domenica 21 giugno 2020

Giancarla Frare “Come confine certo” Edizioni Tracce, 2007, Premio Scriveredonna 2006




Parrebbe che per Giancarla Frare non possa darsi esperienza se non in uno spazio costruito di sana pianta, il quale dunque vada preventivamente progettato, giacché l’esperienza principe è sempre la percezione dello spazio, la relazione con un ambiente in cui collocare la propria persona e gli oggetti.
Si rivela interessante seguire la concezione spaziale di Frare non solo sul piano pittorico, al quale siamo maggiormente adusi, ma, in questo caso, anche sul piano linguistico, tentando una sorta di confronto del tutto generale, per grandi linee, fra le due modalità espressive, senza tuttavia volere ricondurre l’una all’altra, giacché è proprio lo iato fra i due codici che potrebbe mostrarci l’irriducibile, che è ciò che non si fa tradurre perfettamente dall’una all’altra forma.

Nel libro di poesie “Come confine certo” Edizioni Tracce, 2007, Premio Scriveredonna 2006, il concetto di spazio che interessa Frare non riguarda soltanto le dimensioni che il corpo può percorrere, ma anche l’ambiente che si può osservare, per verificare fin dove è possibile spingere lo sguardo; pertanto anche la volta celeste è presa nel computo di ciò che è esperibile. E, naturalmente, è uno spazio fluttuante, mutevole: il centro s’impenna e diventa vagante. Per questa via, anche il dettaglio diviene emergenza. Ciò che era distante, per un salto del cuore, è vicinissimo; non solo per un mutamento del punto di vista. Lo spazio è dunque in grado di alterare ogni cosa. Nella scatola prospettica, i colori sono in grado di deformare, di variare i pesi. Sono veri e propri attrattori e l’ombra può essere addirittura considerata un “confine certo”. Lo spazio pertanto non è un concetto a priori, ma dotato di caratteristiche, al medesimo titolo della materia. Per un’artista, qual è Giancarla Frare, il colore è la vera condizione sine qua non di tutto ciò che appare, ma nella sua silloge, la parola è asciuttissima, gli aggettivi calibrati al millimetro, considerati quasi un’eccedenza per la loro funzione semantica. In un solo caso, nel libro, l’aggettivo assolve alla funzione sinestetica, così che il sole suona, ma non si concede altro.

In fondo, ciò che arriva allo sguardo può anche accecare, ma tanta parte, una volta che sia definita la scatola spaziale, giunge dall’animo, in forma di ricordi e diventa così potente da abitare lo spazio assieme alla poetessa. Tuttavia, il vero colpo mortale lo infligge lei stessa al proprio spazio:

Dico che è.
Inutile giocare cogli eventi
Modellare fantocci
E collocarli male
Proiettare ombre nere
Tanto imbrogliare
Il prossimo
Sugli equilibri dubbi
Di argini
Stoppie refuse
Sabbie di limo itineranti.

Non è un capovolgimento di poco conto, ma è ancora ascrivibile a quella necessità di definire il proprio ambiente ogni volta. Di conseguenza, la sua totale messa in discussione fa parte  delle operazioni che saggiano la possibilità di avere effettivamente un’esperienza, come se si trattasse della revoca del dubbio per il solo fatto che si è capaci di cambiare sipario. O di poter saggiare cose ed eventi in relazione a scenografie differenti. Poiché inevitabilmente autobiografica è la raccolta di poesie (ricordiamo velocemente che Frare ha studiato scenografia all’Accademia di Belle Arti) e al setaccio risultano scarni i resti, ma ineludibili, come pietre su un arso cammino.

L’ombra appanna l’evidenza e certamente, in siffatte condizioni, tentare la forma, riconoscere dall’ingombro la specificità di ogni presenza, è appena un desiderio già sopraffatto dallo scacco, a cui il linguaggio sembra dare risonanza. Che sia desiderio di ordine, una volontà di imporre tramite le operazioni della mente una gerarchia e un senso o, anche, di fuggirle con il fare, con il produrre nuove forme, costituisce un bivio che rende edotti sul fatto che si tratta di una divaricazione in cui agisce l’immaginazione.

Mi pare ovvio,
Sovrabbondante,
Quel modo ripetuto
Del diniego.
Come se il fare e il poter fare
Rompesse
Qualche ordine siffatto.
Come se il sogno
S’intrufolasse,
Rischiandolo
Il presente.

Ben si comprende, alfine, che la fuga, il sogno della fuga, è azione o progetto senza cui non è possibile alcun ritorno, alcuna concretezza o realizzazione costruttiva. Se l’orizzonte sembra non includere il soggetto, “O forse allude / A incroci / Inconcludenti”, resta comunque una speranza, individuabile proprio nell’assenza di segni già inscritti, nella mancanza di “concrezioni certe”. La fuga nell’ombra, ora il lettore lo sa, è fuga nell’incerto, nel regno dell’immaginazione. 
Tuttavia, le opere  dell’artista non sono sovrapponibili, forse nemmeno prossime, alle sue immagini poetiche. La loro complicità dipende anche dal lettore che frequenta entrambi i versanti.


                                                                                    Rosa Pierno

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