martedì 27 dicembre 2016

Tre poesie inedite da "Crete" di Laura Caccia,1991




Modellare, dare forma, sono azioni, ma l'oggetto che le subisce è l'io. È un io che però resiste, ostacola la neo-formazione del sé: "non sa farsi materia", non è duttile, si crepa, fino a frangersi, tale urto conservandolo nella viva carne. Ogni respingimento è un'impronta che lo mette a nudo, svelandone la fragilità, tuttavia non fuoriesce sangue. Eppure, come non vedere che la forma crepata, fessurata è quasi assimilata a un oggetto artistico, e che se non equivale a una mera estetizzazione del soggetto, si pone, rispetto alla realtà, in ogni caso come un oggetto prodotto. Che non vi sia estetizzazione del soggetto è dato dal fatto che egli è assente e che, frattanto, tutta l'operazione è avvenuta tramite linguaggio e solo nel linguaggio. Lungi, quindi, da quella corrente che vede nel linguaggio l'unica realtà, Laura Caccia disegna un essere che è imprendibile sia con i lacciuoli linguistici sia con quelli artistici. Con l'addentrarci nella lettura delle tre poesie inedite, tratte da " Crepe", vediamo che assedi e agguati, stermini e presagi di lutto si verificano tra forme inservibili e scorie: siamo nel regno dell'inanimato e non vi è "neppure nell'aria / un consenso tra cose complici" a negare, appunto, la possibilità di convocare effettivamente sulla pagina ciò che è umano. I calchi, manichini di calce viva - unica possibilità di rinvenire ciò che ricorda il vivente - sono sparsi in un paesaggio a sua volta formato da materie frante. Tutto ciò che appartiene all'esistere si è tramutato in cocci. Il luogo d'esercizio del soggetto - la sua coscienza - è una sorta di laboratorio disatteso ove la pelle è diventata greto, la materia maceria, mentre i guadi sono ostruiti e la luce concorre a disseccare ancor di più il prosciugato paesaggio. L'essere resta totalmente fuori dal linguaggio, quest'ultimo non è in grado che di afferrarne un franto calco.



(sedimenti)

                                          non sa farsi materia 
nei crateri dell’aria tra i detriti
rimasti sulla soglia

l’impasto che accoglie tra le mani
cumuli di spartiti

                                        nel rovescio delle cose
sedimenti ogni impronta a nudo


                                       dentro il suo calco inaspettato 
il rimosso di crepe un crepitare
muto di ombre

                                     dove si accalca 
la realtà affonda i suoi copioni
nel magma informe

                                   da cui straripa assente da sé    
riversata nei nomi          






(crete crepe)


                                come se tutto 
si facesse anonimo le piazze gli episodi

in odore di crete crepe d’ombre 

al suo esordio il finito
                                a fuoco di stragi al rallentatore

tra stermini presagi lutti a nidiate
la nostra parte 

            di folla in agguato tra gli assedi 
                               e quel che affiora

in questo scavo profano
                              in scorie d’anime così da rendere 

grumi di scena a ritroso                                                         
                              neppure nell’aria                            
                un consenso tra le cose complici    
                                      
al minimo indizio prezioso 
                                                            





 (la tela mancina)


in cerca di inizi nel vacillare 

            reciproco non la pietà convinta 
                                d’oscuro al guado 
delle sue controfigure
tra le promesse che rivolge muta

a ogni senso la tela 
                             mancina 
           il movimento in prima battuta

è maceria materia
di fragilità su cui si appanna il respiro 

                            rientrando 
           dalle impronte al greto della pelle 

a calce viva in ogni sbavatura

                          di buio tra le screpolature 
del colore
prima che la luce asciughi



mercoledì 21 dicembre 2016

Alechinsky





Invocare la spontaneità, la libertà sembra una cosa fuori luogo. I mostri che prendono corpo sulle pagine, col relativo corredo di trattini ripetuti al fine di donare loro un fondale di esotico stile, certe volute che si aprono in orifizi senza fondo o certi grovigli vegetali indistricabili menano innanzi una pudica verità: il disegno non si può scindere dalla narrazione.

