venerdì 14 gennaio 2022

Agostino Contò Ofelia e altri racconti, Ronzani Editore, 2021

 


La delicatezza che non si dissocia da una precisa restituzione del visibile, nel resoconto degli eventi, pur minimi, nel lungo racconto di formazione Ofelia e le mosche è, nel libro di Agostino Contò, il preludio di quello che il suo sviluppo testuale recherà con i testi narrativi che si succedono incalzanti all’interno della raccolta Ofelia e altri racconti, Ronzani Editore, 2021, di cui si vuole qui anche sottolineare la cura editoriale del libro.


La scrittura di Contò si distende attraverso una serie di proposizioni legate paratatticamente, indicante un accumulo di percezioni o di dettagli che precisano la descrizione della scena e degli oggetti, ma anche le azioni risultano come somma di percezioni, di ragionamenti interpretativi, quasi sillogistici, da essi conseguendo. Pensare è senz’altro pensare il dato percepito – ricordiamo sorvolando il pensiero kantiano che indica che  ogni pensiero è cieco senza un dato esperienziale – e in Contò ogni restituzione è strettamente dipendente dal dato concreto: non è mai un pensiero pienamente astratto. Lo scrittore compone una scrittura teatralizzata, più che dialogizzata: le parole si mischiano con i gesti, i corpi con le cose, il dialogo diviene un’azione corale: <<Noi siamo più forti. Uno con i capelli rossi di terra dice che a forza di rotolarsi con la testa per terra s’è buscato il raffreddore, e tira su di colpo il moccolo che gli pende dal naso>>. È l’autore che è entrato a gamba dritta sulla scena, oscillando tra la finezza del resoconto e il ritmo di una prosa serrata, dal brevissimo respiro, tutt’azione. Ma non v’è percezione che sia degna di tal nome se non è estetica: <<E il pavimento della cucina  è ugualmente rosso, di mattonelle di cotto esagonali. E rosso è il cielo di questo tramonto a contrasto con il verde scuro degli alberi del parco>>. Percezione che a sua volta dà, dunque, la stura all’immaginazione, sicché se una bocca mastica verdi frammenti si può dedurre che essa mastichi lucertole. Ma non solo le esperienze visive, benché principali, si srotolano sulla pagina; anche quelle dell’odorato sono altrettanto capaci di fungere da tunnel spazio-temporale per agganciare la realtà, quella realtà che in un testo letterario appare sempre problematica. In ogni scrittore, in questione è la definizione della realtà, di che tipo essa sia. La realtà esiste esclusivamente in colui che la percepisce, sicché gli odori, compresi quelli meno piacevoli o i rumori prodotti dal movimento degli elementi naturali o il suono corroborano un affresco che si disfa e si ricompone incessantemente, andando a costituire, in Contò, la vera ossatura del testo. Sebbene il racconto di formazione – che è sempre anche racconto dell’infanzia, scaturigine della personalità, disegno dello spazio esistenziale che ha segnato indelebilmente – funga da paravento, da schermo sul quale si proietta l’amarcord, è altrove, pertanto, che si svolge la vera vicenda.


Nella successione dei racconti, ciò che è percepito e che contribuisce a profilare l’importanza degli attori sulla scena ricostruita mnemonicamente, rapidamente diviene  a tal punto principale che si tratta ora solo di seguire tali vivide sensazioni, sgorgate nella loro originaria freschezza e intrappolate nel flusso testuale. Abbandonarsi ad esse vorrà dire, per lo scrittore,  insediarsi al centro della propria esistenza, mentre tutto il resto si allontana, andando a ricoprire un ruolo subalterno. Certamente la suddetta accelerazione si ha sull’onda dello studio del Nouveau Roman, e in particolare di Robbe-Grillet. Nel racconto Il rito vi è persino una esplicita citazione del millepiedi presente in Gelosia. Ma Contò coincide, per personale inclinazione, con la suddetta poetica esclusivamente per l’attenzione percettiva e non certo per la nitida ed elementare scrittura, poiché quella che egli produce è tanto ricercata che i dettagli descritti sono un rebus da ricomporre, più che la restituzione di una limpida visione: <<di tre anni, il vetro appena brunito (a riparo da zaffi troppo intensi di luce), un corpo tornito e allungato fino all’esile collo, e l’umore d’uva, il contenuto prezioso>>. 


Resta l’attaccamento alla gente semplice, ai contadini, un legame sordo, sentito attraverso il corpo. Così è ora una voce adulta che racconta i temi della vecchiaia, dell’appartenenza alla terra veneta, degli amici al bar, della povertà, delle donne, ma anche quello dell’irrealtà delle convenzioni, di certe derive che l’ambiente finisce col produrre sulla visione del mondo, ma che ancora solo altri elementi percettivi possono modificare. Come dire un dettaglio-pensiero scaccia un dettaglio-pensiero fino alla riconquista di una maggiore aderenza a sé. La presenza di un certo numero di vocaboli, ‘lessa’, ‘vergognina’, attesta di un accostamento al linguaggio che prelude a un maggiore invischiamento dovuto a situazioni conviviali, mentre altri denotano la sua distanza da esso: <<la quadrifora quattrocentesca con i vetri rotondi piombati sulla grande loggia>> nel medesimo racconto Tolpada. Tocca i vertici di un certo straripare rabelaisiano, il lessico di El Pitor, la cui punteggiatura manchevole rende il flusso ancor più torrenziale. La ricchezza di una sintassi che racchiude anche versi: <<L’oste sogghigna di sottecchi (arrossendo per l’infausto socio qual ci toccò: dunque da fregola viziosa mosso)>> risplende nelle narrazioni in cui il vino è presenza irrinunciabile. I quadri di convivialità, la narrazione di incontri seducenti, allunga o raccorcia il ritmo della prosa. Ma l’indagine si fa più profonda non in relazione alle persone, spesso non comprensibili, viste dall’esterno come oggetti imponderabili, ma alle cose e ai luoghi maggiormente familiari: le porte aperte o socchiuse, le ragnatele, i chiodi, la polvere, la ruggine, le travi ordiscono una realtà che a volte, quasi per voluto errore, ha un sapore metafisico.


                                                                                                 Rosa Pierno




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