mercoledì 27 giugno 2012

Immanuel Kant “Che cosa significa orientarsi nel pensiero” Adelphi


Nella querelle sorta tra F. H. Jacobi e M. Mendelssohn sulla concezione razionale del divino, raccontata nella ricca presentazione da Franco Volpi nel volume Che cosa significa orientarsi nel pensiero, Kant viene chiamato in causa per dare il suo parere, sia perché egli si era già espresso sui rapporti tra ragione e fede sia perché l’accento inevitabilmente cadeva sui limiti del conoscere razionale e  Kant si era già espresso anche su “la possibilità o l’impossibilità della metafisica, il problema dell’inconoscibilità dell’Assoluto, la razionalità o naturalità della religione.”

Kant non si schiera né con l’una né con l’altra parte, nel testo che pubblica sulla rivista “Berlinesche Monatsschrift”, l’organo dell’illuminismo berlinese, nel 1786. Non con Jacobi, “pur condividendo con lui l’idea che la conoscenza razionale non è in grado di oltrepassare i limiti dell’esperienza”, perché Kant non vuole rinunciare alla ragione, e cadere così nell’arbitrio e nell’esaltazione dell’intuizione, né con Mendelssohn, poiché Kant è scettico circa la possibilità di approdare con essa al porto dell’Inconoscibile.

Più volte Kant ha mostrato che “la ragione che si spinge ad argomentare in merito alle idee metafisiche di Dio, dell’anima immortale e della libertà finisce per impigliarsi in una serie di antinomie, senza poter dimostrare né concludere nulla”. Non gli non resta che indagare sul significato del pensiero e sul modo in cui ci si può orientare rispetto al tema dell’Incondizionato verso cui il pensiero ci spinge, ma di cui non possediamo punti di riferimento.  È per lui perciò necessario verificare se il concetto con cui osiamo spingerci al di là di ogni esperienza possibile” sia libero da contraddizioni e anche ricondurre “il rapporto dell’oggetto  agli oggetti dell’esperienza  a concetti puri del’intelletto”.

Kant intende stabilire dei punti di ancoraggio utilizzando l’analogia con l’orientamento geografico matematico. E vuole ancorare questa capacità orientativa nel soggetto, ma restando pervicacemente attaccato a un riferimento oggettivo, tant’è che Heidegger rilevando quest’aporia kantiana la rovescerà nell’appartenenza del soggetto al mondo:  l’essere è già da sempre in un mondo per potervisi orientare.

Ma nella stesura del testo, Kant s’imbatte anche in un’altra difficoltà: “il nostro conoscere, per esser tale, deve riempire le forme vuote prodotte dal pensiero, cioè i concetti dell’intelletto o categorie, con i contenuti forniti dall’intuizione cioè dalla sensibilità”. Ora, seguendo Volpi, nell’ambito metafisico noi non disponiamo di un’intuizione intellettuale che ci esibisca i contenuti degli oggetti soprasensibili, la qual cosa ci rende incapaci di produrre conoscenza in senso vero  e proprio. Kant risolverà la questione  dicendo che non rimane che attenersi a un principio soggettivo e cioè al sentimento del bisogno proprio della ragione. E, guarda caso, questo bisogno della ragione è l’”esigenza di andare oltre la serie del condizionato spingendosi fino all’Incondizionato”. Infatti,  per Kant la nostra ragione sente già un bisogno di porre il concetto dell’illimitato a fondamento di tutto ciò che è limitato, giungendo a presupporre l’esistenza stessa dell’illimitato, della finalità e dell’ordine. Ciò naturalmente non produce niente di dimostrabile ed essere consapevole di questo è già un bel traguardo per Kant, il quale mette sull’avviso coloro che vogliano “spacciare per libera cognizione ciò che è soltanto presupposto inevitabile, in modo da non offrire senza bisogno all’avversario con cui ci siamo messi a dogmatizzare punti deboli di cui si possa servire a nostro svantaggio”. 