A riprova, quella necessità costante d'introdurre la scrittura, di disegnare su fogli già stampati o di inserire disegni consequenziali in bande che contornano l'immagine centrale, e che valgono come  il viatico per un racconto che non può svilupparsi oltre.

Teatrini e serpenti piumati sono più un simbolo che un narrato testo e reclamano l'urgenza di legarsi a uno svolgimento seriale.

Le silografie dei libri più belli del mondo sono dietro l'angolo, risiedono perennemente sulla coda dell'occhio, sono incise sul palmo della mano.

Le figure occasionate dal testo già stampato, come la donna nata dalla presenza di parentesi graffe o la scimmia che serve frutta e conto assieme, si radicano in un mondo dove le storie sono create dalla contiguità tra testo e immagine. Storie che appaiono congruenti solo attraverso la loro prossimità.

"Sono tutti là" sulle due pagine aperte del taccuino: squadernati a bella posta, attori convocati per tutte le possibili storie del mondo.

Il tratto fumettistico non induca in inganno sulla possibilità reale che una tale assemblea si coaguli, si muova seguendo un ordine. Le tacche, inoltre,  riempiono gli spazi bianchi ancora agibili, rarefacendo lo spazio a disposizione. Fa caldo nella sala, le voci si accavallano.

Ogni immagine, figura, tratto è legata visceralmente a una parola, a una frase. L'artista insegue il lestofante fin nell'angolo estremo  del foglio.

Il paesaggio, incantevole, luna alta sulla falesia, che discende, precipitando, dalle xilografie giapponesi, ci mostra un artista consumato, strenue negatore dell'improvvisazione.

Il gattino stampigliato sul foglio pretende un cane-drago che lo minacci e che non s'accorga che il piccolo felino non fa una grinza, né arretra.

Una storia per immagini non ha capo né coda. Non si snoda, si assembla, si accosta e si allontana. È fatta di inserti che non hanno attinenza, di disgressioni astruse e cambi di scala, di alterazioni spaziali e temporali: non è certo una storia quella che il pennello infilza sulla punta!

Le trame dell'inchiostro, il tratteggio che diviene curvilineo e si aggroviglia, si assembra in membra, si discioglie sui pendii in neri rivoli, racconta uno stato vorticante della mente.

Un disegno ha spesso una cornice, ma non sempre ha il soggetto al centro. A volte, c'è un paesaggio e nei riquadri laterali qualcosa viene registrato nei suoi moti tellurici. Il personaggio principale resta aggrappato sui bordi esterni.

Si vede la nave sulla linea dell'orizzonte, poi nell'occhio della tempesta e ancora un particolare ingrandito dell'ondoso mare. Tuttavia l'immagine è una sola.

Nei riquadri che circondano la figura centrale, e che fungono da cornice, è replicato il medesimo oggetto visto da altri punti di vista, ma ora dislocati in un continuum temporale. È la moltiplicazione dell'immagine. È l'immagine che non ha più centro.

                                                                                     Rosa Pierno

martedì 13 dicembre 2016

Gilberto Isella "Acque aperte acque chiuse", Il robot adorabile, 2016 con un'incisione di Adalberto Borioli




