lunedì 4 settembre 2023

Marco Molinari “Come per una stagione breve”, MC edizioni, Milano, 2020

 


Una poesia visionaria che si coglie fin dai primi versi della silloge di Marco Molinari, Come per una stagione breve, MC edizioni, Milano, 2020.  Il poeta parte dalla natura, dagli oggetti, dai paesaggi, dagli astri e, però, nessun elemento reale resta intonso; tutto viene stravolto, trasportato in un luogo artefatto, mitizzato al fine di poter essere utilizzato come declinazione del divino. Certamente, la realtà tutta è sottoposta a un processo di metamorfosi di cui il poeta è l’artefice, ma, contemporaneamente, è anche il manovrato burattino. Kafkiano sogno o diurna visione, poco importa. La domanda  cogente sembra essere la seguente: può la realtà consentire all’essere umano di slanciarsi in un mondo altro? Sembrerebbe di no, poiché è il linguaggio  ad avere un ruolo ineludibile in codesto processo e per questo ogni afasia è cancellata dalla poesia di Molinari. La parola, astratta per definizione, si volge in spirituale, ossia si svolge in un luogo diverso da quello esistenziale; una dimensione cerebrale, ove le cose sono divenute simboli e il senso è univoco, ha una sola direzione: misterica. L’individuo vive in solitudine e si dirige, fuggendo dal noto, intenzionalmente verso l’ignoto.


Quella di Molinari è una poesia avente come fine una cruda appassionata aderenza al proprio compito etico, che è in qualche modo quello di sorpassare la gabbia percettiva del reale e tentare si scorgere l’oltre. Il primo passo da compiere è quello di considerare la realtà in maniera diversa. Il presente non è attaccato a un appendiabiti per essere dismesso. Esso contiene in sé, senza alcuna distanza, il passato; anzi, quest’ultimo, oggetto mentale, è una causa al pari di un’altra, cosicché Socrate è reale quanto la discoteca Piccadilly: entrambi assicurano lo sviluppo razionale del discorso, spiegano come sono andate le cose nell’esistenza del poeta. È grazie a questa strategia che la visione inizia a virare, ad acquisire un senso nient’affatto ermetico o contraddittorio. Si entra in un amplesso di rovine e ci si ritrova in un roseto. Brani di realtà ci vengono incontro in forma trascesa. Il ruolo della metafora è fondamentale per questo cambio di passo. La visione di Molinari è sempre pittorica:


Per sere e sere instancabile, modulò

il profilo retrattile, sfiorando vento e nebbie

con un segnale pilota, immutabile

col suo occhio di pesce asciutto

fino alla totale anemia.


È una poesia che ridisegna i connotati delle cose e non si preoccupa di togliere gravità, né di apporre pesi. Le trasformazioni non sono soggette a regole, non sono né geometriche né legate allo sviluppo logico dei significati, visto che questi ultimi non sono oggetto di indagine filosofica, ma poetica. Siamo con Molinari nei pressi dell’origine della poesia: intesa come ispirazione divina. È una poesia che non si cura della materia. La immagina. È per questo che la natura si anima di corrispondenze, ove ogni apparenza rinvia a un oltre, sicché simbolismo ed ermetismo si sostengono l’un con l’altro in questo prolifico terreno di coltura. Effetti di vertigine si propagano dall’oscurità: le apparenze sono particolarmente instabili, sprofondano nel terreno, e gli accostamenti sono aleatori e provocatori. Le poesie di Marco Molinari risultano perciò crude, acri e stridenti: non mescidano i contrari fino a creare una salsa insipida. L’intensità dei dettagli oggettivi giunge a sfiorare l’allucinazione e tiene distinte le fasi che si succedono rapidamente: esse vengono osservate come in un cannocchiale a rovescio, mentre si è su un battello azzannato dalla tempesta.


Il manipolo di barboni incredulo

s’inchina al rito come a un semidio

e travisa il piattino e la panchina

per bussole e altari, e poi la maledice, 

qualsiasi alba di qualsiasi mondo

(anche la prima, la pura l’alba senza croce)

perché porta con sé la partenza, 

la partenza in salita, la bifida.


Nessun aspetto può essere tralasciato, ogni cosa, nella sua complessità, va issata e caricata sulle spalle. La vita come un cammino di crocifissione e, in ogni caso, di salvezza, ma come già prestabilita. Lo scorrere del tempo non serve a nulla, se vi sono cose già approvate prima di nascere. Lo sguardo sembrerebbe allora essere cieco. Il poeta guarda sapendo, ma senza vedere; conoscerebbe tutto, se non ci fossero continue interruzioni nel racconto: “Quando fra un secolo tornerà / in queste lande dirimpetto al cielo / crescerà l’orzo selvatico / a grappoli sulle tombe”. Morire è ritornare, in tutti i sensi possibili. La parola deve aprirsi a una razionalità avulsa dalle concatenazioni reali. Anche il corpo si situa oltre ogni delusione: “bianco, fossile, senza spine / intriso di polline come l’ape regina”. Il tempo non progredisce:


La parola rigira stasera

sulla punta del dardo

nel secco battente di un confine:

tocca la consolazione

nella cattività del gesto disumano

scritto a secco dentro un futuro immobile.


Se da una parte si avverte la necessità di evadere dall’attesa; dall’altra, ogni giorno appare “senza speranza”. Non è un bilanciamento simmetrico, giacché attesa ha un diverso peso semantico in confronto all’essere senza speranza. Si profilano vie di fuga rispetto alle quali è la capacità visionaria lo strumento più utile. Le vie di fuga, pur sembrando coincidere in alcuni versi con la morte, sono  subito rilanciate con un “prima del risveglio”.

La natura appare come un ricettacolo di presagi, per chi la sa osservare con l’occhio della mente. Non si tratta di non essere nuovo a un paesaggio, di avere, ad esempio, frequentato la foce del Mincio, quanto di guardare in sé attraverso le gradazioni millimetriche dei riflessi dell’acqua. Guardare in sé per oltrepassare ciò che è fisico. Tutto ciò che vediamo non ci fa vedere bene: “davanti ai nostri occhi, / incatenati e miopi, / il rospo azzanna la libellula / nelle maree dello stagno”. Iperboli restituiscono la sensazione di non finitezza. Tale è l’oggetto del resoconto di Marco Molinari: una dismisura che procede dalla finitezza.


Rosa Pierno



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