Rubrica: Brevi riflessioni sui miei contemporanei
La prima parola che mi è venuta in mente, in maniera decisa, poco dopo aver intrapreso la lettura e l’ascolto di questa raccolta, è stata “anacrusi”. Sicuramente perché verso l’inizio del libro in un testo entra l’epentesi, che me l’ha richiamata. L’anacrusi è quell’attimo che dà inizio all’esecuzione di un brano musicale, rappresenta l’istante prima delle prime note da cui poi tutto accade. In ciascuno dei componimenti di Gianluca Garrapa sembra esserci quella presa di respiro iniziale. Infatti bisogna essere pronti a tutto quello che può succedere. Anche a sfidare, guidati dal poeta, la sintassi. E lasciarsi sorprendere, continuamente, a ogni riga e in ogni brano. Perché, se in poesia si è già scritto quasi tutto, quello su cui un autore può direttamente intervenire è la forma, lo stile, l’unione improvvisa e insolita, talvolta dissonante, dei termini. L’opera è costruita con dovizia di sentire e con una ridda di parole esattissime, aderenti all’idea generativa: la prova è ardita. L’autore garantisce una tenuta testuale esemplare, sia nelle parti strutturate in prosa poetica, sia in quelle finali in cui compaiono i versi.
Per il piacere di un lettore non occasionale e non appiattito su stilemi consumatissimi, Garrapa introduce la nozione di un dire che tiene conto, senza indugi, della frammentaria e simultanea realtà contemporanea, usando un “filo che imperla quotidiane molteplicità”.
Nella prima sezione, “transizioni”, tutto si spiazza e tutto si ricompone: molti testi vengono chiusi come sono cominciati, in una sorta di sigillo. Il corpo della scrittura scioglie la sua tensione costitutiva in “stasi”, la seconda parte del volume: ora il ritmo è meno sincopato, è meno ossessiva la punteggiatura, il lessico riesce ad abbracciare e a comprendere l’entrata inaspettata di un “io” che racconta e ricorda. È la stasi che precede qualcosa, una sospensione che prepara, l’anacrusi per l’arrivo della terza unità del libro. Gabriele Frasca, in postfazione, dice con ragione che si tratta del “capodopera del volume”.
Qui si va in accumulo, con un montaggio filmico da Oscar: ci sono, in variabile alternanza, “fantasmi” e “lingue” prodotti in versi, e “traumi” di andamento prosastico. Qui si staglia un testo non classificato e non classificabile, il “Dissonetto” che brilla nella sua metrica differenza. Qui, nelle poesie dedicate ai “fantasmi”, il ciclo del partire rappresenta una vetta, raggiunta in solitaria, parola dopo parola (“treno traino trahere tirare / carbone macchine cavalli vapore”), fatica dopo fatica, tra senso e suono. Se “traumi” ha contiguità con la prima sezione del volume, “lingue” rappresenta nel suo specchio il tentativo riuscito di guardare e di usare la lingua dalla parte di ogni altro: insieme scardinamento e accoglienza (“andare sparire no avere paura / sempre alba anche dopo / notte molto scura”). Questa terza parte si chiude con sei poesie senza pre-testo, in cui l’autore scioglie la scrittura in pagine dolorose, dedicate, dove “fa freddo attraverso gli sguardi”, dove, dopo aver attraversato terre inaudite e superato ogni pericolo, “la morte / ci fa di nuovo fragili / di nuovo / esseri viventi”.
Ranieri Teti
1 commento:
Grazie per aver spiegato il significato di "anacrusi" non lo conoscevo, ma lo percepivo.
Molto dotta la recensione, tuttavia l'ho seguita con molta attenzione
Grazie
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