Come cogliere meglio l'essenza dell'acqua se non quando se ne avverta la mancanza, nel deserto, nel miraggio che da esso fluisce, denso quasi come mercurio? In questo modo sgorgano le undici poesie del pregevole libretto di Gilberto Isella "Acque aperte acque chiuse", Il robot adorabile, 2016, contenente un'incisione  di Adalberto Borioli, il quale sembra, a sua volta, replicare il tema del rispecchiamento, dell'inversione di un'identità non afferrabile nemmeno nell'originale.
Non si può, per Isella, dire acqua senza dire resto del mondo, le sue mille sembianze, la sua diramata presenza. Ma assenza d'acqua vuol dire anche invisibilità, delirio, regressione a uno stadio prossimo alla sparizione di ogni cosa. Da quella conca accecata che è il deserto - occhio del mondo senza pupille - si diparte la visione mentale, la vena immaginifica assumente il miraggio non come mancanza di realtà, di verità, ma come se esso fosse cosa fra le cose. Dinanzi agli occhi sfilano le subitanee involuzioni dell'acqua metamorfizzata negli esseri che la abitano e se ne nutrono. Sulla carcassa del cammello, nello sciame di mosche, già si cela, però, la scatenata esplosione delle forme scritturali, le quali pedinano tali visioni come un alter ego. Che sia pozzo o lacustre specchio, acqua è ancora sabbia, la sabbia si muove come acqua e delfini vi guizzano e ibis vi infilzano il becco. Arsura genera visioni e  acqua stessa è visione, elemento fascinoso come nessun altro al mondo, capace di trascinare giù persino gli dei tirandoli via dalla loro tavola imbandita.  Siamo all'interno di una cornice barocca che fa sentire il suo gioco di specchi e di rimandi, di replicate essenze e differite.  Non solo perché è uno dei costanti interessi di Isella, ma perché il barocco ama i paradossi, è mutevole e incessante, si trasforma, e poi bara per stupire. Barocca è sempre la parola poetica quando vuole trasformarsi sotto gli occhi ammirati del lettore e generare spostamenti di senso al limite del veritiero. Spinge all'estremo limite le apparenze per poi costringerle nel flusso di un unico fiume. Acqua che, non certo ultima cosa, ospita umano embrione. Ma anche scrittura, la quale segue l'acqua dappresso, ne registra le forme, a sua volta rinsecchita, arsa linea nera.  Ancora acqua, è certo, ma di diversa consistenza, onirica e specularmente inversa.




Sul velo incrinato nel miraggio
s'innesta improvviso
Il tragico giallo di una ginestra

Occhio del transito, nodo espanso
In arido panno mormoratore

Dove zoppica
quel piede d'acqua diafano
con tendini di luce
aggrappati a una stella





Sola rovina materna il pozzo,
come una pala la sete
vi rimesta bocche sostitutive

Schiena contro schiena
confabulanti, le comari cause:
"L'acqua ha preferito lasciarci"

Con catinelle legate ad aquilone
due cerbiatte osano, lì
dove l'intercapedine
dell'ora
           manca




Pleura d'acque,
quadrante per ore rapprese
inscindibili

La barca e il peso
delle alghe che fremono,
i tramagli manomessi
nel sottotraccia

E vedi il pesce
imbottito di nebbia
mutarsi in cefalo immenso
che s'impenna
umido ancora d'avorio marino

Nel gorgo delle pinne
a momenti
scorgi tavole imbandite

mercoledì 7 dicembre 2016

Maria Grazia Insinga "OPHRYS", raccolta di poesie inedita, finalista al Premio Montano, 2016





Traiamo disordinatamente dalle tre sezioni della raccolta inedita OPHRYS di Maria Grazia Insinga, tre poesie Apnea, Specchio, Liste. Le poesie hanno uno svolgimento doppio (prima e seconda parte), non propriamente un dialogo, ma una stessa scena vista da due diversi punti di vista o tempi, i quali comportano una collazione di diversi sensi che vanno ad ampliare un medesimo lemma, il titolo, a sua volta associato a un sottotitolo, generando, appunto, una serie di significati che si uniscono a grappolo, per cui è subito evidente che per la poetessa è fondamentale che il senso sia quanto più inclusivo per poter esprimere ciò che accade nella realtà. Ancor più che creare nuove parole, sembra dunque necessario allargare l'uso degli striminziti concetti, abitudinari, che abbiamo stipato, spesso in maniera acritica, nella nostra testa, di fronte ai nuovi scenari che la contemporaneità ci obbliga ad affrontare.

