lunedì 30 settembre 2024

STEVE N. 63, edizioni del Laboratorio, primavera-estate 2024

 


Il nuovo numero 63, primavera-estate 2024, della rivista <<Steve>>, diretta da Carlo Alberto Sitta, è un piedistallo dal quale osservare il mondo letterario non soggetto a mercificazione. Se da un lato costituisce una sfida una rivista che vuol essere una finestra su un panorama letterario e artistico tanto articolato e frammentato come quello odierno, dall’altro lato, essa riesce a individuare le direzioni di ricerca attive nei testi, avendo di mira una visione unitaria. Inoltre, la rivista si mantiene in equilibrio sul filo gettato tra verbale e visivo, andando alla ricerca non del sostegno che la parola può offrire all’immagine, ma del proliferare di sensi, anche pre-verbali, che scaturiscono dal loro sfrigolare. Analizzando il lavoro di Ketty La Rocca, Raffaella Terribile puntualizza che spesso la ricerca, specificatamente della poesia visiva e concreta, cerca l’elisione reciproca di parole e immagini, costringendo entrambe ad assumere una diversa valenza e, in ogni caso, a uscire dalle secche di un linguaggio strettamente comunicativo. Sotto accusa non è solo il linguaggio, dunque, ma anche il sistema delle arti, entrambi accusati di imporre il proprio potere, esercitando una vera e propria espropriazione mentale. L’assunzione acritica del linguaggio, il suo uso “passivo” induce a sclerotizzazioni invero nefaste. Ed è questo un contenuto che dagli anni ‘70 viene promulgato da una coalizione culturale che mira a contrastare l’accettazione supina del sistema dato.

Si rivela così necessario prestare attenzione all’attività della critica, la quale deve mettere in luce le ragioni fondanti di pratiche alternative e non ricadere nel rischio della descrizione, sorta di parafrasi del testo poetico, secondo l’avvertimento di C. A. Sitta: la critica ha, infatti, il dovere di formulare un giudizio di valore. Per raggiungere tal fine  deve potersi giustificare la sua ragion d’essere, si deve delineare il punto di vista di chi ha prodotto l’opera visiva, verbale o multimediale, oltre a indicare lo specifico contesto storico, ossia il testo deve essere “oggetto di interpretazione”. Purtroppo, attualmente, le ristampe di opere importanti (ad esempio, Partita di Antonio Porta o Oblò di Adriano Spatola) vengono accolte da <<generazioni smemorate che sembrano vivere a loro volta in spazi indeterminati>>. Lucidissima è la lassa in Cronaca da una clausura di Sitta a tal proposito: <<Se il critico perde il rispetto del proprio oggetto diventa un malmostoso saccente che nulla ha da aggiungere a ciò che studia, se non la delimitazione sadica dell’opera e la paralisi tossica dei significati (16 novembre 2023)>>.

A tal proposito, la nota critica di Paolo Gera al poema di Carlo Alberto Sitta Continente d’acqua esemplifica la necessità dello scavo concretissimo e annodante ciascun verso a riferimenti letterari, illustrandone filiazioni e distanze e costruendo così la mappa delle origini e delle differenze che legano ogni libro a un altro libro, distanziandosene al tempo stesso. Nel medesimo alveo si collocano le illuminazioni concettuali di Mladen Machiedo costruite sul limitare del paradosso. Sono aforismi sulla natura politica dell’essere umano che sembrano dover accompagnare e facilitare, con le domande retoriche presenti nel testo, baluginanti come se fossero state scritte al lume di candela, la presa di coscienza di coloro che mancano di confermare persino i propri dubbi: <<È un dono vivere nel mondo che continuamente si autocancella?>>. Nel mondo globale c’è una sola voce, altro che multiple differenti voci: <<Alcuni si sentono offesi, se – per colpa loro – siete voi i danneggiati>>. E se allora la letteratura si assume l’onere di essere voce dissidente si sarà certo ridato valore alla scrittura. Va da sé che il contrario di tale scrittura è quella professionale, carrieristica. E d’altronde Machiedo scrive: <<Alla bassa marea della poesia giova, sì, la bassa marea della critica>>.

