche nel dolore inconsolabile, sembra avere la protervia di voler esprimere un senso a tutti i costi.

Qui si può dire di tutto
se basta un rifugio
un asilo
un’età sottovoce
a far strazio di noi
senza indugio
o  pensare
a un’astuzia precoce
che spazza i dolori
con tanti saluti
duemila alfabeti
e una mano         

L’inganno è ovunque: “un istrione fraudolento” ha forse costruito il labirinto dello spaesamento, della perdita di riferimenti certi, della terra labirintica. Quasi un contrappasso che a ogni avanzamento faccia contemporaneamente retrocedere, che a ogni azione faccia conseguire il suo risvolto negativo.

Sebbene ampie chiazze di cielo sereno, a volte, rammentino che cose splendide accompagnano la nostra esistenza; che basta guardarle, per trarne beneficio, anche se non si sa come collocarle nel sistema generale. Coloisce che finanche una vita ridotta al puro dato esistenziale, fatta di piccole percezioni e di frugale consumo, divenga, rispetto alla pagina con la quale il poeta si rapporta, il vero specchio di una non abbattile propulsione alla parola. E non è d’altronde, questa, una poesia di ridotti, minimali termini: “e mi spengo/e intrattengo pensieri/con l’aria che pare non sia /quella pagina in cui /come sai mi contengo”.

La propensione poetica, pur espletata con rigorosa disciplina, utilizzata come strumento per diradare il caos, far chiarezza nella confusione, setacciando ciò che è spurio rispetto al puro,  è forse anch’essa una chimera? Eppure, uno spiraglio si palesa: all’artificio si può opporre la rete sottile di apparenze percettive, diafane, larvali consistenze, trine e brine da cui dedurre un sostrato meno fermo, eppure altrettanto consistente per la ricerca che raccoglie pagliuzze d’oro, qualcosa intorno alle quali si possa disporre la pagina così come pure la propria esistenza. Tuttavia, la risposta conclusiva non sembra benevola, perché intanto Bonacini ha  condotto un’aspra, serratissima critica alla sua postura umana, ricavando forse una misura tra la sua attitudine osservativa, la sua inclinazione alle cose prive di apparente importanza e la sua visione finale. Ma, la nostra considerazione del viaggio che queste cinquantadue poesie assemblano è quella di un poema che vale come indagine su di sé e sul cosmo e del fatto che dalla loro finita intersezione si aprano spiragli gravidi di nuovi avvii, privi di illusioni.

                                                                                                        Rosa Pierno


                               

                                      

venerdì 8 maggio 2020

Laura Caccia su “Il contorno dell’ombra” di Rosa Pierno, Oèdipus editore, 2020




Un baratro, certo. Quello che un artista o un poeta, nella tensione che ne alimenta l’opera, continua ad affrontare, a scavare. Con il gesto. Con la parola. Nel confronto tra visione e invisibilità, sguardo ed enigma, corpo e desiderio. Quando il gesto e il linguaggio sono impregnati della stessa frattura che una diversità radicale rispetto alle forme espressive e comunicative ordinarie pretende dal pensiero, dal tratto, dal dire. L’esodo dal senso apparente. Il ritrarsi da sé. L’esporsi a una visione sconosciuta, a una parola altra. 

Quello che però Rosa Pierno dichiara, fin dalla premessa, è la condizione di chi vive la frattura non solo come dirompente tratto comune alle due forme espressive, ma soprattutto quale inevitabile abisso che, tra le personali esperienze, poetica e artistica, ne spalanca gli arrischiati passaggi. Mettendo in luce “il baratro tra lo scrivere e il figurare”, sottolineando “lo iato, i regni senza ponte” del suo operare. Un muoversi continuo, spostandosi dall’una all’altra forma, che tra di loro mantengono in equilibrio la comune ricerca, linguistica ed espressiva, ma che lasciano l’autrice costantemente in posizione precaria su una voragine. Come un funambolo su un filo teso su un precipizio, tra opposte sponde. Da una parte il dire, con il suo profondo di parola e pensiero. Dall’altra il gesto, con il suo intenso di materia e visione. 

