giovedì 30 ottobre 2025

“La neve di Courbet” di Marco Furia sul libro “Paradossale Cromatico Trattato” di Rosa Pierno, Gattomerlino, Roma 2025


 

La neve di Courbet


Con “Paradossale Cromatico Trattato”, Rosa Pierno, autrice anche dell’acquarello dalla non comune intensità cromatica riportato in copertina, si interroga sul valore del linguaggio logico.

Leggo ad esempio a pagina 19


“Le teorie cromatiche sembrano voler trovare una ragione di quelle cose di cui non c’è ragione. Sistemi di regole vengono sottoposti a torsioni non indifferenti, ma l’armonia potrebbe appartenere anche a una discordanza”

e a pagina 47

“Ciò che è vero nella logica , non è detto sia reale. Ci sono differenze fra i due ambiti che fanno tremare i polsi! Meglio far coincidere l’opera con la realtà per trarsi d’impaccio, affermò il Bianco Coniglio, il quale non era affatto bianco se non logicamente”.


Viene da chiedersi: fino a qual punto la logica può ritenersi efficace? Esistono linguaggi validi non (o poco) logici? Otre c’è pur qualcosa?

Ovviamente risposta logica, esaustiva, non v’è: vengono alla mente atteggiamenti propensi a riti magici, misticismo, intense pratiche religiose, eccetera.

Mi pare però che non sia nei suddetti ambiti che Rosa intende muoversi.

Il suo è un perseverante, quasi battente, porsi quesiti dall’interno del linguaggio e la risposta per lei consiste nell’attento racconto di un interrogarsi che assume molteplici aspetti.

Leggo, ad esempio, a pagina 50


“Sembrerebbe esservi una differenza incolmabile tra la sfumatura che ha il cielo e la sua resa mediante pigmento”

e a pagina 54

“In un quadro di Courbet , la neve si colora delle tinte vicine. È un bianco-blu, un bianco-rosso, un bianco-terra, un bianco-sporco, un bianco-grigio. Neanche nel reale, la neve è mai bianca. Solo la parola bianca è interamente bianca, senza riflessi, né ombre”.


Siamo al cospetto di un intento di ricerca che del ragionamento non ignora i limiti.

La magia, il misticismo e certe pratiche religiose cercano e talvolta propongono risposte esterne ai parametri logici, Rosa indaga su contraddittori aspetti interni.

Contraddittori in senso stretto ma, per così dire, sopportati, spesso ignorati, nella vita quotidiana: continueremo ad apprezzare il quadro di Courbet, senza dubbio.

Il linguaggio, in ogni modo sempre aperto a ulteriori sviluppi, è indispensabile strumento umano, sicché talvolta occorre accettarlo così come si presenta (come dimostra la stessa autrice con il suo policromo acquarello).

Frasi quali


“Non si tratta di interpretare, ma di vedere. Di avere a disposizione poche regole: dall’oscurità non può stillare un lumeggiare, il bianco non è composto da altri colori, né può essere limpido. Sono proposizioni empiriche diventati concetti a priori nella grammatica dei colori. Nulla che serva agli artisti, i quali cercano a lungo il timbro giusto che completi il loro quadro”

e

“Sembrerebbe esservi una differenza incolmabile tra la sfumatura che ha il cielo e la sua resa mediante un pigmento. A dimostrazione del fatto che la pittura non è mai mimesi”


mostrano come, secondo Rosa, certi “concetti a priori” siano spesso d’intralcio (e, aggiungo, non soltanto ad artisti e poeti) ma in ogni modo esistano: ed è proprio nel rapporto-confronto con essi che “Paradossale Cromatico Trattato” trova la sua più intima ragione d’essere.

Non si devono sostituire a priori con altri a priori poiché all’esistere (artistico e non) occorre muoversi su un terreno scabro, talvolta irto di difficoltà, non su una liscia lastra su cui viene a mancare l’attrito del vivere.