La ragione pratica sceglierà allora le idee che soddisfano il suo bisogno: la libertà, Dio, l’immortalità. Dove ciò che si ottiene è che l’uomo sceglie, liberandosi dalla causalità. E dunque l’orientamento del pensiero non è riducibile alla dimensione logica, ma  tuttavia il bisogno della ragione, poiché trova origine da un motivo obiettivo della realtà, ossia dalla legge morale, la quale “obbliga necessariamente ogni ente razionale, dunque lo autorizza a presupporre a priori, nella natura, le condizioni ad essa conformi” rende queste ultime inseparabili dall’uso pratico della ragione.

Resta comunque aperto il divario tra ciò che è ogni fede ritiene vero e sufficiente  in termini soggettivi e ciò che  in termini oggettivi è cosciente della propria insufficienza. “La fede non potrà mai trasformarsi in sapere nemmeno con l’uso della ragione”. E viceversa, nessun dato naturale della ragione e dell’esperienza potrà mai trasformare in sapere la pura fede. Ma tale divario è esattamente ciò che salva la capacità dimostrativa della ragione  dagli attacchi portati all’indagine autonoma da chi vuol prevalere su di essa: “La ragione si sottomette esclusivamente alla legge che essa stessa si dà”.  La ragione è il “bene sommo in terra, cioè il privilegio di fungere da pietra ultima di paragone della verità”.


                                                                                      Rosa Pierno

domenica 24 giugno 2012

Due poesie e due opere visive inedite di Marco Furia

Non si pensi  che sia fulminea illazione accostare i testi di un poeta alle immagini visive a cui si dedica in via alternativa. Inevitabilmente, più che crearsi nella fruizione, si rintracciano nelle diverse forme espressive, come concrete tracce, le persistenze della medesima personalità all’opera.
In anteprima presentiamo due poesie inedite e due fotografie di Marco Furia in una sorta di patto stretto che esse formano ai nostri occhi di cui vi indichiamo parentele, rintracciamo corrispondenze, seguiamo scarti e deroghe, in ogni caso tutte in sonora relazione. Poiché i rapporti visivi e non, quando così astratti e rarefatti di particolari, risuonano più limpidamente come fossero, appunto, rapporti sonori.
Naturalmente i trapassi tra testo e immagine  sono flebili, indicativi, aprono brecce più che determinare corrispondenze. Ad esempio, come nella poesia “Immobili zampilli”, in cui l’inaspettata sorprendente agave ingloba gli “immobili zampillii” tramite l’aggettivo verdi, e il fruitore può utilizzarla come modalità di lettura dell’immagine “Formiche”, in cui il contorno di un oggetto qualsiasi è reso, tramite elaborazione, frastagliato ed eroso a tal punto che consente all’immagine di essere veicolo per una metafora visiva: manciata di formiche che si muovano frenetiche.
Nella poesia “Vivida, aerea scaglia”, in quel sulfureo “limite vivo / espressa” non si prefigura forse quel che crediamo visualizzabile nell’immagine “Bianca frontiera”  in quanto il limite non è detto che sia un concetto monosemico,  matematico, ma che si ammanti invece delle ambiguità e delle indecisioni della lingua?
Vi invitiamo dunque a questa molteplice immersione….

Immobili zampilli

Immobili zampilli
verdi, vive
di agave fattezze
acuminate
lunghe, robuste foglie
su scogliera
integri, curvi nastri
alti, sospeso
caparbio, aereo intreccio
pur nutrito
da secche zolle misere
d’esiguo
pugno di terra, minimo
balcone
tra rocce aguzze, ultimi
confini
opposti ad acqua (forse
nulla frase
vegetale silenzio?
Giammai eco
tacito segno?), incolume
carnoso
di linfa ricco, rigido
ricamo
pennacchio, saldo ciuffo
zitto assolo
vivido, indenni fogge
tratti radi
d’infiorescenze (stile
in tutto muto?)



Vivida, aerea scaglia

Vivida, aerea scaglia
attimo, breve
riverbero, barlume
(forse gioia
d’esserci? Desiderio
d’ogni andare
dove? Quando? Perché?)
limite vivo
espressa, non ambigua
repentina
ritmica brillantezza
di colori
riflessi, lemmi, lingua
già canzone
aromatico soffio
corsa d’eco
itinerario, musica
profumo
esatto verbo (forse
incerto, vago
preciso tocco?), nitide
vivaci
armoniche cadenze
tersi stili
arpeggi subitanei
non ignava
sì fulgida grammatica
poi bui
taciti lineamenti
(melodiosi?)