Cosa comporta passare dall’una all’altra sponda in modo da portare con sé tutto il sommerso, tutto l’oltre, tutto il perturbante che il pensiero sul visibile e sull’invisibile, da un lato, e lo sguardo sul naturale e sull’artificio, dall’altro, richiedono per farsi autentico procedere nello scrivere e nel figurare? Quello che appare pacificato nel lavoro critico che l’autrice porta avanti con passione, muovendosi in un territorio condiviso di ricerca e di esperienza di forme e linguaggi altri, nella presentazione di mostre d’arte e di pubblicazioni poetiche contemporanee, qui dichiara le sue lacerazioni. Il contorno dell’ombra mostra la scelta arrischiata di attraversare ogni volta il dirupo, “un andare e venire senza remissione”, tra partiture linguistiche e campiture di linee e colori che pure condividono la stessa tensione, lo stesso desiderio, lo stesso destino.

L’opera si muove tra pieni e vuoti, luci e ombre, visibile e invisibile, materiale e immateriale. Con una scrittura ricercata, dove la parola a tratti si distende come campitura di colore obliante di sé, a tratti incide come linea graffiante, a tratti ancora si inabissa come ombreggiatura e mistero. In un contesto dove l’artificio domina la scena quale mezzo per ottenere immagini e visioni che vengono occultate dall’aspetto visibile delle cose. “In un continuo scambio tra pieni e vuoti, tra volumi e piani, non è di poco peso l'artificio che ivi si attua”, dichiara Rosa Pierno. Quell’artificio che dà titolo a un lavoro precedente dell’autrice. Che crea fisicamente, e non solo mentalmente, la cosa che nomina. E che, nella raccolta, costituisce l’azione sottostante ai temi che si confrontano ripetutamente nel corso dell’opera: gli oggetti e la loro disposizione miranti a dispiegare un’inedita visione del reale, il gesto e il tratto intenti a modificare il visibile, il corpo e il desiderio mossi ad assediare le immagini, il pensiero e la parola tesi a sporgersi sull’oltre. Attraverso movimenti, in parte messi in atto, in parte lasciati accadere, colmi di inquietudine e di perturbanza: inseguire il contorno dell’ombra e l’enigma che porta con sé, dare forma al vuoto e all’assenza, approssimarsi all’invisibile e creare nuovi mondi, a partire da una diversa, sconcertante visione.

L’artificio che sostiene la sistemazione degli oggetti nella ricerca di una percezione ulteriore agisce come chiave dissonante per farne, e disfarne, immagini e parole. Gli oggetti scelti, tra gli altri panni, ciotole, vasi, bottiglie, pomi, conchiglie, biglie di vetro, fossili, raccontano di un’età arcaica, dell’infanzia dell’autrice, di ritrovamenti casuali, di “forme nascenti e forme in disfacimento”. La scelta della disposizione degli oggetti, nelle nature morte e nelle composizioni oggettuali, da Caravaggio a Cézanne, da Picasso a Braque, da Morandi a Carrà per citare solo alcuni degli innumerevoli artisti che ne hanno fatto molteplice espressione, è parte affascinante della storia dell’arte. Qui gli oggetti, nel loro assemblaggio casuale, diventano comparse in uno scenario incongruo e straniante, dove “recitano una parte impropria, si muovono quando dovrebbero restare in posa e tendono a irrigidirsi se insediati dall’oscurità”. Dove quanto appare “si manifesta a chiazze, a zolle, a morsi”, immerso senza legami in un contesto frantumato e suturato, dove nessuna cosa somiglia a se stessa, molti oggetti sono nascosti, altri sembrano appartenere a un altro mondo. Dove i contorni non coincidono con la forma delle cose. E dove, alla fine dell’opera, sarebbe potuto succedere che un vaso “non sapesse quale profilo scegliere”.