Insomma, un perseverante invito a non ignorare certe problematicità ma a costruire tenendo conto di esse la via di una consapevolezza aperta a ulteriori sviluppi.

Anche scrivendo e dipingendo, senza dubbio.


                                                                                                        Marco Furia



Rosa Pierno, “Paradossale Cromatico Trattato, gattomerlino, Roma, 2025, pp.78, euro 15,00

sabato 18 ottobre 2025

Stefano Iori, Flussi 2023-2025, puntoacapo Editrice, 2025

 

Nella nuova raccolta di Stefano Iori, Flussi 2023-2025, libro sapienziale, oltre che poetico, il gusto della paradossalità trova la sua funzione più profonda nel coniugare cose che risultano impossibili da accostare: “ali guizzanti / in lento volo”. Oppure: “La dismisura della luce / nomina la notte”. Il senso è quello di scorgere il luogo nel quale gli opposti si toccano “con garbo / di fantasma”. D’altronde, ogni cosa interseca l’altra, la ingravida. Il vuoto, ad esempio, che col buio e col silenzio s’interpola, entra ed esce dalla pienezza del reale, dando quasi vita “a luce che non brilla”, giungendo così ad allacciarsi al tempo e alla fantasia. Ossia, il vuoto entra nell’ambito della realtà, indicando con ciò un’opposizione che è sempre solo apparente. Qui si scorge l’utile funzione del paradosso, il quale segnala che esiste la possibilità di due percorrenze equivalenti, mentre per consuetudine si tenta di costringere il senso in una sola direzione, causando laceranti attriti. Una delle principali antinomie, quella che definisce il tema della silloge, è l’angoscia della morte mentre più forte è il desiderio di vivere. La ricerca di Stefano Iori s’impernia sul dilemma “ansia di morte ansia di vita” che il risultato della sua riflessione, invece, vedrà, come scopriremo in seguito, convivere senza contraddizioni.


Ma andiamo con ordine: ogni cosa viene interpretata come simbolo nella non fattibile comunicazione tra essere umano e divino; si ha la certezza della non realizzabilità dello scambio verbale: “almeno un soffio di quel dire / ombra o luce di un intento”. Appena qualcosa, non il vero a tutti i costi. Il poeta sembrerebbe accontentarsi, ma solo apparentemente. In realtà, lo vuole strenuamente. E ciò allora sposta il punto focale: non attraverso il verbo si comunica. Con il verbo si annotano le domande, le intenzioni, i desideri, i sogni. Sicché, “Illusione ben accetta / miraggio ricercato” sono ora le nuove monete sonanti che attirano l’attenzione di Iori. Tutto ciò che è sparso nel mondo sembra volerci parlare di altro, eppure bisogna astenersi, accettare il frutto dell’immaginazione. Abbandonarsi al mondo, accettare che non abbia senso, come fosse la prova più grande da sopportare. E l'autore ci si dispone, sperimenta il proprio annullarsi, la mancata reattività dell’io; accetta di andare per il mare alla deriva. L’io deve coincidere con un anonimo adattarsi. Bisogna tenersi lontani dall’arroganza dell’individualismo che forgia, fissa e inchiavarda, anziché lasciare liberamente fluire il pensiero. E forse mai età, se non la vecchiaia, ha in sé l’antidoto contro un personalismo dominante: “È tempo di limare / la spocchia antica”.


