Una serie di incisioni di Alessandra Varbella, con una luna che sembra allontanare da sé la polvere ferrosa della notte, ricostruendo una visibilità che allontana, pur se solo parzialmente, la minaccia delle tenebre, lasciando accedere all'esistenza, quasi per un fulminante lasso di tempo, la selvaggia pianta dei ripidi pendii, è il miglior viatico alla breve quanto intensa pagina che con grande perizia Chiara Fenoglio incide a sua volta sull'ultimo dei sei idilli di Giacomo Leopardi, La vita solitaria, scritta quasi certamente nel 1821.
Ben si conosce il metodo di lavoro leopardiano, che riprende e rilavora incessantemente i suoi tópoi e mai non dismette di collezionarli nelle nuove relazioni che istituiscono, ricavandone ogni volta processi significativi sempre più ricchi e mossi, più vitali e contraddittori, impossibili a ricomporsi in unità. Ed è proprio attraverso la riscrittura del linguaggio poetico tradizionale, e in particolare del Petrarca, come mette in rilievo la Fenoglio, additando l'originale sistema di riferimenti semantici che si attivano nella poesia del Leopardi in relazione all'autore del Canzoniere, poiché variano le condizioni personali e varia il modo di incasellare il reale nei due autori, oltre che naturalmente la lingua, che si può intendere come La vita solitaria acceda al grado di particolare centro d'irradiazione anche della produzione successiva.
Ciò implica, appunto, una considerazione del poeta di Recanati sulla propria poetica, esplicitata nel suo Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica: "Solo gli antichi, per il loro stato d'ignoranza, potevano trarre vero piacere dall'imitazione della natura con la parola. Al poeta moderno non rimane che imitare la natura attraverso gli occhi degli antichi, unici ad avere creato diletto nei lettori" essendo liberi dalle catene di una ragione che si oppone a ogni pur sana illusione. Proprio la messa a punto di una poetica restituita dal lavoro sui materiali prelevati dalla tradizione consente al Leopardi, come prima al Petrarca, di giungere a quelle vette poetiche che in ogni caso, in entrambi, pur se con precise differenze, come ci tratteggia Chiara Fenoglio, vengono elaborate all'interno di una vita solitaria, subita o autoimposta che sia.
Il risultato sarà una straordinaria posizione che del piacere, in prima istanza impossibile a causa della disillusione procurata da una razionalità che colpisce l'uomo moderno impedendogli di aderire alla natura e alle sue illusioni, non fa un luogo di rifiuto totale, ma sfrutta la sottrazione di azione e desiderio, traendo a riva l'assenza di ogni dolore: l'unica pace possibile, l'unico piacere recuperabile. Fenoglio, saldando in rapidissima successione alcuni punti salienti, compreso il concetto del Mengaldo relativo a una linea di circolarità che ha nel finale della poesia molti elementi dell'attacco, ci porge il senso di una linea poetica, la quale sia sul giudizio che Leopardi stesso ebbe del Petrarca, sia sulla distanza della poesia dei moderni da quella petrarchesca, svolge, dinanzi ai nostri occhi, i motivi dei sei idilli tutti. Per Leopardi, essi coincidevano con la ricerca di una verità che fosse anche, contemporaneamente, una risposta esistenziale.
Rosa Pierno
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