Analogamente, Antonio Belfiore studia le tecniche espressive di Giovanni Fontana aventi come fine di mostrare, attraverso le potenzialità sonore del segno, le sue possibilità performative, ma anche l’emersione dello scarto e di un <<dialogo che procede per scatti, intermittenze, vuoti>>.

Tuttavia, non basta dire che <<Steve>> accoglie la letteratura che si oppone a quella di consumo. Poiché appunto anche la ricerca segue il solco della propria tradizione, ha una storia, ha modalità precise di articolazione e non è un contenitore che automaticamente raccoglie ciò che esula dal primo. Non è nemmeno escluso, d’altra parte, il sentimento di appartenere a una comunità che condivide alcuni assunti. Se oggi sono sparite le poetiche, non è però dissolta l’adesione a un insieme circoscritto di voci selezionate rispetto alle quali s’intende far risuonare la propria voce. La volontà di non sottomettersi al giogo dell’ovvio così come agli “effetti speciali retorici” impone un esercizio costante che vaglia ogni singolo lessema, incastonandolo in una struttura sintattica atta a raffreddare le esuberanze stilistiche, ma anche a sostenere un tessuto che stimola la produzione di un senso non immediato. 

Anche i testi di Raffaella Terribile effettuano un’analoga cernita nella produzione artistica. La studiosa affronta nelle opere visive di Maurizio Osti le esperienze verbo-visive da lui condotte assieme a Giorgio Celli e ad Adriano Spatola, enucleando il tema delle tangenze impossibili tra visivo e verbale che è un perno dello studio da sempre perseguito dalla redazione di <<Steve>>, lo ribadiamo, ove la questione del segno rimane aperto, <<spinto nell’indeterminatezza assoluta, sospeso tra possibili soluzioni e un ordine apparente, che risulta sempre una determinazione provvisoria>>.

Analoga posizione ripresa dalle poesie di Mario Moroni: <<spazi sonori risonanti / di parole senza riferimento certo, / senza la realtà dietro quei suoni / quei segni, torrente in piena, / senza argini, gli argini del senso>> (da Maremma). L’attenzione tenuta costantemente sull’arbitrarietà esistente tra significato e significante è un ottimo setaccio per non indulgere all’uso comunicativo del linguaggio. Giorgio Terrone con i suoi “pensieri di piccole cose” e le “immagini senza importanza” lavora, nelle sue  poesie, sulle percezioni che sfuggono alla concettualizzazione. Con uno splendido testo poetico, Philippe Jaccottet descrive la lenta navigazione degli ultimi anni di vita verso un porto, lasciando alla rima la sua piena potenza evocativa. Ma abbiamo citato solo alcuni autori fra i tanti presenti nella rivista esclusivamente per seguire un certo filo discorsivo, tra i testi, tutti pregevoli.

Nella rivista è presente anche una sintesi del convegno organizzato dal Festival Mantova Poesia, nel 2024, che ha visto la partecipazione di quattro riviste, Formafluens, L’Age d’Or, Menabò, Steve, le quali condividono alcuni elementi fondanti: la volontà di superare i generi, la ricerca dell’immagine come elemento che entra in maniera attiva nel testo deviandone il senso, l’attenzione alle problematiche della società di massa e l’attenzione esclusiva al pensiero critico anziché alla comunicazione.



Steve, diretta da Carlo Alberto Sitta ed edita da Edizioni del laboratorio, Modena.

