Rosa Pierno intervista Marco Furia su “Tratteggi”, Anterem Edizioni, 2017
Con “Tratteggi”, Anterem edizioni, 2017, ritorni alle forme brevi della tradizione italiana, come indicato anche in esergo attraverso una citazione da Italo Calvino: “In questa predilezione per le forme brevi non faccio che seguire la vera vocazione della letteratura italiana” (da “Lezioni americane”), ma noi diremmo anche che è quasi un ritornare alle origini del tuo percorso letterario, in cui adoperavi brevi lasse.
Sì, d’accordo.
Dopo certe esperienze giovanili, ho pubblicato su “Tam Tam” alcune poesie e, per le edizioni curate da Adriano Spatola, due volumetti: ho poi proseguito con la rivista “Anterem”, di cui sono redattore ormai da molti anni, dando alle stampe svariati testi con la cura editoriale di Flavio Ermini.
Qualcuno ha parlato, riferendosi ai miei lavori, di prose poetiche: prose che, per così dire, si sono a un certo punto trasformate in versi.
Correttamente, perciò, parli, a proposito di “Tratteggi”, di un ritorno a un certo tipo di forme.
Hai al tuo attivo anche un ricco e costante percorso di relazione con l’arte in quanto ecfrasi. Ce ne parli?
Nutro per l’arte un vivo interesse: con “La parola dell’occhio” e “Iconici linguaggi” ho proposto mie letture di celebri dipinti.
Ritengo che le espressioni artistiche, in genere, siano linguaggi originali e, perciò, specifiche forme di vita: il mio atteggiamento critico è teso a far emergere elementi idiomatico-esistenziali nelle opere di poeti, scrittori, pittori, eccetera.
Io stesso realizzo immagini fotografiche astratte che sono state inserite in mostre e pubblicate sulla rivista giapponese “δ”, diretta da Shin Tanabe.
Le attuali tue prose sono radicalmente diverse dalle tue poesie, non, ovviamente, solo per la forma, ma soprattutto per i temi, il tono, il tipo di ricerca che persegui.
Le differenze di cui parli balzano agli occhi: eppure le due forme, nella loro manifesta diversità, hanno in comune un identico sguardo rivolto verso l’esterno.
Del resto, credo proprio che la distinzione tra generi letterari, intesa in senso rigido, abbia fatto il suo tempo.
Nell’ambito della prosa la tua scrittura è molto più ferma e distante dall’oggetto di quanto non lo fosse la prosa di Ponge, che si dipartiva dalla descrizione per approdare a una moltitudine di dettagli.
Ponge è un autore che mi è molto caro e che ho tenuto (e tengo) ben presente: a proposito dei miei scritti, qualcuno ha citato, con ragione, anche l’école du regard.
È da notare come sia presente, proprio in “Tratteggi”, un’ironia proposta secondo cadenze intimamente necessarie allo sviluppo del testo.
Quanto al dettaglio, per me il particolare è punto di partenza: le mie minute descrizioni intendono mostrare al lettore parte di ciò che compone l’immenso collage dello stare al mondo.
La profusione di punti interrogativi dice anche di un soggetto dubbioso sulle proprie capacità percettive, fisiche, logiche. Forse, attraverso l’enumerazione degli atti, cerca un proprio fondamento?
Il dubbio, se è tale, deve presupporre, almeno in astratto, una soluzione: il vero enigma invece, secondo me, va compreso e accettato.
I miei punti interrogativi esprimono la presenza d’incertezze, ma intendono anche rimandare a un enigmatico quid di cui si può soltanto prendere atto.
Quanto al presunto “fondamento”, preferisco pensare a forme d’umana comunicazione insite nel loro stesso modo di manifestarsi.
Hai già altri progetti nel cassetto?
Continuo le attività di scrittura e di creazione d’immagini di cui ho parlato: per quel che riguarda specifici progetti, invito il lettore a seguire il mio lavoro.
Brani estratti da “Tratteggi”
A saltellante passerotto, avvicinatosi alle gambe di tondo tavolino, furono offerti alcuni pezzetti di pane abbrustolito: un grosso frammento, trattenuto nel becco, venne trasportato altrove, al sicuro.
Nonostante cortese cameriere avesse attirato lo sguardo di generoso cliente su un cartello recante la scritta “Si prega di non distribuire cibo ai volatili”, il simpatico uccelletto, subito ritornato, ricevette altre briciole.
