1 . Il tema proposto qui stasera da Rosanna Bazzano, nel primo evento di poesia “dal vivo” a Napoli dopo la chiusura per la epidemia, è la bellezza del mondo o, meglio, la bellezza del mondo mediante letture del mondo stesso. “Mondo” è una parola polivalente, per cui, secondo il mio mondo, ho la necessità di perimetrarne i confini. Tra l’altro, “mondo” e “bellezza” sono quasi sinonimi essendo il “mondo” il “pulito, limpido, visibile”, il luogo rischiarato dal sole, dunque bello. La traduzione corrente di “munditia” è proprio eleganza, bellezza. Affrontammo questo problema (munditia-monnezza) alcuni anni fa, in occasione dell’invasione del pattume a Napoli,producendo,con Ariele D’Ambrosio, l’antologia “Mundus, poesie per un’etica del rifiuto”.
Il “mundus”, era, in parallelo con la solarità e la visibilità, un fosso di fondazione nel quale venivano gettate cose deperite e deperibili, avanzi e altro. Il rituale era ctonio. Esso indica,dunque,sia ciò che produce inquietudini, come il sacro, sia il suo superamento mediante un processo razionale di pulizia. Il “mundus-fosso”, aperto tre volte l’anno -ricordiamo l’espressione “patet mundus”( il mondo si apre”, si rivela) - ripeteva la forma dell’occhio e della volta celeste, dunque il “sopra” e il “sotto”, identici secondo la Sophìa e gli gnostici.
2. Quanto alla bellezza, cercheremo di indagare da quale percezione, la più antica possibile, nasce il “bello” e, successivamente, nel contesto individuato, il mundus di Bruno Di Pietro. Ritengo che il “bello” sia il risultato di un contrasto, il giudizio espresso dopo una riperlustrazione dei dati dell’esperienza, e che esso si identifichi col bene. La percezione dei napoletani è in merito molto chiara: il bello e il bene appaiono come dei ex machina nelle situazioni indecidibili, quando, ad esempio, diciamo “trase uno bello e buono”, cioè all’improvviso, in modo perturbante, e spariglia le nostre carte da gioco. Gli agenti più antichi e importanti del nostro contrasto esistenziale dimorano nella polarità della biologia e della mente che Kerenji, in Dioniso, ed Agamben, in Homo Sacer, chiamiamo zoè, la vita animale, e bìos, la vita intellettiva. In verità questa è una semplificazione ma mi si consenta di usarla ai fini della comprensibilità immediata. Zoè e bìos si intrecciano come i serpenti agatodemoni raffigurati in molti siti archeologici. Intendo dire che il bello-bene è vissuto, da sempre, come il risultato di una dualità dinamica.
Qualche conferma la possiamo attingere dall’etimologia. L’etimologia è importante perché ci consente di comprendere le percezioni originarie dei nostri antenati nonché, come in Emile Benveniste, il fondamento delle istituzioni sociali.
Bello è il latino bellus, dall’antiquato benus per bonus, “buono”, da cui il diminutivo benulus, benlus, e poi, bellus nel senso di confacente, comodo, adatto. Semerano ci informa che “bello” è termine accadico.
Lavori in corso stanno verificando una eventuale relazione tra “bellum”, scontro, e “duellum”, lotta. “Duellum” implica il due.
Lavori in corso stanno verificando una eventuale relazione tra “bellum”, scontro, e “duellum”, lotta. “Duellum” implica il due.
“Buono” ha origine nel latino arcaico “dueno”, sp.bueno. In “dueno” ricompare il due. Scipione Barbato era un uomo “dueno”,buono, della serie “chillo è uno buono”, cioè “nu figlio ’e ndrocchia”, uno abile, che sa come comportarsi, un “polytropos”. Ma andiamo un po’ più a fondo per capire che nasconde il “dueno-buono”. Faccio riferimento a un’antica iscrizione riportata sul “vaso di dueno” (noto come il vaso dell’artigiano abile).Si tratta di un triplice vaso, molto difficile da elaborare, la cui iscrizione, voluta dall’anonimo vasaio e rivolta alle ragazze che lo avrebbero usato per i momenti rituali, dice “questo vaso è stato costruito da un artigiano “duonoro”, cioè “abilissimo”, per cui, ragazze, quando lo usate prestate molta attenzione e, soprattutto, non invidiatemi per la mia abilità”. “Duonoro” significa, probabilmente, ambidestro.
La conclusione di questo excursus è che solo chi è abile, che ha competenza, può produrre un mondo di bello e di buono.