Pur seguendo il passo di quei letterati e poeti che hanno cercato, a prescindere da ogni consapevolezza della perdita, la ricerca del senso, Iori provvede ad attuare un suo programma, quasi esercizi spirituali d’attenzione:


Assumere a ogni passo

impegno d'attenzione

fugando vani abbagli

di traguardi dell'istante


Nel lento scorrere delle ore si manifesta la via oscura, quella che conduce alla morte, giacché la vita può definirsi come ciò che muore, che si estingue. Iori si esprime con la laconica essenzialità dell’aforisma: “Brama di stasi inorganica / l'inerzia abituale del sasso”. Sebbene la consapevolezza di codesta verità sia pienamente assunta dal poeta, pure, bisogna imparare a morire, a considerare tale verità come peso che aggiusta ed equilibra tutte le cose esistenziali. E ciò può avvenire se si studia, appunto, un metodo, che vediamo esplicitato nei seguenti versi:


Far scorrere nel non finito

emozioni e sogni

Lasciare monchi i progetti

con piegata umiltà


Vi è anche l’assunzione di un opposto punto di vista sulla morte, poiché, se è scontato che quando siamo vivi la morte non c’è, c’è però il suo concetto ed è con quello che ci si deve misurare. Dunque, il ribaltamento ottiene che la “Morte è nascita al contrario”, per cui si ritorna verso il punto di partenza: il nulla.

Nella riflessione sul termine della vita, “la via ancora aperta / si confronta con ignota / misura”. L’io resiste appena alla vertigine dell’oblio. Si direbbe che sopravvive perché sa. Le parole che il poeta mette insieme sulla carta, inseguendo senso e storia, indicano che egli si dispone alla morte proprio denegando senso e storia. Cosicché le vere parole, dice a se stesso, “le ritrovasti nel vero silenzio vivo / senza ombre di dolore attorno / alfabeto d'emozioni del colore d'un ruscello”. È ancora l’orizzonte dell’immaginazione che disegna fondali, scenari, situazioni, valenze: un’immaginazione tutta umana, ma certamente capace d’inglobare in sé una nuova visione. Difatti, non si può uscire dalla condizione esistenziale se non con il termine della vita, ossia con la perdita dell’immaginazione, pertanto, conviene utilizzarla nel modo più creativo per dare la stura alla molteplicità; non per inseguire il divenire, ma per attestare della permutazione e del ribaltamento. Viene alla mente il quadro di H. Bosch Quattro visioni dell’Aldilà, alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, nel quale, in un cielo nero privo di profondità, si apre un imbuto di luce incandescente. Miracolo della perspicacia, potenza dell’immaginazione! Ritornando al metodo messo a punto da Iori, mi riferisco al ribaltamento come tecnica, poiché è di fatto una modalità da lui particolarmente utilizzata. La perdita della memoria coincide con la capacità di attraversare la bruma e di conseguenza:


Inutili certezze svaniscono

nell'aria d'alabastro

perdendosi in dubbi 

taglienti più del vero


È dunque il gioco degli opposti a consentire al poeta di non stazionare in caselle bloccanti o fuorvianti, di non irrigidire il suo pensiero, ma di lasciarlo libero di aggirare gli ostacoli: quei concetti talmente evidenti da cui è altrimenti facile farsi abbindolare. Ricordi, pregiudizi, convenzioni, i quali non combaciano nei tentativi plurimi della volontà di ricondurre tutto ad unità, hanno una cattiva influenza sulla mente che si dichiara delusa dalla realtà, come se essa stessa non appartenesse al medesimo ambito. Tuttavia, in questo gioco, si delinea almeno la consapevolezza del valore che la distanza dalle illusioni può fornire, profilando una vaga traccia de “l'imperfetto regno / di ciò che verrà”. Il sogno, in questo senso, prende il posto dei desideri, quelli sbrananti, distruttivi, come il rimpianto, compagno della depressione, e modifica la direzione, mostrando appunto un’altra via. Persistono gli enigmi nei sogni, ma si può constatarne la presenza senza arrovellarsi per risolverli. Anzi si può tornare al non sapere: “Fino a fluida sincronia / col dilatarsi dell'ignoto”. Sarebbe questo “il poetico vero”, lo stadio di massima apertura al nulla, anziché l’ingresso nelle gabbie della ragione.

Pertanto, la vera posta in gioco sembrerebbe essere la compresenza “d'armonie e dissonanze / in perpetuo divenire”, non in quanto scopo o bersaglio, ma in quanto condizione in cui si attenuano le illusioni e si accede all’equivalenza dei termini. 