Ed ecco allora il gesto che traccia linee e stende i toni. Non solo per soddisfare il bisogno di dare a forma a un cosmo disgregato, poiché “Mondi conclusi esistono solo sul foglio”, così come il desiderio di entrare il relazione con gli oggetti, quando non si ha “altro modo di possedere tazzine e piattini, forchette e bicchieri, collane e pietre, limoni e teiere che disegnarli”, ma anche per mettere a fuoco tutto quello che la visione e l’artificio creato mettono a rischio nel rapporto con le forme del reale. “Il contorno crea scompiglio, anziché suggellare, con morbida mano d’amante”, scrive l’autrice. E, da qui, il gesto si muove seguendo le crepe, creandone a sua volta, imbastendo cuciture, “creando un ponte che instauri almeno un guado, una possibile intersezione”, lasciandovi comunque sfregi e cicatrici. A volte il tratto è “delicatissimo, come uno sguardo che si esima persino dal carezzare”, altre volte, con il colore, “strìa, erode, sdrucciola, scava”, spandendosi oltre i margini, ambiguo e dissonante. Assecondando soprattutto l’artificio che la visione e insieme il gesto della mano testimoniano, quella “sproporzione esistente nell’animo umano, che dalla natura trae un concetto artificiale”, mettendo fuori scena il sé e il pensiero razionale, abbandonandosi al gesto: “Non scrivo di me, disegnando. Colorando non afferro concetti. Meno il tempo per l’aia, ramazzo le foglie, riordino e sistemo. Il mondo, così come dovrebbe essere.”

Il corpo, però, non dà tregua. Così il desiderio. “Pensare un’immagine è avere un desiderio nella mano”: nel passaggio continuo dal corpo al foglio e viceversa. E così il lavoro si fa ininterrotto, necessita di continui reinizi, di ripetizioni del gesto, del tratto, del dire. Le cose stesse paiono rinnovare la loro nascita nell’uscita dall’indefinito originario, nature morte e vive che abitano “nella memoria e nella fantasia, assediate da una brama senza fondo. Raggiunto che abbiano un supporto, si fossilizzano, strappate per sempre all’indistinto”. Così il corpo. Nel suo stretto rapporto con il supporto cartaceo, con cui condivide ripiegature, strappi, rianimazioni: “Il disegno tenta la forma di quel che gli sovviene senza conoscerne che il desiderio. Poi, sulla carta, l’afferra e la finisce”. E il corpo e il foglio si richiamano l’un l’altro, si intrecciano in una danza aggrovigliata, si arrischiano in una navigazione pericolosa e sofferta: “Un io emerge sempre tra i flutti e sempre, nuovamente, alla vista scompare”. Sulla carta il corpo si inabissa, soppresso, estinto, portando la scena ad un’estraneità che appare persino tale a chi la disegna, e insieme riemerge, infranto e tuttavia in cerca del suo intero: “Quando tratteggi e corpo avranno la medesima consistenza, il disegno sarà terminato”. Dopo averne stanato memorie e desideri, tra secche e infossature, “alcune parti della figura, al fine, galleggiano nuovamente sulla carta, ricomponendone l’unità. L’ideale corpo.”

La mente che sostiene l’artificio messo in atto, alternandosi ai momenti di abbandono, parte dalla scelta di guardare il reale per andare oltre, per mettere in dubbio la visione, per scardinare il visibile. Con pensieri altalenanti: “I pensieri plumbei, gettati alla rinfusa o ordinati e impilati; i pensieri vaghi e incerti che arpionano il cielo e sono privi di concetto; i pensieri che al reale ritornano solo per meglio distogliersene”. Il visibile, con cui la mente si confronta, necessita di essere dissolto, smascherato, sia attraverso azioni di dispersione della concentrazione, per cui la “realtà diviene un coacervo, un grumo indissolto, un rebus irrisolto”, sia attraverso pensieri e gesti volti a creare la visione di un altro, più armonioso e integro cosmo: “L’artista osserva la natura e la emenda con la linea e il colore. Ha in mente un esempio superiore di armonia, un mondo che solo sulla carta appare coeso”. Anche in questo caso, come per il corpo, da riportare a unione. Nello stesso modo la parola cerca la sua unità originaria. Qui, tra le pieghe di un paesaggio insonoro, tutto gesto e visione, corpo e tensione, tra le aperture e le brecce, nei “passaggi mai abbandonati tra vocaboli e colori.”.