                                                                                 Marco Furia

giovedì 21 giugno 2012

“Nei giardini della letteratura” di Fiorangela Oneroso



Il giardino contemporaneo

Si giunge così, ai giorni nostri, alla perdita di rilevanza della funzione stessa del giardino nell’area metropolitana, perdita che segnala anche la nascita di un fenomeno dal volto bifronte. Da un lato il declino  e la svalutazione della natura, dall’altro le aspirazioni, non si sa quanto sostenute da reali forze psicologiche individuali, collettive e sociali verso l’assun-zione in cura, non del solo giardino, ma addirittura di tutta la natura. Cosicché si va ancora oltre i parchi pubblici baudelaireani, i luoghi dello sconforto, i luoghi negativi, infelici. Les temps modernes non vogliono più  illudere gli spiriti incantandoli, non vogliono più “enchanter l’esprit” con la presentazione di quadri di beatitudine e con l’esibizione della bellezza, ma vogliono rappresentare la condizione umana senza edulcora menti, vogliono esporne le contraddizioni, così che il soggetto incrinato della filosofia possa trovare nei giardini cittadini la propria perfetta metaforizzazione. Il mondo contemporaneo invece sembra o ricusare del tutto il giardino o ritenere il mondo tutto, un giardino.
Con la rinuncia al paradiso anche il mandato edenico si annulla. Con  Der Untergang des Abendlandes, Spengler visualizza nel 1918 l’esaurimento del plurimillenario slancio vitale della storia del progresso della civiltà occidentale che ha avuto nella Kultur l’anima della sua crescita e che ora si è cristallizzata – con le concentrazioni metropolitane e il consequenziale abbandono delle periferie, e con la volgarizzazione della tecnica – in una Zivilisation indicativa di un inarrestabile declino e di un’irreversibile decadenza che, dice uno Spengler storico e profeta, lascia l’uomo in balia del suo inevitabile destino che la “necessità storica”, incurante della volontà del singolo, decide per lui. Ma per chi ingenuamente resta a coltivare l’illusione, l’Eden si espande e il mandato edenico  si amplia a cura universale, ed è rivolto a tutti coloro che, con innocente speranza, aspirano ad impegnarsi in questa direzione.
Se si amplia, il proposito dichiarato è quello di prendersi cura non più,egocentricamente, soltanto del giardino, ma in un’apertura ecumenica di impostazione globale, di farsi carico di tutta la natura, di tutto l’ambiente terrestre. Farsi carico del mondo per salvarlo, rispetto a chi vuole distruggerlo e lasciarlo perire. Non essendo una promessa facile da mantenere, né un impegno leggero da assumere, e neppure compito agevole da eseguire, ciò che l’uomo ha enunciato in questa istanza costruttiva rischia di rivelarsi illusorio e velleitario. Non viene curato né il giardino, né il mondo. Giacché l’intento non risulta poi radicato quanto necessario alla sua attuazione nel profondo della coscienza identitaria, e neppure di quella comunitaria politico-sociale, e invece, al contrario, si rivela da più parti attaccabile, e per di più attaccato  da istanze tra di loro opposte e contraddittorie – di un carattere definibile, in termini generali, o idealistico o nichilistico – che di fatto lo ostacolano, lo paralizzano, se non lo vanificano.
Cosicché una aspirazione totalizzante di questo genere, rivelandosi puntellata da appoggi rivelandosi puntellata da appoggi dimostratisi ben presto fallaci o inconsistenti, lascia che si verifichi proprio ciò che intendeva combattere, ossia che si affermi e si consolidi sempre di più, e con sempre maggiore forza – in quanto conseguenza dell’annullamento del mandato edenico – la disattenzione ormai palese che l’attualità contemporanea ha maturato nei confronti dei giardini, o nei confronti di quelle che oggi si definiscono “aree verdi”, “polmoni di verde”. Aree che in realtà, benché nelle metropoli ad alta concentrazione, sul piano della progettazione urbanistica, fin dal loro sorgere fossero state ampiamente previste, hanno finito con l’essere ridotte se non cancellate, in funzione del sempre maggiore prevalere di interessi speculativi sul territorio. Tali aree sono andate via via riducendosi, soprattutto in ragione della scarsa considerazione – se non di una vera e propria svalutazione – dello spazio dei giardini, in quanto spazi non produttivi, da cui è scaturita una conseguente riduzione o soppressione di cura, da parte della società attuale, anche nei confronti di parchi e “aree verdi” già esistenti. Le segnalazioni accorate, nostalgiche, sconfortate e disincantate di Rosario Assunto che denuncia il carattere di estensione incontrollata delle attuali metropoli prive di “centro”, e quindi prive di giardino, suonano insieme da monito e da estrema speranza per l’incerto futuro.