Che cosa si diventa dopo? In quale condizione ci si ritroverà? In una “straniata immisura / permeante e scura”. Tuttavia, anche la terra ha una sua giustizia: 


Senza il pavido 

lo sconcio non sarebbe re” 

dirà quel giovane 

invocando il tempo 

in cui solo gente di seta 

abiterà cielo e terra”


Allora, i legami fra terra e cielo, bellezza e disperazione, dolore e gioia, pieno e vuoto esistono e non sono recidibili come banalmente si crede. Sicché anche il confine tra vita e morte è in realtà illusorio. È necessario aprire mente e cuore per auscultarne il battito all’unisono. 


Rosa Pierno




venerdì 3 ottobre 2025

Stefano Iori, “L’albero della poesia”,Terra d’Ulivi, 2025

 


I testi teorici di Stefano Iori presenti ne L’albero della poesia, pubblicato nel 2025 da Terra d’Ulivi nella collana di saggi Angelus Novus, forniscono un quadro di interessi culturali variegato, approfondito ed esteso. Difatti, i testi pubblicati in saggi precedenti e gli editoriali scritti per rivista «Menabò», da lui diretta, si rivelano estremamente interessanti sia per cogliere in maniera chiara l’orizzonte di riferimento dell’autore sia per valutare, nell’estemporaneità delle occasioni, la mobilità di un pensiero che non si fa assediare da alcun luogo comune sulla poesia, né si chiude in una torre d’avorio. A riprova, si consideri che se è con quest’apertura che Iori ha maturato i suoi editoriali, è anche vero che non ha mai considerato la poesia un valore in assoluto, ma sempre da considerarsi in relazione con altri settori della sapienza umana: la conoscenza filosofica, la valutazione politica, il silenzio, la musica, la creatività, il tempo; idee che attraversano tutte le arti. Non ultima la relazione io/l’altro, la quale si riverbera nella relazione scrittore/lettore; relazione vista «con “spirito di comunità”»: si sta assieme per perdersi ancor più, dove perdersi ha il significato di cercare da sé la propria via, cosparsa, naturalmente, dalla presenza dei suoi autori prediletti. Sebbene una soluzione definitiva alle contraddizioni e alle disuguaglianze sia impossibile, ciò che conta è l’intesa tra i due diversi soggetti: lo scrivente e il lettore. Tale sintonia si stringe ancor di più quando si è nel labirinto, dentro il quale lo smarrimento è inevitabile. Tuttavia, nella loro percorrenza, i due soggetti svilupperanno un dinamismo crescente, «nel segno della vertigine che li accomuna» (dal volume collettaneo Poesia, la vertigine della bellezza, La Corte dei Poeti-Gilgamesh, 2017). Vista dalla specola della sfera politica, si tratta della lotta tra la creazione e la consuetudine, nel senso di indomito compito assunto dal cittadino contro il tentativo di omologazione perseguito dai poteri forti all’interno della società liquida, dove tutti i valori vengono dissolti. Le tesi di Stefano Iori, nate meditando su alcuni punti focali dell’ebraismo, per i quali la parola è centrale, e sulla poesia costituiscono una sfida all’ignoto stesso, poiché non si tratta mai di definizioni preconfezionate, ma  di un dialogo incessante fra voci in lotta tra di loro, così come lo sono la luce e l’ombra, al fine di intravedere nuove vie da esplorare insieme e di ottenerne nuovi slanci e nuovo vigore. Addirittura, darsi la possibilità di traguardare da un labirinto a un altro, di trascorrere da una complessità all’altra giacché, e non risulti un compito ingrato, ossia senza risultati, è il percorso stesso, l’attraversamento, la misura delle prolifiche differenze a evitare il fallimento. È l’essersi eticamente impegnati nella ricerca della propria irriducibilità, nell’aver forgiato il proprio metodo conoscitivo, nel non aver abbandonato l’arduo compito, a dispetto della dimensione dell’incertezza in cui affondiamo, giacché «Scrivendo poesia abbracciamo pratica di vita e di perfezionamento etico e spirituale».