Quello che impregna di altro da sé questo paesaggio in cerca di coesione e unità è innanzitutto l’ombra che “vi è elargita come enigma da decifrare”. L’ombra che ha sostanza propria, che si muove in libertà tra gli oggetti. L’ombra che costituisce l’essenza delle cose, che ne garantisce l’esistere: “I volumi ricompaiono asserendo che un’ombra l’hanno ancora. È il rimasuglio della loro volontà di esistere. Un limone è forma e ombra insieme”. L’ombra che nel tratto assedia la materia, che alla fine vi coincide. L’ombra che consente di disegnare le cose non presenti. L’ombra che sulla carta risucchia l’io. Così l’assenza e il vuoto prendono posto sulla scena. Anche il vuoto ha materia sua propria, “è un oggetto a cui repelle il colore” e chiede cura: “Rende felice la decisione di portare la matita sul campo aperto, di vedersela con un segno, il quale impegna il sé in un vuoto ulteriore”. Così come l’inesistenza delle cose, da evidenziare con l’ombra che separa i molteplici contorni di ogni cosa e a cui dare “la massima enfasi, addirittura mettendola al centro della visione. Non si tratta che di dare a bere l’invisibile”. E la parola, mentre parla delle cose del mondo, non parla di questo mondo. Le stesse cose, come le conchiglie, non sembrano appartenere al visibile. E il disegno compone opere infinite “più di quelle che compie la natura” e alla fine si invola “per gli aperti campi, invade e allaga. È un cosmo in rivolta, che soppianta il noto con l’ignoto”.

Questo portare alla ribalta ciò che l’apparire occulta, questo esporre e insieme esporsi nell’aperto della scena, non avviene in modo semplice e indolore. È un infinito ritrarsi, in cui “ne va dell’apparenza del visibile”. Un ritrarsi del reale e dal reale. Della scrittura e dalla scrittura. Di sé e da sé. Dell’altro e dall’altro. Nel tratto e nel ri-tratto. Nell’ambivalenza del ri-trarsi, nel trarsi indietro e insieme raffigurarsi. Quel ritrarsi che, in tale senso, è stato oggetto di riflessione sulla parola e sulla visione, sul linguaggio e sul ritratto, da parte, in particolare, di J.Derrida e J-L. Nancy. E, nello stesso tempo, un estrarsi. Trarsi fuori da sé. Fuori dalla realtà visibile. Fuori dal disegno: “esco dal quadro, non voglio ridurmi a cosa”. In un agire in cui convivono infinite possibilità e infiniti rischi, bellezza e minaccia, artificio e pericolo, Rosa Pierno ci mostra, ancora con un’opposizione, i due aspetti che, nel suo operare, convivono e insieme ne lacerano il fare: l’abbandono al gesto che traccia la scena e insieme le minacce di sopravvento da parte del fondale, la fiducia nel proprio tratto che crea nuove visioni e nello stesso tempo la soppressione sulla carta di sé, la ricerca continua di armonia e la sfida che dissonanze e disarmonie le pongono di fronte. Da un lato “le ore spese a disegnare saranno quelle della giusta comprensione, del valore esatto delle cose, quelle dell’equilibrio totale, della perdita piena, del segno inutile, del segno felice”. Dall’altro: “Disegnare è farsi depredare, qualcosa che non si può sostenere, se non nel modo naturale in cui lo si fa, velocemente, senza riflettere, né valutare; senza impegno”. 