                                                                          Fiorangela Oneroso

Pagine estratte dal volume “Nei giardini della letteratura” Editrice Clinamen, 2009

lunedì 18 giugno 2012

Ezio Raimondi “Un’etica del lettore” Il Mulino, 2007


Un breve densissimo saggio, è “Un’etica del lettore”, Il Mulino, 2007, in cui Ezio Raimondi insieme alla definizione  dell’atto della lettura, poiché la convoglia verso una connotazione etica, necessariamente definisce anche l’atteggiamento etico correlato.   La relazione fra lettura e etica va a suffragio di una definizione etica non assolutistica, che anzi vive e si sviluppa nella ricchezza delle forme, nella variegata polimorficità del’io che accoglie l’altro e che senza abbandonare la propria visione particolare, si arricchisce anche di visioni diverse.  Il che è esattamente ciò che accade nella letteratura. Si può anzi ben dire che la lettura sia testimone privilegiato di questo incontro.

Risuona sullo sfondo la critica benjaminiana a  un società di massa in cui tutto sembra mercificato. Ma per Raimondi è proprio la capacità della letteratura, la quale sempre sorge da un impeto morale, a comunicare una nuova possibilità di interpretazione e costruzione del reale, contro quella codificata e conforme che il potere ci inocula. La letteratura nasce dall’esigenza di interpretare la realtà, la quale è complessa e non definibile in maniera univoca e definitiva, essendo potenzialmente infinita (Raimondi rimanda al concetto di infinito introdotto dal movimento romantico) e in questo scarto non richiudibile sono al lavoro lo scrittore e il lettore, entrambi sollecitati dal senso veicolato dalle parole del testo letterario.

Ne consegue un doppio lavoro, dello scrittore e del lettore, i quali si situano su due differenti versanti, ma nessuno di essi è ricettore passivo. Entrambi elaborano creativamente e danno forma: interpretano e si costruiscono. In questo afflato, desiderio di una sempre rinnovata capacità esplorativa in cui il senso morale viene coinvolto in prima istanza in quanto impegno, cura e presa di posizione, ascolto, riflessione e restituzione, Raimondi individua il cuore propulsivo della lettura/scrittura. 

Il problema estetico/etico viene soltanto sfiorato in questa sede, vengono cioè ravvisati i confini delle due aree, qui intercettati nel loro solo sfiorarsi, ma non viene affrontato, se non nella indissolubilità che sembra sussistere tra le due componenti: in fondo, l’operazione della lettura a cui si fa qui riferimento è  quella della letteratura con la A maiuscola, e va da sé che questo trascina l’aspetto estetico, ma solo come corollario, essendo la sua relazione con l’etica fondante per lo studioso bolognese.

Raimondi costruisce tutta la sua esposizione con il sostegno di citazioni tratte dai grandi autori (scrittori e filosofi) al fine di corroborare l’idea che leggere sia, appunto, esperienza esistenziale che ci vede coinvolti in prima persona.  E che per questo richieda il nostro impegno e la nostra consapevole scelta.

                                                                                                      Rosa Pierno

venerdì 15 giugno 2012

JOHN CONSTABLE

Studio di nuvole erranti, di nimbi razzanti, coprenti, amanti frettolosi, i corpi sottostanti, s’ammassano grevi sul limitare del supporto, simili a gregge che percorra cielo meta non avendo. Un’intera vita trascorsa a studiare i mille modi di rappresentare cirri e cumuli non può far altro che indicare l’esistenza di un abisso tra natura e arte.