La poesia è labirintica come tutte le forme di conoscenza sapienziali. In questo senso, essa si distingue dalla logica, perché non si sussume in un concetto, ma lo esplora e lo sfonda. La stessa forma sistemica della filosofia si contrappone alla poesia, laddove quest’ultima consente l’accesso all’incomprensibile e all’ineffabile. Eppure, ciò non toglie che ci sia un confine poroso tra le due discipline, per cui entrambe tentano di conquistare alcune porzioni appartenenti all’altra, senza tuttavia mai perdere la propria specificità. È questo il senso dell’intervento di Iori nel volume collettaneo Poesia e Filosofia. I domini contesi, pubblicato dall’associazione La Corte dei Poeti nel 2021, qui riportato. È anche vero che il filosofo e il poeta inseguono entrambi la verità: «combattono l’appiattimento del pensiero liquido dominante, ne costituiscono l’alternativa necessaria», sono custodi della lingua.

Quando il silenzio viene definito «“forma non forma” dei nostri modi di affrontare (pensare) l’ignoto», il lettore ha a disposizione una mappa che non lo obbliga, ma gli indica contatti e allontanamenti, assonanze, disguidi. D’altronde, il silenzio è anche pausa, vuoto bianco tra le parole, alterità che consente l’esistenza stessa del ritmo musicale. È l’albero della vita a simboleggiare gli opposti, il perenne movimento a due, che genera l’altro da sé, il mutamento. L’obiettivo è certamente raggiungere l’equilibrio attraverso un intreccio di «intuizione emotiva e raziocinio». In questo movimento, la memoria assume un ruolo imprescindibile, in quanto, dalla lotta che produce frammenti e residui, solo essa è artefice di una re-invenzione che rilegge ciò che è trascorso, dando vita a una nuova visione del passato che è contemporaneamente nuovo presente e futuro. 

La parola sacro, in questo quadro, si rivela strettamente attorta alla parola utopia: da una parte è necessario ridare sacralità alla vita contro le vie dell’onnipotenza umana che giunge a distruggere il suo stesso ambiente, dall’altra è la visione utopica che, pur in queste difficoltà, può giungere a individuare i cambiamenti necessari. Stefano Iori propone la poesia come prassi che ci fa avvicinare alle istanze più profonde e originarie e ci fa aprire alla nostra essenza umana: «Essa coglie il più profondo senso della vita e tende a farsi essa stessa vita». La speranza che il dialogo fra poeta e lettore, a cui la poesia dà luogo, possa essere ricostitutivo dei valori coincide con il paradosso dell’attesa che è «l’esperienza cruciale di chiunque cerchi di costruire i propri strumenti per sperimentare se stesso e gli altri. Colui che attende trova. La non-attesa garantisce la non-scoperta». È pertanto sempre possibile che l’umanità muti in senso positivo e, a maggior ragione, tale posizione ha, negli attuali frangenti storici, una valenza di non supina accettazione della realtà. Proprio la poesia si pone, grazie al presente insito nella tradizione, come un nuovo modo di vedere e di pensare rivolti verso la direzione del progresso. Spesso, negli editoriali, pare di ascoltare la voce appassionata di Iori che incita a non accettare supinamente le situazioni sociali e politiche in cui siamo immersi. È un invito a ricostruire se stessi e gli altri con i valori letterari, i quali sono gli unici in grado di indirizzarci e di unirci. Seguire Stefano Iori nelle sue rabdomantiche peregrinazioni, che si svolgono toccando il silenzio, il nulla, l’ignoto, è veleggiare su un mare che s’addentra nelle tenebre con l’illuminazione poetica a indicare la rotta.


                                            Rosa Pierno