Quello stesso scrivere di opposti, rintracciabile in molte opere dell’autrice. E, qui, lo stesso continuo muovere in opposizione le quinte della scena, tra primi piani e fondali, oggetti e sfondi, nel teatro delle cose e delle ombre. Così come lo stesso incessante spostare lo sguardo, il gesto, la parola tra il noto e l’ignoto, il visibile e l’invisibile, il materico e l’immaterico, il corporeo e l’incorporeo. Come se solo attraverso i contrasti fosse possibile fessurare lo schermo del visibile. Come se solo a partire dagli opposti fosse concepibile spalancare parole e sguardi nuovi. Cercando la coesione oltre il mondo frantumato. Così come l’unità originaria, dispersa nella molteplicità delle forme dell’apparire. Il baratro, indicato in premessa, tra lo scrivere e il figurare si mostra allora quale loro necessario rispecchiarsi sul crinale della frattura che parola e gesto in tensione verso l’oltre hanno provocato nel reale. Nell’invenzione di una lingua e di una visione in grado di lacerare l’apparenza delle cose, in una tensione a mondi altri da far esistere mentre si disegnano, da creare mentre si nominano. A partire da una profonda spaccatura che, nel movimento tra gesto e linguaggio, e viceversa, consenta di non dimenticare l’abisso che occorre varcare per portare il nome a visione, lo sguardo a parola. Una frattura che richiede allo sforzo poetico e creativo di continuare ad attraversarne il dirupo, in bilico tra bellezze e  perturbanze. A salvaguardarne l’enigma. A guadarne il respiro.