La chiusa di Dedham” è paesaggio che artiglia il cuore, che ne pretende la resa insieme alla ragione. Nuvole arpionate da spugna e da pennello denunciano che emozione è in subbuglio dinanzi a paesaggio che reclama consanguineità.

Al tramonto le nuvole aggrediscono la terra, poiché il presidio del sole è venuto meno, e fra poco pesanti tocchi di pigmento grigio impiomberanno la scena, ma ora, un’aureola bianca filtrante dalle nuvole dona alle erbe secche un prezioso abbrunito colore. Un albero, carbonizzato, sta polarizzando la notte sul registro dell’oscuro.

“Flatford Mill dal Lock”. Con piatte, plateali pennellate vengono depositate sulla tela zolle e stoppie e pietre affinché trascinino col loro pondo a terra le nuvole. Materie, in fondo, non sono differenti, ma è colore  – per sempre fresco – a scavare differenze.


“La baia di Weymouth”. Cielo affonda come farebbe parola veemente e irata nella viva carne e penetrando nella baia fa sobbalzare animo e rena, cuore e sassi. Vento sollevante folate d’acqua fra un istante confonderà e capovolgerà baia e oceano, insediando fra essi vomitato cielo.

“Torre di Layer Marney, Essex”. Emerge dall’indistinta macchia di rovi e di frasche, la torre di Layer Marney nell’Essex, con un tono rossastro che agglutina intorno a sé uno sprazzo di cielo sgombro da grevi nuvolaglie. Si fatica a mettere a fuoco il soggetto della composizione. Persino i pochi particolari hanno una definizione incerta: i fori della torre, il tetto di tegole, la semovente massa degli alberi. Tutto quel che se ne vede è la macchia nerastra che ci corre incontro per inghiottirci, la torre che si erge magnetizzando l’azzurro.

Non è la medesima cosa guardare “Harrow vista da Hampstead Heath” dal vero anziché nel quadro. Il ventre gonfio delle nuvole che si sta riversando nella valle è carico di viola palpitanti come un’aorta e di rosa carne riverberanti dalla nuda terra. Ma questi pulsanti colori sono presenti solo nel quadro.


“Stoke-by-Nayland” (olio). Zaffate di colore, rigate da un pettine, collose e violacee, inaderenti e vischiose al tempo stesso, striano un cielo riluttante a lasciarsi trascinare dalla sua stessa foga, ma le chiazze verdi delle chiome impigliano lo sguardo e lo depositandolo su più stabile suolo.

“Folkestone dal mare” (acquarello). Se cielo impallidendo è divenuto ocra, quasi si fosse estinto, e nuvole hanno acquisito striature violacee e la laguna di terra mima violacea acqua, mare non può che essere verdastro: quasi per una sorta di sillogismo.

“Hampstead Heath, Looking to Harrow, Stormy Sunset” (olio). Brumoso incartapecorito cielo, catramoso e blu pavone insieme, arretra sullo sfondo di alberi bruciati dall’ombra e invischiati di ruggine risalente da assetate radici, mentre, in altre zone, promette idilliache ore.

                                                                                      Rosa Pierno

martedì 12 giugno 2012

Peter Burke “Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini” Carocci, 2011

L’uso delle immagini da parte di uno storico presuppone una specifica preparazione al fine di non cadere in errori d’interpretazione del dato visuale. Si può dire che il libro di Peter Burke “Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini” Carocci, 2011, sia un manuale per mettere in guardia lo storico da errate interpretazioni di oggetti solo apparentemente di immediata comprensione. Pur preferendo un metodo morelliano (analisi dei dettagli) e iconologico-iconografico, Burke è sempre molto attento nel tentare di spiegare in che cosa effettivamente consistano tali metodi interpretativi e soprattutto nel mettere in evidenza i loro limiti.

In particolare, Burke spende molto all’interno della sua esegesi per mostrare come la lettura delle immagini senza filtri e senza la necessaria preparazione, restituisce proprio il contrario di ciò che contengono. Lo storico offre, perciò, non soltanto una vasta panoramica sulle metodologie utilizzate per la lettura delle immagini, ma ne mostra anche gli aspetti fraintendibili: fornisce le griglie concettuali di riferimento ed esempi e temi di applicazione: dal paesaggio, agli interni domestici, dalle trasformazioni sociali e politiche alle trasformazioni culturali, poiché ciascun tema determina caratteristiche precipue che necessitano di adeguati strumenti interpretativi.