3. Vediamo, allora, se e come Bruno Di Pietro è “dueno”.
Penso di essere chi ha più studiato questo poeta e chi ha, probabilmente, scritto di più sulla sua opera, dagli esordi ad oggi; questo perché c’è una sintonia in termini di frequentazioni culturali, in particolare i presocratici e i poeti che scrivevano nei dialetti greci antichi, nonché al comune interrogarsi, ancora oggi e nonostante oggi, su questioni di metafisica, questioni che, per me, si sono trasformate in azioni di Patafisica, la scienza delle soluzioni immaginarie. Conosco Bruno fin da quando con alcuni amici diede vita all’ “Albero di Porfirio”, un albero così battezzato attorno al quale si riunivano. In quegli anni furono scritti versi come questi (è il primo testo di “Colpa del mare”):
forse l’indisciplina degli eventi
forse l’incerto dire inesistenti
l’identico la trama la ragione
concedono alle volte un’occasione
ma come è disadorno il divenire:
gettati alle correnti senz’appiglio
nei rumori dell’acqua sempre al ciglio
dell’essere del dire del non dire
cosa accadrebbe poi se il maestrale
venisse a dirti al termine del giorno
che il sentiero in fondo è sempre uguale
e non c’è altra via che del ritorno
“l’essere del dire del non dire” lo ritroviamo come costante anche in Baie, ed è folgorante in un distico:
difficile il silenzio
dopo un battito d’ali.
4. Per un sistema di lettura di Bruno Di Pietro, che con la seconda edizione di “Colpa del mare”(2018, ampliata con l’inclusione di altri lavori) si pone ai vertici dell’attuale espressività poetica italiana, mi riferirei al “Pensiero Meridiano” di Franco Cassano e ai suoi allegati. La copertina di Baie, ad esempio è - non so quanto consapevolmente- la sintesi di un passo celebre del libro di Cassano: Chi è l’uomo che, a Elea, guarda il mare? Non si sa se quest’uomo, il poeta, sta per riprendere la navigazione o tornerà indietro. In “Impero” (Oèdipus, 2017) Adriano esorta i poeti a imbarcarsi di nuovo sulle navi, ad assumere il rischio dell’estremamente mobile. Il passo di Cassano cui mi riferisco è quello dei trenta tiranni che fecero rimuovere le statue del Pireo che guardavano verso il mare. Il messaggio era: basta avventura e desiderio di conoscenza, stiamo con i piedi per terra, torniamo alla terraferma dell’essere, dimentichiamo il mare degli enti. Vediamo cosa ci dice Di Pietro in merito:
In limine
non ci sono più siepi
ad escludere lo sguardo
e l’ultimo orizzonte
è ai tuoi piedi
(siedi
e guarda per terra)
C’è, evidentissimo, il senso di un fallimento, preannunciato. Fallire è indurre in errore: pensavamo l’infinito come orizzonte e, falliti, lo vediamo per terra, calpestato dalle impronte delle nostre scarpe. Eppure, il vuoto nella sua preliminare vuotezza ha il proprio compimento, genera la bellezza, il fiore si Roberto Sanesi, in esergo a Baie:
Se allora fosse il fiore il fallimento,
questa, diremmo, è la bellezza del mondo,
la sua esperienza visibile.
Il tema del limen e del confine, del non plus ultra per cui rimane solo il ritorno, lo troviamo anche in questo testo, il primo di Baie, secondo la costante di porre all’inizio il testo più denso di ogni raccolta:
in un altrove aereo o marino
forse nell’ultimo lembo di terra
al confine di ogni pensabile destino
ai margini sconfinati di un deserto
nell’incerto che inclina alla speranza
noi ci ritroveremo
allora sarà detta la parola giusta
quella che fugge la noia dell’indicibile
daremo altro nome a tutte le cose
liberi dalla paura di morire,
esaurito ogni dove, di esaurire ogni dire
.