                                                                     Laura Caccia

lunedì 20 aprile 2020

Leonardo Sinisgalli e la scuola di incisione per bambini




Una piccola grande storia è narrata tramite una folta documentazione, nel volume, edito nel 2018 dalla Fondazione Leonardo Sinisgalli, curato dal direttore della Fondazione, Biagio Russo: “Leonardo Sinisgalli e i bambini incisori. Storia di un torchio, di un maestro (Gianni Faè), di una scuola (“Piccola Europa”) e di un borgo (S. Andrea) negli anni Cinquanta”.
Già nel ‘54, nelle Prealpi dell’Alto Veneto, il maestro Faè utilizzava il metodo didattico del giornalino di classe “Piccole Dolomiti”, avvicinando i ragazzi alla poesia ermetica di quegli anni. E alla scuola di S.Andrea, Sinisgalli regalò una piccola tipografia con la quale furono illustrate le poesie sue e di altri poeti ermetici. Dopo aver letto le poesie, i ragazzi scrivevano il commento, realizzavano le matrici dell’immagine con tavolette di linoleum e stampavano il giornalino. La notorietà della loro iniziativa fu tale che anche la RAI ne registrò l’attività e fu realizzata una mostra dei loro lavori a Roma. La scuola attiva voluta dal maestro Faé valorizzava un’arte tra le più antiche, quella della silografia, attraverso la sua evoluzione moderna, la lineografia, la quale si accordava  “perfettamente con le moderne concezioni psicologiche della cartellonistica e della pubblicità”, oltre ad avvicinare gli alunni alla letteratura tutta, compresa quella contemporanea.
La partenza con mezzi di fortuna fu presto dimenticata con l’arrivo di una ministamperia, che consentì loro di lavorare su grande formato, con 12 pagine, brossura spillata e sei uscite annuali. I bambini furono i protagonisti nel libro “I bambini e le macchine” curato da Leonardo Sinisgalli e stampato per le Edizioni del Gatto da Franco Riva, della collezione delle cinque cartelle dedicate ai poeti Montale, Quasimodo, Saba, Ungaretti, Sinisgalli, torchiate da La Stella Alpina di Novara (1955) e de “I bambini e i poeti” curato da Gianni Faé, edizioni Scheiwiller, 1957.
Dalle dirette parole di Sinisgalli comprendiamo l’entusiasmo e l’ammirazione del poeta, quando ricevette le immagini: “Chiamai Gentilini, Mafai, Scordia: i pittori amici furono tutti ammirati per la sapienza, l’eleganza di quelle silhouettes. Pareva un regalo venuto dalla Cina. Sembrava l’opera di un calligrafo cinese, di un poeta, di un filosofo che preferiva le macchinette dell’arrotino, del falegname, del contadino, del barbiere alle rose e agli uccelli. Il gran dono arrivava da un paesino delle piccole Dolomiti”.
D’altra parte, nella rivista “Civiltà delle macchine”, fondata da Sinisgalli all’inizio del 1953, si trattavano i temi relativi a “un’idea di scuola più attenta alla creatività dello studente”. Erano quelli gli anni della ricostruzione post bellica. Da sempre studioso e fautore delle due culture, l’ingegnere e poeta Sinisgalli, crea un luogo di carta in cui far dialogare i massimi esperti delle diverse discipline, “senza preclusione alcuna (Argan, Paci, Ungaretti, Fortini, Ceccato, Mimford, Burri, ecc.)” avendo come obiettivo “l’armonia del sapere e l’attenzione alla ricerca più avanzata”. E proprio a lui, Faè invia i primi due numeri del giornalino con gli articoli e le incisioni sulle macchine elaborati dagli scolari. Sinisgalli, da grande intellettuale che ha ben chiaro il suo ruolo e il suo compito, s’interessa subito dell’iniziativa e dedica, nel numero di luglio del 1954, un lungo articolo alla scuola, corredato dalle immagini sulle macchine realizzate dagli alunni. Per Sinisgalli è questo il modo di costruire un rinnovato mondo. Egli “sente l’ansia di rinnovamento, la fiducia in un mondo nuovo fatto anche di macchine e di progresso tecnologico; sente un’adesione insospettata per l’avvento di una nuova civiltà giungere persino da uno degli angoli più poveri d’Italia, o forse proprio perché proviene da chi fatica per vivere. Ha la dimostrazione di quanto sia “necessaria” una civiltà delle macchine”. L’esperienza prosegue e si estende ad altre scuole con la visita diretta dei bambini nelle fabbriche, con la pubblicità che si appropria del linguaggio diretto e immediato dei bambini, con l’estensione dei temi e con la partecipazione scolastica ai problemi culturali del paese, che il volume della Fondazione Leonardo Sinisgalli mostra in maniera particolareggiata grazie a una documentazione esauriente, che da sola è in grado di mostrare la passione con la quale l’importanza del valore educativo viene sostenuto dalla Fondazione.
Ponendo all’attenzione un esempio ammirevole di promozione culturale che abbatte le barriere tra cultura e produzione, tra scolari e intellettuali, tra impegno e spontaneità,  e grazie agli instancabili promotori della Fondazione Leonardo Sinisgalli, si porge di seguito una delle cinque poesie che compaiono nella cartella di Sinisgalli (La stella alpina, 1955) con la relativa illustrazione, elegantissima:


Poesia per una mosca 

Della tua ala laboriosa
Si consolano i vespri delusi
Se pure senza pudore tu abusi
Dell’innocenza di una rosa.
Nel tuo tremore si riposa
La mia noia; fiduciosa
Ronza attorno a un’immagine chiusa.
La pazienza è forse rischiosa
Ché talvolta si spegne un fiore
Nella notte e il fradicio odore
Ti eccita curiosa.
Ma susciti dentro la stanza
L’aria di tanta vacanza
Amica pungente e pia.
Così cara è la tua molestia
Che stasera con me ti fa festa

La mia efimera poesia.