Resta un fatto incontrovertibile che Burke si schieri decisamente a favore dell’utilizzo delle immagini per il resoconto storico, in contrapposizione a una avversa fazione che ritiene invece che le immagini non forniscano alcuna informazione aggiuntiva a quanto si evince normalmente tramite i documenti non visuali. Anzi, Burke mostra numerosi  esempi in cui le immagini sono state importanti: in fondo, esse consentono di penetrare in un’epoca con lo sguardo. Levando loro la tara dell’interpretazione del dato già operata dall’artista che ha prodotto l’immagine, del messaggio volontariamente veicolato da esse e della capacità di lettura dell’immagine da parte dello storico, l’immagine presenta, peso netto sulla bilancia, una mole di informazioni che riguardano la restituzione di ciò che, appunto, altri documenti non sono in grado di fornire, “in quanto esse integrano”, oltre che confermare, ”le prove provenienti dai documenti scritti”.

Uno dei cardini problematici dell’uso delle immagini in ambito storico risiede proprio nella riduzione dell’immagine a testo: “Il difetto dell’approccio strutturalista consiste nella propensione a ritenere che le immagini abbiano un significato, che non ci siano ambiguità, che l’enigma abbia una sola soluzione, che esista un codice da decifrare.  Il difetto dell’approccio post-strutturalista è quello inverso, la convinzione che qualsiasi significato si attribuisca a un’immagine sia valido quanto qualsiasi altro”. “Tuttavia si potrebbe ragionevolmente sostenere, tanto contro gli iconografi quanto contro i post-strutturalisti, che il significato delle immagini dipende dal “loro contesto sociale”. Intendendo con quest’ultima espressione la cultura in generale, “le precise circostanze in cui l’immagine è stata commissionata e il suo contesto materiale”.  

“Le immagini non danno accesso direttamente al mondo sociale, bensì alla visione che di quel mondo hanno i contemporanei”, né “gli storici possono permettersi di dimenticare le spinte opposte che muovono chi realizza immagini e si trova a rappresentare un mondo ora idealizzandolo e ora mettendolo alla berlina. Essi devono affrontare il problema di come distinguere fra rappresentazioni di ciò che è tipico e immagini di ciò che è eccentrico”. La documentazione visuale, realizzata o meno con intento testimoniale, si rivela così documento esso stesso, partecipante a tutti gli effetti alla ricostruzione dell’affresco di un’epoca, anzi la sua perdita costituirebbe la scomparsa di informazioni non altrimenti recuperabili. Inoltre, Burke entra nel vivo della polemica tra gli schieramenti critici che parteggiano per alcuni metodi anziché per altri, evidenziando che, al posto della loro contrapposizione, molto più utile risulterebbe dominare tutti i metodi possibili per far parlare le immagini, potendo verificare, così, su più fronti, tramite i diversi punti di vista determinati dalle metodologie, i risultati ottenuti. L’ultimo capitolo, infatti, riguarda proprio la raccomandazione di un approccio multidisciplinare, che in fondo è quanto ci si dovrebbe augurare anche da uno storico dell’arte. 

                                                                                                        Rosa Pierno

venerdì 8 giugno 2012

Jacques Derrida “Adesso l’Architettura” Scheiwiller, 2011


Il tentativo di Jacques Derrida di applicare la decostruzione anche all’Architettura, in “Adesso l’Architettura” Scheiwiller, 2011, si fonda sull’ assimilazione di qualsiasi oggetto, di qualsiasi manufatto (sia esso film, opera d’arte, musica, architettura) al testo. Derrida intende il testo non solo nella sua definizione canonica, ma anche in quella allargata agli interspazi, alla firma, a tutto ciò che è connesso al testo.