Intento ad agitare bombato shaker, vigile barman, al quale non sfuggì simile (furtiva) trasgressione, fece finta di nulla.
Acquisto d’indispensabile macchina avvenne presso esercizio commerciale specializzato nella vendita di congegni elettronici: ingombrante scatolone, il cui peso, fortunatamente, non era eccessivo, fu trasportato, con l’aiuto di piccola maniglia, fino a (non vicina) fermata di pubblici automezzi.
Salito su affollato autobus, sceso dal medesimo circa venti minuti dopo, percorse tortuosa viuzza in ripida salita: superata marmorea soglia di alto portone, aperto l’uscio di casa, appoggiò sul pavimento d’accogliente atrio la grossa scatola e, senza indugio, estrasse il contenuto.
Occorreva, ora, effettuati i necessari collegamenti (e inseriti nelle proprie sedi due minuscoli contenitori colmi d’inchiostro), apprendere le modalità d’uso dell’apparecchio: consultò, a tale scopo, il prontuario la cui “icona” era apparsa sul rettangolare schermo del personal computer.
Lette attentamente numerose, complesse, avvertenze (riguardanti, per lo più, opzioni che non suscitarono il suo interesse), riuscì, dopo alcuni vani tentativi, a eseguire una “stampa” e, non senza incontrare ulteriori difficoltà, una “copia”.
Quanto allo “scanner”, impararne l’articolato utilizzo – se ne rese subito conto – avrebbe richiesto un impegno ancora maggiore.
Inaspettato incontro avvenne sulla soglia di rinomato ristorante: i saluti furono reciproci e calorosi.
Poiché ciascuno era diretto al proprio (non deserto) tavolo, a poche parole di circostanza seguirono espressioni di commiato.
Commiato definitivo, per quella serata?
No: uno dei due, prima di uscire, non mancò di raggiungere l’altro e d’intrattenersi un poco con lui.
Poiché, in mancanza dell’indicazione di uno sconosciuto “numero identificativo”, inflessibile impiegato dell’ufficio postale rifiutò di ricevere (obbligatorio) modulo di pagamento, distinto individuo si servì di sottile smartphone per entrare in contatto con sollecito funzionario dell’ente creditore.
Ottenuta piena conferma del fatto che soltanto l’amministrazione postale poteva essere a conoscenza di tale dato, atteso il proprio turno, riportò con precisione quanto riferitogli: mostrando fastidio, l’impiegato ribadì che in nessuna maniera sarebbe stato possibile accettare quel pagamento in assenza del prescritto numero.
Il problema appariva privo di soluzione.
Buona sorte volle che altro (solerte) dipendente intervenisse e, composta articolata sequenza a mezzo elettronica tastiera, conducesse a felice termine l’operazione.
Quel certo numero non era, dunque, indispensabile? O, forse, era automaticamente apparso sullo schermo del computer a seguito di corretta manovra?
Consegnate tre banconote e ricevute alcune monete in qualità di resto, ringraziato e salutato salvifico addetto, distinto individuo abbandonò, con veloce passo, affollato ufficio postale.
Premendo sagomato tasto, mise in funzione potente asciugacapelli il cui getto d’aria risultò piuttosto freddo.
Poiché non poche gocce d’acqua scivolavano lungo la folta capigliatura, appoggiato spento fon su marmorea mensola, adoperò spugnoso asciugamano per porre fine al fastidioso inconveniente.
Ritornata di fronte ad ampia specchiera, riacceso l’elettrico apparecchio, ottenne, modificando la posizione di dentellata rotella, un flusso più caldo che le consentì di dare inizio, con l’aiuto di alcuni bigodini, alle laboriose operazioni di messa in piega.
Ripetuto trillo proveniente da (non attiguo) telefono venne ignorato.
Raggiunto, a passo sostenuto, rettangolare cartello indicante la fermata di urbano autobus n. 80, civico orologio, appeso allo spigolo di storico edificio, avvertendolo del ritardo accumulato, poiché elettronico quadrante non forniva, come avrebbe dovuto, alcuna informazione sul tempo di attesa, si avviò a piedi.
Mentre stava percorrendo, trafelato, un ripido tratto in salita, (veloce) pubblico automezzo n. 80 lo superò.
Marco Furia
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