martedì 10 maggio 2016

Anna Toscano "Una telefonata di mattina", La vita felice, 2016


Per quanto piano e semplice l'andamento versificatorio, quasi epigrammatico, non si ceda all'impulso di scambiare l'elenco di oggetti, inseriti in una sintassi paratattica, come un procedere che appaia  opposto a un ordine spazio-temporale, quanto, piuttosto, come alla predisposizione di una scenografia: "Tavolo di marmo chiaro / deboli zampe di legno / briciole sparse sul piano / un piatto colore aragosta / posate spaiate".  Anna Toscano nel suo ultimo libro "Una telefonata di mattina", La vita felice, 2016,  disegna dapprincipio la scatola teatrale in cui far dialogare i propri sentimenti,  persone, animali, cose, ma per raggiungere prestissimo una straordinaria cifra contraddittoria, in quanto la consapevolezza del valore, dell'aver compreso ciò che si svolge sulla scena, viene sempre dopo, quando il teatro si è oramai svuotato, in una sorta di costante sfaldamento dei tempi.

La collisione vita-morte raggiunta per questa via modifica quella che in un primo tempo si crede poesia delle cose semplici, quotidiane, privilegiante la parola emotiva, in una poesia della riflessione metafisica tout court, la quale separando il bene dal male, classificando le cose importanti, ristabilisce una scala di valori del tutto individuale che resta avvinghiata agli oggetti, come avviene appunto nella metafisica di impianto aristotelico, e mai se ne distacca se non per farli diventare risicata astrazione: schema. Una revisione che tradisce, però, un certo scetticismo sulle modalità percettive (sempre innervate da ragione e passione) le quali appaiono tanto inestricabilmente connesse quanto separate: forse questo è il compito più gravoso: non si può mai mettere ordine, nemmeno in un elenco che non necessita di catalogazione,  nemmeno con un procedere lento, con dispositivi che ricordino quasi le strettoie del sillogismo, in una finta limpidezza (con colori metallici o vivissimi come sono quelli artefatti del ricordo nell'età che avanza).

Scetticismo perché non si comprenderà mai a sufficienza che il presente è il tutto, raggiunto focalizzandosi su tutti i tempi possibili, immaginabili persino, e proprio mentre si enumera una percezione afferrata istante dopo istante.
Persino l'amato passato, nel quale allignano familiari o personaggi presenti a vario titolo, diviene un fondale del tutto relativo, disegnato com'è dall'oggi,  anzi, solo da esso derivando virulenze tenere o nostalgiche mancanze.  La percezione non solo registrata per via visiva, ma anche uditiva: "televisioni che cambiano canale / lavatrici in centrifuga / qualche chiodo sotto un martello", con il corredo delle sue illusioni e delle sue certezze, fa scrivere ad Anna Toscano di "essere ovunque e in nessun posto / la domenica pomeriggio". Attenzione uditiva che si trasferisce integralmente nella definizione dei versi contenuti nella seconda parte della  raccolta "All'ora dei pasti", dove la rima diviene espediente o sinonimo di gioco e l'elenco diviene strumentale a una fuga: "lasciami stare silente / tra le braccia di un amante clemente". E, dunque, Il bilancio, ha sempre valore positivo: "cerco un pertugio dove trovare / l'ovvietà della decenza / come uno specchio oblungo / infallibile nel suo porsi", nonostante che la ricerca dell'equilibrio tra ragione e passione, tra percezione e concetto,  sia impossibile, come nella poesia "Ho guardato":

Ho guardato a lungo
la screziatura arancio
della fiamma violetta
ho contemplato la pentola alta
i suoi manici consunti dal calore
pensavo che io fossi come loro
arsa dal caldo della rabbia
brucia le energie squaglia le idee
sfoca la ragione rivolta l'anima
il rosso del ferro del fuoco
si accende e si spegne calmo
e il mio braccio prima bianco

lungo affusolato poi grossa torcia tozza

sì perché, ho messo un braccio
dentro la pentola
dell'acqua bollente
fino al gomito
pensavo fosse un attimo
e poi nulla
invece ho sentito tutto
su di me
Il dolore  che mi hai lasciato

Che sia, quella di Anna Toscano, una poesia impregnata di filosofia della percezione è manifesto per il modo in cui riporta alla mente certa prosa beckettiana, in cui, appunto, il linguaggio appare come svolto, disteso, ricondotto alla prosaicità del tempo esistenziale. Che allora il linguaggio ridiventi il dispositivo capace di sintetizzare in sé la non componibilità del reale, si palesa, allo stesso tempo,  chiave di lettura: che cosa sarebbero, infatti, le cose senza il linguaggio, come sistemeremmo la molteplicità delle sensazioni?

Quando il sole

Quando il sole
era luce
chiamavo le cose
con il loro nome.
Ora che la pioggia
non ha acqua
le cose
non hanno più un nome
sono solo cose

Persiste, in ogni caso, un certo disagio per la trasformazione che determina la non coincidenza delle cose ricordate con le cose presenti, un'incomprensibile modificazione che senza cambiarne l'essenza incide tuttavia sulla sostanza, ecco individuato un'altra antinomia, alacremente attiva in tutta la silloge.

Se la paratassi crea un effetto stilistico di velocità e immediatezza comunicativa, tale effetto viene annullato dalla chiusa che segue immediata e fulminea, avente sempre il valore di una meditazione. Pertanto,  anche se, ad esempio, le  città sono restituite attraverso un elenco di luoghi e suoni, esso  si conclude sempre con un punto fermo, quasi un guardare all'altrove dal medesimo punto, quell'io che è il più insindacabile dei risultati, emerge, infatti, dalle pagine come l'appiglio cartesiano di colui che fra mille percezioni è in grado di afferrarsi a esse come a un'ancora che assicuri la sopravvivenza. Ma che soprattutto dia, al tempo stesso, voce alle componenti tutte dell'umano essere, in modo inderogabilmente paradossale.

                                                                           Rosa Pierno

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