La perfezione non è di questo mondo. Dobbiamo confrontarci con la nostra forma umana, con i nostri limiti. Ma quel che potrebbe essere ambientato in uno scenario postumo alla cacciata dal paradiso, forse è da trasporsi in ambito prevalentemente culturale, in un teatro che assume connotazioni plurime, dove il canto dalla terra è già canto mahleriano. Ma è anche canto strutturalmente insito nel tessuto poetico, con le rime (guerra/terra/afferra) che intessono fili di autonoma significazione, istituendo un testo all’interno di quello principale e disponendosi in posizioni ogni volta differente, in uno schema iterativo vario. Proprio la rima istituisce il doppio fondo di ogni elemento: ad esempio ristagna/cuccagna, scivoloso/amoroso, fioraia/pietraia, buddista/ nichilista, bagliore/vapore. Nessuna cosa riposa su se stessa ma si avvita nel torbido, solleva fango, da che leggiadra era.
Alla doppia chiave di lettura, che il testo istituisce anche tramite l’incantamento sonoro, è da far risalire quel sorriso freddo, guizzo cinico che diaccia la pelle, derivante da una consapevolezza non deponibile.
Lucida è la torsione con cui si passa dal mero dato fisico alla meraviglia della creazione culturale, per poi ricadere nel disordine dell’equivalenza segnica.
Umida allora
di liquide siepi
non è la distanza
né il muoversi
troppo che assorbe
nel ritmo
un tamburo di guerra
ma ninnoli e note
nel canto alla terra
che ha perso
il teatro
e per te lo riafferra
La tensione fra ciò che si ascolta e ciò che si osserva è centrale. Parrebbe l’umano venire travolto dalla cascata di percezioni che riceve. Pur anche dagli schermi tecnologici arriva il frastuono che asseconda la volontà di perdersi. Il paradiso appare come di seconda mano, tutto sfavillii e vetrini luccicanti, sbornia che satura e rende satolli. E dentro questa vorticosa congerie di stimoli visivi e sonori, si scorge l’essere umano ridotto a figurina.
La risposta
che addolcisce
e non scolora
ebbra
libera e ciarliera
più fruttifera
l’ampiezza della voce
fa da gnomo
innomine nel vero
e si appassiona
al finto niente
al quasi uomo
Con la trasmissione del senso di disorientamento, l’incapacità di leggere i segni, pur se affascinanti e scintillanti, con le sonorità colorate che fanno scivolare le strofe verso un fondo più aspro, la silloge precisa la propria ossatura attraverso il lessico preso in prestito da vari ambiti o, meglio, indagando le varie sfere dello scibile, dove non si riesce a trovare un filo comune per le numerose paratie stagne dei metodi conoscitivi. In un frastuono che somiglia alle bolge infernali, l’uomo si trova a essere non più artefice e creatore del proprio destino, bensì un soccombente che sprofonda sotto i colpi delle proprie creazioni.
Giorgio Bonacini passa al vaglio l’ambito artistico col suo reggimento di chiaroscuri; verifica il portato dell’osservazione naturale, ove persino le creature più semplici, ragni, lombrichi, mosche appaiono incombenti; confronta il campo religioso e filosofico con i termini che si oppongono in una guerra il cui il solo scopo pare l’eliminazione dell’avversario. Ed è certo la parola la prima colpevole, essa attraversa tutti gli ambiti conoscitivi e sembra avere da dire qualcosa in tutte le situazioni. Pur anche nel dolore inconsolabile, sembra avere la protervia di voler esprimere un senso a tutti i costi.
Qui si può dire di tutto
se basta un rifugio
un asilo
un’età sottovoce
a far strazio di noi
senza indugio
o pensare
a un’astuzia precoce
che spazza i dolori
con tanti saluti
duemila alfabeti
e una mano
L’inganno è ovunque: “un istrione fraudolento” ha forse costruito il labirinto dello spaesamento, della perdita di riferimenti certi, della terra labirintica. Quasi un contrappasso che a ogni avanzamento faccia contemporaneamente retrocedere, che a ogni azione faccia conseguire il suo risvolto negativo.
Sebbene ampie chiazze di cielo sereno, a volte, rammentino che cose splendide accompagnano la nostra esistenza; che basta guardarle, per trarne beneficio, anche se non si sa come collocarle nel sistema generale. Coloisce che finanche una vita ridotta al puro dato esistenziale, fatta di piccole percezioni e di frugale consumo, divenga, rispetto alla pagina con la quale il poeta si rapporta, il vero specchio di una non abbattile propulsione alla parola. E non è d’altronde, questa, una poesia di ridotti, minimali termini: “e mi spengo/e intrattengo pensieri/con l’aria che pare non sia /quella pagina in cui /come sai mi contengo”.
La propensione poetica, pur espletata con rigorosa disciplina, utilizzata come strumento per diradare il caos, far chiarezza nella confusione, setacciando ciò che è spurio rispetto al puro, è forse anch’essa una chimera? Eppure, uno spiraglio si palesa: all’artificio si può opporre la rete sottile di apparenze percettive, diafane, larvali consistenze, trine e brine da cui dedurre un sostrato meno fermo, eppure altrettanto consistente per la ricerca che raccoglie pagliuzze d’oro, qualcosa intorno alle quali si possa disporre la pagina così come pure la propria esistenza. Tuttavia, la risposta conclusiva non sembra benevola, perché intanto Bonacini ha condotto un’aspra, serratissima critica alla sua postura umana, ricavando forse una misura tra la sua attitudine osservativa, la sua inclinazione alle cose prive di apparente importanza e la sua visione finale. Ma, la nostra considerazione del viaggio che queste cinquantadue poesie assemblano è quella di un poema che vale come indagine su di sé e sul cosmo e del fatto che dalla loro finita intersezione si aprano spiragli gravidi di nuovi avvii, privi di illusioni.
Rosa Pierno
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