Pubblicata dal 1981, la rivista ha rinnovato nella seconda serie l’attenzione per i linguaggi artistici, pittura, architettura, teatro, musica. Nella quarta serie ha pubblicato, in una serie di interventi entro una specifica sezione, la biografia per immagini  di alcuni fra i più importanti poeti italiani: da Viviani a De Angelis, da Porta a Niccolai, da Neri a Spatola, da Piersanti a Pignotti.


martedì 10 settembre 2024

Tiziana Colusso, Lengua de striga, Bertoni, 2024

 


Per stessa indicazione dell’autrice, Tiziana Colusso, la raccolta di testi teatrali contenuti in Lengua de striga, Bertoni, 2024, che raccoglie testi scritti nel periodo che va dal 1989 al 2023, riguarda un teatro di voci, nel senso che, anche quando è presente il dialogo, i personaggi non acquisiscono una precisa individualità, nascono come funzioni sceniche, non agiscono in uno spazio concreto e sono dunque puramente mentali, sulla scia del teatro sperimentale degli anni Ottanta. Lo si constata subito nel testo del 2023, Casa senza bambole, nel quale la voce protagonista, femminile, coincide con la voce narrante, descrivendo condizione interiore e scenografia assieme. Il luogo in cui l’azione si svolge è di fatto la descrizione letteraria di qualcosa che in scena non ha luogo. È un teatro privo di scenografia, per questo lo spazio vi è descritto come fosse una funzione dell’interiorità che vi s’inscena. Lo spettatore è come se dovesse leggere l’ecfrsi di un quadro, poiché il quadro non è disponibile alla sua diretta visione. E ciò ha la sua ragion d’essere. Quello che la voce descrive è una sorta di esperimento portato all’ennesima potenza. Sperimentare la totale mancanza di libertà che un uomo-carceriere impone, non escludendo che la responsabilità sia in parte di una incauta cessione di libertà o meglio della rinuncia alla propria libertà avvenuta già all’inizio della relazione per una malintesa valutazione di ciò che una relazione dovrebbe essere. Cosicché, il paradosso dell’auto-incarcerazione aiuta a comprendere come si debba sempre evitare una tale caduta insita nella sperequazione posta all’inizio del rapporto. E, certamente, Colusso è da sempre attiva nella denuncia delle ingiustizie, dei soprusi, delle violenze, affinché tutti gli esseri umani siano avvertiti dei pericoli etici e politici che connotano una società in costante crisi di valori e produttrice di orrori, com’è nel testo Il precipizio. Teatro delle voci per Donatella e Rosaria, del 2019. Ivi, attraverso una polifonia di voci, la testa di Circe, ritrovata nel 1928 sul Promontorio del Circeo, diviene scaturigine simbolica del precipizio morale e materiale del massacro del Circeo. Lo spettacolo, con una messa in scena multicentrica e multimediale, è stata rappresentata a Terracina nel 2021 e a Velletri nel 2023, conseguendo il Premio Palco Errante.