Questa azione la si recepisce nella costruzione delle poesie della Insinga soprattutto per il loro essere fortemente ritmate: esse s'incrostano di senso nelle ripetizioni, aumentando la capacità di restituire un significato più articolato, spesso contraddittorio. Dinanzi agli accadimenti traumatici, dolorosi, di cui siamo testimoni, comprendere deve voler dire assumere su di sé, guardare e replicare nella propria interiorità, tentare di sentire nelle ossa, sui denti e sulla pelle, la fame, il freddo, la guerra, la morte. Altrimenti, il rischio è di restare spettatori inerti, di abitare un mondo in cui non siamo presenti.

Le ripetizioni, basate anche sulla sola assonanza, istituiscono un martellante incedere, quasi corrono verso un acme, che, però, più che essere emotivo, drammatico si profila come conseguenza logica. Anche l'acme si raggiunge in due tempi: incentrato dapprima sull'uso di oggetti, di sensazioni fisiche, di descrizioni spaziali e sonore, nel secondo movimento presenta una chiusa che cala come una ferrea constatazione, una conseguenza agghiacciante nella sua inevitabilità. Che sia una posizione morale che si associa all'amore, come se fosse possibile assegnargli solo una funzione positiva, di bene e non anche quella del male, che invece lo attraversa "da parte a parte", oppure l'orribile condizione dei naufraghi, dove il titolo Liste è associato al sottotitolo "fame"  e dove  quest'ultima non è soltanto fisica, ma è la fame che si ha dell'intero, di quando si era comunità,  o ancora, in riferimento al titolo Apnea, in cui, anziché "il fiato" (sottotitolo), è la sete che denuncia l'orrore, la sete che si prova, mentre si affoga, tutto ciò determina un ribattere che scava la realtà fino al suo nervo dolente.
Questa continua spola del senso, che costringe il significato a muoversi, a non arrestarsi mai come non deve arrestarsi la coscienza, è una forza che attraversa tutta la raccolta, costringendo il lettore a una lettura fisica, esperenziale, non certo rassicurante o pacificante. Una scossa.

APNEA


I fiato

Non ci collocavi nell’età giusta
se ne accorsero a Ferdinandea
troppo lunghe le arcate e ingovernabile
la gestione dei fiati e lei
era sempre stata lì era sempre stata
aliena ai morti tra i morti seduta
come si sta sedute da tutt’altra parte.

II fiato

A Finisterrae non si volava per andare su
ma per andare giù al centro della terra
dilazionati dove c’era la madre l’uroboro
a mangiarci la coda e non finire non sentire 
il mondo che finisce trovare l’acqua nell’acqua 
respirare con le branchie non respirare 
differire l’apnea unica voce al centro 
e l’unica voce in quel deserto era la sete.


SPECCHIO

                                                            se aggiunge male al male
                                                            non starà poi così male


I guado
ora accade l’ordine
ora cada
defalchi l’errore la parola
data, d’amore
ora si taccia


II guado

dovresti procurarti il male
procurarle un filo di lame 
obliquo rispetto all’asse
per obliare i dubbi 
accelerare la corsa della lama
dovreste guadare lo specchio 
nel catino di zinco

una vocazione a parte
spacca al centro
e a parte mette il male
e da parte il bene
da parte a parte



LISTE

I fame

eravamo più della somma
ora sottrarsi aggiunge 
al digiuno una fame insaziabile

II fame

la lista lunga come la fame
allunga il passo e qui si frenetica
ciò che manca qui si frena e lei
arriva e arriva mille volte
reitera il sonno nel giardino dove
d’un tratto non poggi i piedi 
sulle onde e brevi e lunghe forzata

a nuotare l’aria a non arrivare