lunedì 20 aprile 2020

Leonardo Sinisgalli e la scuola di incisione per bambini




Una piccola grande storia è narrata tramite una folta documentazione, nel volume, edito nel 2018 dalla Fondazione Leonardo Sinisgalli, curato dal direttore della Fondazione, Biagio Russo: “Leonardo Sinisgalli e i bambini incisori. Storia di un torchio, di un maestro (Gianni Faè), di una scuola (“Piccola Europa”) e di un borgo (S. Andrea) negli anni Cinquanta”.
Già nel ‘54, nelle Prealpi dell’Alto Veneto, il maestro Faè utilizzava il metodo didattico del giornalino di classe “Piccole Dolomiti”, avvicinando i ragazzi alla poesia ermetica di quegli anni. E alla scuola di S.Andrea, Sinisgalli regalò una piccola tipografia con la quale furono illustrate le poesie sue e di altri poeti ermetici. Dopo aver letto le poesie, i ragazzi scrivevano il commento, realizzavano le matrici dell’immagine con tavolette di linoleum e stampavano il giornalino. La notorietà della loro iniziativa fu tale che anche la RAI ne registrò l’attività e fu realizzata una mostra dei loro lavori a Roma. La scuola attiva voluta dal maestro Faé valorizzava un’arte tra le più antiche, quella della silografia, attraverso la sua evoluzione moderna, la lineografia, la quale si accordava  “perfettamente con le moderne concezioni psicologiche della cartellonistica e della pubblicità”, oltre ad avvicinare gli alunni alla letteratura tutta, compresa quella contemporanea.
La partenza con mezzi di fortuna fu presto dimenticata con l’arrivo di una ministamperia, che consentì loro di lavorare su grande formato, con 12 pagine, brossura spillata e sei uscite annuali. I bambini furono i protagonisti nel libro “I bambini e le macchine” curato da Leonardo Sinisgalli e stampato per le Edizioni del Gatto da Franco Riva, della collezione delle cinque cartelle dedicate ai poeti Montale, Quasimodo, Saba, Ungaretti, Sinisgalli, torchiate da La Stella Alpina di Novara (1955) e de “I bambini e i poeti” curato da Gianni Faé, edizioni Scheiwiller, 1957.
Dalle dirette parole di Sinisgalli comprendiamo l’entusiasmo e l’ammirazione del poeta, quando ricevette le immagini: “Chiamai Gentilini, Mafai, Scordia: i pittori amici furono tutti ammirati per la sapienza, l’eleganza di quelle silhouettes. Pareva un regalo venuto dalla Cina. Sembrava l’opera di un calligrafo cinese, di un poeta, di un filosofo che preferiva le macchinette dell’arrotino, del falegname, del contadino, del barbiere alle rose e agli uccelli. Il gran dono arrivava da un paesino delle piccole Dolomiti”.
D’altra parte, nella rivista “Civiltà delle macchine”, fondata da Sinisgalli all’inizio del 1953, si trattavano i temi relativi a “un’idea di scuola più attenta alla creatività dello studente”. Erano quelli gli anni della ricostruzione post bellica. Da sempre studioso e fautore delle due culture, l’ingegnere e poeta Sinisgalli, crea un luogo di carta in cui far dialogare i massimi esperti delle diverse discipline, “senza preclusione alcuna (Argan, Paci, Ungaretti, Fortini, Ceccato, Mimford, Burri, ecc.)” avendo come obiettivo “l’armonia del sapere e l’attenzione alla ricerca più avanzata”. E proprio a lui, Faè invia i primi due numeri del giornalino con gli articoli e le incisioni sulle macchine elaborati dagli scolari. Sinisgalli, da grande intellettuale che ha ben chiaro il suo ruolo e il suo compito, s’interessa subito dell’iniziativa e dedica, nel numero di luglio del 1954, un lungo articolo alla scuola, corredato dalle immagini sulle macchine realizzate dagli alunni. Per Sinisgalli è questo il modo di costruire un rinnovato mondo. Egli “sente l’ansia di rinnovamento, la fiducia in un mondo nuovo fatto anche di macchine e di progresso tecnologico; sente un’adesione insospettata per l’avvento di una nuova civiltà giungere persino da uno degli angoli più poveri d’Italia, o forse proprio perché proviene da chi fatica per vivere. Ha la dimostrazione di quanto sia “necessaria” una civiltà delle macchine”. L’esperienza prosegue e si estende ad altre scuole con la visita diretta dei bambini nelle fabbriche, con la pubblicità che si appropria del linguaggio diretto e immediato dei bambini, con l’estensione dei temi e con la partecipazione scolastica ai problemi culturali del paese, che il volume della Fondazione Leonardo Sinisgalli mostra in maniera particolareggiata grazie a una documentazione esauriente, che da sola è in grado di mostrare la passione con la quale l’importanza del valore educativo viene sostenuto dalla Fondazione.
Ponendo all’attenzione un esempio ammirevole di promozione culturale che abbatte le barriere tra cultura e produzione, tra scolari e intellettuali, tra impegno e spontaneità,  e grazie agli instancabili promotori della Fondazione Leonardo Sinisgalli, si porge di seguito una delle cinque poesie che compaiono nella cartella di Sinisgalli (La stella alpina, 1955) con la relativa illustrazione, elegantissima:


Poesia per una mosca 

Della tua ala laboriosa
Si consolano i vespri delusi
Se pure senza pudore tu abusi
Dell’innocenza di una rosa.
Nel tuo tremore si riposa
La mia noia; fiduciosa
Ronza attorno a un’immagine chiusa.
La pazienza è forse rischiosa
Ché talvolta si spegne un fiore
Nella notte e il fradicio odore
Ti eccita curiosa.
Ma susciti dentro la stanza
L’aria di tanta vacanza
Amica pungente e pia.
Così cara è la tua molestia
Che stasera con me ti fa festa

La mia efimera poesia.



mercoledì 8 aprile 2020

Marica Larocchi “Polveri Squame Piume. Prose e poesie” puntoacapo, 2020




Il nuovo libro di prose e poesie Polveri Squame Piume, puntoacapo, 2020, di Marica Larocchi, è un nastro che si svolge tra i mondi preferiti da Rimbaud – autore particolarmente caro alla poetessa, in quanto da sempre attenta alle qualità estetiche e sonore della poesia – ma anche tra universi favolistici ed enigmatici. Larocchi mai depone l’irrealtà e il mistero, in quanto se sono componenti intrinseche della poesia, si pensi all’aureola del senso indefinito che circonda ogni parola immessa nel testo poetico, sono anche gli eventi principe, il soggetto di ogni poesia. 
L’attenzione estetica, sempre presente nei suoi lavori, si concretizza, in particolare, nella sezione relativa al duomo di Monza, città nella quale, Larocchi vive. I ricordi, quando srotolati sulla pagina da un poeta, assumono una profondità immaginifica, storica, ma anche atemporale, scientifica e fin anche alchemica, a significare che non c’è cesura nei significati che ogni parola offre.   

Le stratificazioni semantiche deposte sulla pagina dalla poetessa non vengono ritagliate e ridimensionate dal contesto, bensì appaiono come riverberate in ogni dove, assumendo una tridimensionalità ologrammatica. Nulla è più relato al contingente, ma diviene diffrazione, senso avvolgente, pur precisissimo. Non solo gli innumerevoli significati, ma anche i domini culturali si squadernano dinanzi agli occhi e nelle orecchie del lettore. Parole preziose e risplendenti,  materiali rari innestati in una tela a trama larga, strutture multipiani che divengono strade e terrazze. Le disgressioni fanno cadere da una dimensione spazio-temporale a un’altra; leggendo si attraversano memorie e libri d’avventura, ma il movimento non è soltanto centrifugo, relativo a una dislocazione che si allontana fino a scomparire dalla vista, poiché è anche centripeto, come in un imbuto che faccia scivolare tutti i materiali lessicali verso qualcosa che si può definire ‘io’, ultimo avamposto che tutto tiene insieme. Quell’io che si vede citato specialmente nella sezione Autobiografia, dove il soggetto non è rifratto: Vi ascolto, Li ho sorseggiati; laddove è, cioè, sempre esplicitato, ma è ancora e solo il testo nella sua totalità a farsi carico della dispersione e della centralità dei significati. Tale movimento, privo di soluzione di continuità, può essere metaforicamente espresso dalla metamorfosi che la stessa autrice indica come chiave di lettura del mondo.

Dalla sezione Nel paese dei totem:

Che bella foto! La smania di crociere ci fa trine e troneggianti – nonna, nipote e figlia – anche se un po’ di sbieco, sulla tolda di panoplie stinte tra l’acqua e le fronde. Ma il calibro è proprio d’istantanea matrilineare, anche se sfumano i profili di menadi e balene; senza occhiali, se ne leggono ancora gli sfiati intermittenti sul foglio quadrettato di un’infanzia prodiga d’ami orbicolari.
In primo piano, nessuna crudeltà; ammutolito anche il fragore degli obici appena abbozzati in calce dopo il tremulo Semper cogita et vale.

Dalla sezione Mosè Bianchi al lavoro nel Duomo di Milano:

Forse non è neppure un motto
d’arguzia a sorprendere quel ricciolo
di mota sopra cui soffiano ancora 
alisei graziosi. Se levo il braccio,
la fila di fiammelle piega a destra,
mallevadore il gesto che a fatica
dota di luce – rosa arancio – una gota,
incompiuta sulla tela, quasi
d’embrione. Oltre i graffi
dei rami e bieche grate
ecco esalare confessioni
sommesse: a picco le vetrate.
E dal fronte della grazia 
la manciata di voti si smarrisce
sul copale d’inginocchiatoio
per saldarsi tra i riverberi
opachi al disegno infiammato
del rosone. No. Non può 
la mia spatola inseguire
l’iridiscente impronta
di una carne così segreta;
né l’occhio, appannato 
dai vapori del tempo,
riesce a scandagliare nel nodo
di tante cicatrici le velature 
più fresche del pennello
che vaga adesso dalla
tavolozza dei sogni
alla navata più cupa
del tempio, ai capitelli
mostruosi dove 
s’attorciglia e scroscia 

inatteso il temporale.