5. Questo testo continua con naturalezza nel successivo, dove il dire è sfinito nella e dalla inedia o saudade o spleen. Questo dire, subito dopo, si trasforma nelle lallazioni e nel grido di bambini paternamente guardati a vista da un sorridente Parmenide, sotto l’emblema della Porta Rosa di Elea. Ricordiamo che il tema del bambino che gioca (in questo caso col guscio di una tartaruga) fu caro anche ad Eraclito, il pensatore del pòlemos, lo scontro, come costitutivo del divenire. Il dire, e il suo correlato, il taciuto, appaiono in quasi tutti i testi di Baie perché la dimensione esistenziale di “voler avere qualcosa da dire”, che costringe al silenzio, è generata dall’impulso di voler “avere per detto tutto il dire”, nella condizione quasi teologica del non ancora-già. Leggiamo qualcosa da Baie, in particolare i brevi testi, quasi frammenti, che riguardano un argomento nuovo nella poetica di Di Pietro,l’amore:
di notte
a volte accade
di avere paura
che la luce illumini
la tua assenza
ho inventato
per gli occhi
un sorriso
(tu potresti apparire
all’improvviso)
l’orizzonte che sembrò vicino
in fondo un deserto il destino
ma cosa si può dire a occhi stranieri
per non ripetere il dettato usuale
dell’uguale a se stesso sempre uguale
a volte
accade
che anche l’ombra
si senta
sola
Ciò che abbiamo trascritto sembra un unico testo, quasi che la struttura del poetare di Di Pietro sia una spirale che si muove in alto e in basso ma sempre attorno allo stesso asse e anche qui ritroviamo, nascosto, lo spirito greco, in questo caso Democrito: “a volte accade (un cadere di atomi) e ,insieme con me, anche l’ombra ha un saper-sentire di solitudine”. L’ombra esiste se c’è il sole, una fonte di luce, e se c’è un corpo solido. In Baie il sole declina, è declinato, e tramonta ad oriente:
come se il sole
calasse ad Oriente
guardo tutto con la schiena
impaziente
6. Il tema dell’amore, un amore denso di grazia, si rivela come il fiore di Sanesi, già-non ancora sfiorito:
le api dormono
fra i noccioli
essiccati
delle pesche
quasi un ronzio, un fiore che lascia polline sulle dita ed inclina a una sensibilità vulnerabile. Le dinamiche del nascondino, tipiche dell’amore, sono tutte racchiuse in:
chi ama non dispera
dimmi una bugia
ma che sia vera
Abbiamo parlato prima degli agatodemoni come simbolo psichico diffuso. Credo sia evidente che il loro intrecciarsi, contrastandosi , sia l’elemento che caratterizza il “mundus” di Bruno Di Pietro in cui un testo ne origina altri.
Vediamo questo fenomeno in azione, rileggendo il testo iniziale di Baie:
A
in un altrove aereo o marino
forse nell’ultimo lembo di terra
al confine di ogni pensabile destino
ai margini sconfinati di un deserto
nell’incerto che inclina alla speranza
noi ci ritroveremo
allora sarà detta la parola giusta
quella che fugge la noia dell’indicibile
daremo altro nome a tutte le cose
liberi dalla paura di morire,
esaurito ogni dove, di esaurire ogni dire
.B
esaurito ogni dove, di esaurire ogni dire
liberi dalla paura di morire
daremo altro nome a tutte le cose
quella che fugge la noia dell’indicibile
allora sarà detta la parola giusta
noi ci ritroveremo
nell’incerto che inclina alla speranza
ai margini sconfinati di un deserto
al confine di ogni pensabile destino
forse nell’ultimo lembo di terra
in un altrove aereo o marino
I singoli versi si intrecciano tra loro, è possibile cambiargli posizione senza che il senso generale vanga modificato. Qualcuno certamente sospetterà che si tratti di un caso. Gli sottoponiamo, allora, un altro testo, il primo che abbiamo letto:
forse l’indisciplina degli eventi
forse l’incerto dire inesistenti
l’identico la trama la ragione
concedono alle volte un’occasione
ma come è disadorno il divenire:
gettati alle correnti senz’appiglio
nei rumori dell’acqua sempre al ciglio
dell’essere del dire del non dire
cosa accadrebbe poi se il maestrale
venisse a dirti al termine del giorno
che il sentiero in fondo è sempre uguale
e non c’è altra via che del ritorno
che diventa, dal basso verso l’alto:
e non c’è altra via che del ritorno
che il sentiero in fondo sempre uguale
venisse a dirti al termine del giorno
cosa accadrebbe poi se il maestrale
dell’essere del dire del non dire
nei rumori dell’acqua sempre al ciglio
gettati alle correnti senza appiglio
ma come è disadorno il divenire.
Concedono alle volte un’occasione
l’identico la trama la ragione
forse l’incerto dire inesistenti
forse l’indisciplina degli eventi.
Questa modalità permutativa è frequente in musica (p.es. le forme auto replicanti di Bach) ed è un fenomeno che si riscontra essenzialmente nei poeti d’ispirazione, quelli, cioè, orientati all’ascolto, che scrivono obbedendo a un ritmo neuromotorio. Questo aspetto meriterebbe un lavoro a sé.
Non so se ho colto l’obiettivo iniziale, se ho dimostrato se e come il comporre di Di Pietro sia “bello-buono”. Abbiamo, comunque, la certezza che è un artigiano abile, che sa gestire un “mundus” cogliendone il vuoto, visibile fiore di Sanesi.
Mimmo Grasso
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