lunedì 13 giugno 2016

Livia Liverani: un ponte tra sponde congiunte





Il simbolo è costituito da una figura fissa e da un concetto a essa associato, anche se arbitrariamente, il che spiega perché in differenti epoche o contesti culturali la medesima figura possa accogliere diversi significati. Di fronte alle opere di Livia Liverani, comprendiamo che i contesti diversi sono dati dalla tradizione buddhista di origine,  da cui è tratta la collezione di figure, e quella occidentale di arrivo, poiché l'artista è inevitabilmente intrisa di sensibilità e cultura occidentale ed effettua una rilettura/reinterpretazione che sposta l'asse figurativo verso nuovi significati. Nel senso che pure attraverso l'appassionata adesione alla pittura tibetana, il portato individuale è ineliminabile, gli occhi e la cultura sono diversi e necessariamente la forma che ne risulta ha valenze sue proprie di significazione.

Ciò che costituisce un primo discrimine tra l'arte tibetana e l'arte occidentale è che la prima viene trasmessa da maestro a discepolo secondo un rigido protocollo che mantiene  inalterate le fattezze, le proporzioni e i colori,  affinché  non si verifichi nessuna interposizione nella ricezione del messaggio originale, il quale inoltre, deve essere inteso, rivissuto come esperienza diretta, non concettuale, intuito, riconosciuto nel suo farsi, mai variato.  Ora proprio tale conformità sembra essere uno dei cardini che contrappone l'arte tibetana a quella occidentale. Nel seguire le indicazioni, gli schemi e i metodi che vengono a regolare tale prassi, Livia Liverani, infatti, si sgancia da esse esattamente nel punto in cui richiederebbero un'adesione totale al fine d'indurre nell'immagine la presenza di una sensibilità meno instradata.


Fermo restando il carattere della sua generale adesione alla pratica tibetana, e per questa via incanalando i simboli della sua tradizione millenaria: il metodo, la saggezza, la via dell'illuminazione, la vacuità, la compassione, lo scarto introdotto dall'artista lo si coglie nella raffinatezza dell'innesto - di per se stesso simbolo dell'intersecarsi del nuovo nell'orientale pratica - spesso un collage ottenuto con piccoli ritagli di stoffe giapponesi  (raccolte dalla Liverani nella sua instancabile attività di indagine all'interno delle culture asiatiche) utilizzate per  marcare una forma o costituire un motivo nel motivo. I simboli vengono dunque rimessi in un contesto formale rivisto e rivitalizzato, che ha qualche assonanza con certe proliferazioni fiamminghe o giapponesi che nel disegno floreale raggiungono apici di maestria e di raffinatezza estrema: ecco le piccole precisissime piante che lambiscono i piedi delle figure immerse nell'immagine! Incantevoli evoluzioni vegetali e volute geometriche ove la tassellazione non giunge mai ad esaurirsi.

A partire da un simbolo, come accade nell'opera "Ma gcig Lab sgron", ove una Yogini senza paura "danzando sulle divinità e gli spiriti dell'io, riduce in polvere il pensiero discorsivo della trasmigrazione che genera dualismo" si nota, nella squisita fattura della figura umana dipinta su seta, un parterre di fiori di loto avente la leggiadria  delle creazioni dell'art nouveau. Questo non per ricondurre il lavoro di Livia Liverani al già visto, quanto piuttosto per evidenziare che prestiti di provenienza la più disparata coesistono nelle sue opere come per vitrea fusione.  Tal è di fatto il grado della precisione che la Liverani infonde nella stupefacente tecnica appresa durante l'apprendistato col maestro Lama Yeshe Jamyang. Una rarefazione degli elementi, una pulizia che fa respirare l'aria delle cime innevate ed eleva ciascun elemento dell'immagine caricandolo di un'aurea che segnala, anche a  coloro che non sono edotti sulla simbologia buddhista, che si è in presenza di un significato importante, assoluto.

Alcuni lavori presentano forme ritagliate in stoffe - stoffe accuratamente scelte fra quelle aventi una propria individua fisionomia grazie alla particolare tessitura, pesantezza, colore, decoro - le quali consentono all'artista di operare ogni sorta di intarsi, che si fondono nell'emulsione generale dei delicatissimi toni creando armonie tenui e sonanti. Anche le carte dalla superficie operata, e a loro volta incollate o ricamate sulla stoffa che funge da supporto, presentano una nitidezza che smorza le tinte squillanti e la fantasmagorica presenza dei decori fermentanti sulla superficie liquida delle pitture della tradizione, facendo lievitare ciò che ha simbolico valore. I  racemi presentano un accenno, appena una voluta che si replica in un germoglio,  e sono deposti sull'immagine come i coralli di una collana: preziosi reperti che ci parlano del tutto, proprio mentre ci viene presentato un particolare. Spesso interviene il ricamo di perline o l'utilizzo di fili di seta a creare un'ambigua consistenza tra opera su supporto rigido e stola (il ricordo di leggiadri kimono non è certo lontano). Il risultato è la quintessenza del lavoro manuale che resta componente non strumentale, ma reclamante la sua visibilità in quanto processo di meditazione facente parte dell'opera.

In qualche modo è questa la più suadente riattualizzazione - quella, appunto, che Livia Liverani ha saputo creare con profondo rispetto e ammirazione - di una tradizione che su tale via individua il modo di rinnovarsi e di contaminarsi, dove la parola fondante sia innesto, talea, e non prelievo di una sua franta porzione che non darà più frutti una volta che sia incongruentemente inserita in un contesto totalmente estraneo, come accade di vedere in tanti artisti tibetani che vogliono introiettare le forme espressive  occidentali senza cercare la via della mediazione e della continuità. È la via, cioè, in cui il dualismo appare polverizzato dalla delicatissima danza della Yogini senza paura.

                                                                                       Rosa Pierno


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