lunedì 14 dicembre 2020

Marco Furia su “Un tuffo più grande” di David Hockney, 1967


 David Hockney, “Un tuffo più grande”, 1967, acrilico su tela, Collezione privata


Nel 1967, David Hockney dipinse “Un tuffo più grande”.

Ci troviamo al cospetto della statica rappresentazione di una villetta con piscina e di un tuffo in quest’ultima.

Nessuna figura umana è ritratta (sono visibili soltanto spruzzi).

L’evidente piattezza dell’immagine non è inespressiva.

Il trasversale trampolino giallo indica, quasi fosse una freccia, la moderna costruzione, bassa e rettangolare, sulle cui vetrate si riflettono scure sagome di altri fabbricati.

Davanti agli ampi vetri si trova, solitaria, una sedia pieghevole e, sulla destra, svettano due alte palme dai tronchi sottili.

Il cielo è di un azzurro simile a quello dell’acqua.

La palese propensione per la pop art assume qui aspetti metafisici: vi è ben poco di realistico in un quadro in cui abbondano campiture di colore uniforme.

Dove si trova quella villa? Chi si è tuffato?

Domande senza risposta.

I ciuffi delle palme di certo vedono e sanno, ma non parlano, mentre la sedia pieghevole, forse in attesa del tuffatore, custodisce in silenzio i suoi segreti.

Eppure l’espressività non manca.

Sceglie la via di una rarefatta eleganza e si modula secondo una sorta d’enigmatico pentagramma, costituito da linee orizzontali e verticali, la cui raffinata (muta) musica è interrotta dagli spruzzi sollevati dal tuffo. 

Senza quei fiotti, l’opera sarebbe in equilibrio e potrebbe intitolarsi, ad esempio, “Villa con piscina”.

Ma, non a caso, il suo titolo è “Un tuffo più grande”.

Più grande di cosa?

Più grande di quell’assetto lineare che, altrimenti, regnerebbe incontrastato con la sua monotona uniformità.

Siffatto assetto, nondimeno, mostra di reagire: l’immagine bloccata dello spruzzo è poco consona, ma non è in grado di opporsi più di tanto alla diffusa fissità che la circonda.

Rapido movimento e metafisico immobilismo si confrontano: nessuno dei due contendenti sconfigge l’altro, sicché non si giunge a una composizione, bensì, come dicevo, a una, forse ironica, mancanza di equilibrio.

Ho detto “forse ironica”, perché mi pare di avvertire la presenza di un giudizio non proprio del tutto benevolo nei riguardi della cosiddetta società del benessere che, durante gli anni sessanta del secolo scorso, in particolare negli Stati Uniti d’America, a tutti prometteva confortevole agiatezza.

Vengono alla mente certe sequenze di un celebre film di quell’epoca riguardanti le vicende di un giovane laureato, appartenente alla classe medio – alta, che entra in conflitto con modelli di comportamento sociale tutt’altro che privi di opprimente ipocrisia.

La felicità, insomma, non può consistere nel semplice possesso di una villetta con piscina: tuttavia loro, la villetta e la piscina, non lo sanno.

Il tutto secondo tocchi precisi, sobri e davvero eleganti.


                                                                                                 Marco Furia



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