mercoledì 8 aprile 2020

Marica Larocchi “Polveri Squame Piume. Prose e poesie” puntoacapo, 2020




Il nuovo libro di prose e poesie Polveri Squame Piume, puntoacapo, 2020, di Marica Larocchi, è un nastro che si svolge tra i mondi preferiti da Rimbaud – autore particolarmente caro alla poetessa, in quanto da sempre attenta alle qualità estetiche e sonore della poesia – ma anche tra universi favolistici ed enigmatici. Larocchi mai depone l’irrealtà e il mistero, in quanto se sono componenti intrinseche della poesia, si pensi all’aureola del senso indefinito che circonda ogni parola immessa nel testo poetico, sono anche gli eventi principe, il soggetto di ogni poesia. 
L’attenzione estetica, sempre presente nei suoi lavori, si concretizza, in particolare, nella sezione relativa al duomo di Monza, città nella quale, Larocchi vive. I ricordi, quando srotolati sulla pagina da un poeta, assumono una profondità immaginifica, storica, ma anche atemporale, scientifica e fin anche alchemica, a significare che non c’è cesura nei significati che ogni parola offre.   

Le stratificazioni semantiche deposte sulla pagina dalla poetessa non vengono ritagliate e ridimensionate dal contesto, bensì appaiono come riverberate in ogni dove, assumendo una tridimensionalità ologrammatica. Nulla è più relato al contingente, ma diviene diffrazione, senso avvolgente, pur precisissimo. Non solo gli innumerevoli significati, ma anche i domini culturali si squadernano dinanzi agli occhi e nelle orecchie del lettore. Parole preziose e risplendenti,  materiali rari innestati in una tela a trama larga, strutture multipiani che divengono strade e terrazze. Le disgressioni fanno cadere da una dimensione spazio-temporale a un’altra; leggendo si attraversano memorie e libri d’avventura, ma il movimento non è soltanto centrifugo, relativo a una dislocazione che si allontana fino a scomparire dalla vista, poiché è anche centripeto, come in un imbuto che faccia scivolare tutti i materiali lessicali verso qualcosa che si può definire ‘io’, ultimo avamposto che tutto tiene insieme. Quell’io che si vede citato specialmente nella sezione Autobiografia, dove il soggetto non è rifratto: Vi ascolto, Li ho sorseggiati; laddove è, cioè, sempre esplicitato, ma è ancora e solo il testo nella sua totalità a farsi carico della dispersione e della centralità dei significati. Tale movimento, privo di soluzione di continuità, può essere metaforicamente espresso dalla metamorfosi che la stessa autrice indica come chiave di lettura del mondo.

Dalla sezione Nel paese dei totem:

Che bella foto! La smania di crociere ci fa trine e troneggianti – nonna, nipote e figlia – anche se un po’ di sbieco, sulla tolda di panoplie stinte tra l’acqua e le fronde. Ma il calibro è proprio d’istantanea matrilineare, anche se sfumano i profili di menadi e balene; senza occhiali, se ne leggono ancora gli sfiati intermittenti sul foglio quadrettato di un’infanzia prodiga d’ami orbicolari.
In primo piano, nessuna crudeltà; ammutolito anche il fragore degli obici appena abbozzati in calce dopo il tremulo Semper cogita et vale.

Dalla sezione Mosè Bianchi al lavoro nel Duomo di Milano:

Forse non è neppure un motto
d’arguzia a sorprendere quel ricciolo
di mota sopra cui soffiano ancora 
alisei graziosi. Se levo il braccio,
la fila di fiammelle piega a destra,
mallevadore il gesto che a fatica
dota di luce – rosa arancio – una gota,
incompiuta sulla tela, quasi
d’embrione. Oltre i graffi
dei rami e bieche grate
ecco esalare confessioni
sommesse: a picco le vetrate.
E dal fronte della grazia 
la manciata di voti si smarrisce
sul copale d’inginocchiatoio
per saldarsi tra i riverberi
opachi al disegno infiammato
del rosone. No. Non può 
la mia spatola inseguire
l’iridiscente impronta
di una carne così segreta;
né l’occhio, appannato 
dai vapori del tempo,
riesce a scandagliare nel nodo
di tante cicatrici le velature 
più fresche del pennello
che vaga adesso dalla
tavolozza dei sogni
alla navata più cupa
del tempio, ai capitelli
mostruosi dove 
s’attorciglia e scroscia 

inatteso il temporale.