Nel volume sono presenti due riscritture di un primo lavoro, avente il titolo Ars fulguratoria, messo in scena nel 1996 nello spazio di una chiesa sconsacrata e curato dal regista Stefano Grossi. Una ricerca storica condotta dall’autrice ha rintracciato le relazioni esistenti tra magia e religione negli Etruschi, in particolare sull’aruspicina e sulle sacerdotesse che interpretavano i fulmini. La prima delle riscritture del testo originario è Lengua de striga. Partitura per voci, coro, musica e canto. Il personaggio principale non parla se non attraverso il coro, poiché sordomuta. Tale menomazione assurge a simbolo di alterità, nel senso che segnala una più efficace e raffinata sensibilità, ma è anche indice del fatto che più che di una persona si tratta di una stratificazione di identità storiche. La pièce teatrale, andata in scena nell’ambito del Festival RomaPoesia del 2002, si avvale di voci recitanti disposte in semicerchio, con alle spalle un’opera di Enrico Frattaroli Lengua de striga. Presenti sulla scena anche alcuni musicisti a rimarcare la necessità per l’autrice di servirsi di diversi mezzi espressivi, in linea con un insistito uso di vari linguaggi (latino, inglese, dialetto) che contribuiscono alla costruzione stratigrafica del personaggio principale. Il riferimento paesaggistico è alle terre della Tuscia, nelle quali Tiziana  Colusso è nata e ha vissuto, alla torva presenza delle tombe etrusche nei boschi fondi e senza respiro, così magnificamente descritti da Vincenzo Cardarelli nei suoi testi letterari. E anche questo immediato legame letterario contribuisce a creare una sorta di contatto immediato tra realtà diverse nel tempo, tra diversi sostrati culturali. Risalendo alle popolazioni che hanno abitato quelle terre, così presenti nelle suggestioni degli attuali abitanti, Tiziana infilza assieme pratiche divinatorie, nella figura di una sacerdotessa etrusca addetta a leggere i segni che i fulmini tracciano nel cielo, e nella figura di Irina, sordomuta nell’era contemporanea, la quale salda con le sue percezioni il proprio corpo alle pietre dei sentieri che percorre. La magia si rivela il legante tra le due figure, quella magia che in barba ai tentativi prima greci e poi illuministici di ricondurre alla ragione ogni conoscenza, percorre come una saetta le ere, manifestandosi in tempo e luoghi lontanissimi. La lingua ne è la depositaria e nella lingua, oltre che nei gesti, si trovano le formule magiche che Ernesto De Martino in Sud e magia riscontra nelle relazioni spesso ambigue tra magia e cattolicesimo, a onta di quell’alternativa tra magia e razionalità che è uno dei grandi temi da cui è nata la civiltà moderna. Ma per Colusso la magia resta una risorsa, lì dove vengono meno i mezzi per ottemperare alle esigenze culturali in altro modo. L’autrice è, difatti, sempre attentissima a segnalare le iniquità sociali ed economiche all’attenzione del suo pubblico, poiché è da queste iniquità che nasce la tragedia. Un’ulteriore riscrittura del medesimo tema è Irina l’idiota, del 2022, messo in scena nel 2023 al Museo degli Strumenti musicali di Roma, nell’ambito del Festival Poesia, Lingua Viva. Questa volta la protagonista ha voce in capitolo, parla assieme ad altri testimoni: alla pastora, al coro dei paesani. È un tessuto di voci a costruire il testo  e, pur tuttavia, il linguaggio è monocorde, stilisticamente omogeneo. Alla crudeltà di ragazzini ignoranti che, per un deprecabile gioco, la legano alle rocce, risponde l’altissimo grido di Irina che riconosce nella disparità non solo delle forze, ma anche dell’intelligenza delle cose, l’abisso delle differenze fra individui.


Eppure tali voci differenti tessono un unicum che si dispiega sullo spazio scenico. La frammentarietà e l’eterogeneità svaniscono di colpo e tutto si dispone in un armonioso arazzo. La differenza tra voce interiore e voce reale dei personaggi in scena non solo non è rilevante, ma, a tratti, viene spodestata dal mondo dei sogni che diviene così più vero di quello reale: qui il ruolo dell’immaginazione ha un potere salvifico. Ciò accade sia per le voci di Sofia, della narratrice e della voce registrata che legge un testo poetico di Odisseas Elitis  che s’intersecano nella lettura scenica di Mida alla circonvallazione est, del 1995 (interpretate dall’attrice Daria De Florian) sia per le voci mentali, del tutto immaginarie, presenti in Sparizione di Giovanna, del 1991 (andato in scena al Teatro Furio Camillo di Roma nella stessa data). In quest’ultimo testo, le voci di Giovanna d’Arco si trasformano in personaggi che, a loro volta, sono sulle tracce di Giovanna. Ciò  sembrerebbe tracciare un anello di Möbius in cui il punto di scissione tra interiore ed esteriore è del tutto non individuabile e dunque starebbe a indicare, nella poetica visione di Tiziana Colusso, l’inestricabilità tra ciò che è individuale e ciò che è collettivo.



Rosa Pierno