Se l’intento è quello di destrutturare ogni discorso, ogni logocentrismo per palesare la sua matrice impositiva,  auto fondante, regolatrice, non si comprende, però, perché ciò debba avvenire ancora attraverso il discorso, come fosse garanzia sufficiente. Non si vede come l’abbattimento delle coppie oppositive ristabilisca una diversa relazione dei concetti fra loro e smascheri l’auto-fondazione originaria. E che si voglia invece prescindere proprio dalla mancanza della parola nelle arti visive, le quali sarebbero il veicolo più naturale e immediato per decostruire l’imperio della parola è in qualche modo sospetto.

Che cosa, peraltro, la decostruzione, come pratica discorsiva, possa comportare per la pratica architettonica che non sia già del tutto evidente nei corsi di storia dell’architettura o di composizione è retorica domanda. In ogni caso, l’ammissione della centralità delle parole rispetto alle arti non-verbali denuncia la non adattabilità della decostruzione a queste ultime, in quanto la decostruzione appartiene appunto all’ordine del discorsivo, del logos, in cui Derrida si prova a fare esplodere le parole “così che il non-verbale appaia nel verbale”. Se il filosofo francese, infatti, è interessato alle “parole, paradossalmente, nella misura in cui esse sono non-discorsive, per come possono essere usate per far esplodere il discorso” il trapasso di questa pratica nelle opere non-verbali è quantomeno paradossale (sarebbe il non-verbale che esplode nel non-verbale).

Se la preoccupazione di Derrida è di quella di destituire la filosofia dalla posizione di dominio  da cui ordina e classifica tutte le regioni del sapere, e se egli manifesta il desiderio di “nuovi percorsi, di un nuovo modo di abitare, di pensare” che dovrebbe investire anche gli altri campi del sapere, “Il desiderio informe di un’altra forma” e che si potrebbe definire come la deformazione che lo sguardo di Derrida impartisce a tutte le cose, ci fa pensare che in questo modo la filosofia continua nel suo tentativo di assoggettamento ad oltranza. Ma il punto focale ci sembra proprio questo desiderio – simile a un languore primaverile, al ‘non so che’ rilanciato e rigenerato da Jankélévitch, a una smania, a un’insofferenza che vuole sempre “un nuovo tipo di molteplicità, con altri confini, altre eterogeneità rispetto a quelle attuali, e che non si riduca alla tecnica della pianificazione”. A prescindere da qualsiasi risultato concreto, pare che l’unica cosa che gli importi sia il nuovo di stampo romantico. In ogni caso solo ciò che non è possibile cogliere, né definire.

Derrida lo dice chiaramente: lui pensa a un’architettura che inventi “un nuovo abitare che non corrisponda più alle vecchie condizioni”, in cui progetto non sia in cerca del controllo assoluto e la comunicazione, l’economia, il traffico non siano dominate da nessun programma predefinito. Vero è che l’architettura come le altre arti e come moltissime altre cose non si lascia ridurre a una definizione filosofica né scientifica. Ma questa è la caratteristica di ogni arte, precede ogni progettazione indipendentemente dalla volontà. E dunque è già naturalmente in atto nell’Architettura.




E che dire di quello che sembra una sorta  di stampo in cui Derrida frulla qualsiasi  oggetto per dargli le sembianze di quell’unico che gi sta a cuore: niente che sia possibile definire come nuova architettura, ma solo come promessa, ”senza sapere essa stessa dove vada, mai certa del suo arrivo”. Sarebbe questo l’intento della decostruzione, l’evento che “non può essere programmato o totalizzato”. Derrida paradossalmente si chiede: se si liberasse la forma architettonica da ciò che la sottomette (il rapporto con l’origine, l’abitabilità, la memoria, l’estetica, ecc.) si giungerebbe a un’architettura pura? Lui stesso ammette che sarebbe solo  una forma mimetica di metafisica. Non sarà bastato disfarsi dei modelli vetusti per fare nuova architettura, poiché la dispersione alla quale essa si abbandonerebbe abbisogna ancora di qualcosa che la tenga unita. Ma Derrida ammette di non avere regole per tutto ciò. D’altronde, la dismissione dei modelli, che ci fa venire in mente l’analisi  kuhniana dei paradigmi scientifici, mette in evidenza che i modelli vengono abbattuti dai nuovi, non da una promessa, quindi tutto il moto compiuto dal filosofo ci pare non solo inefficace ma anche errato: l’indefinito in architettura esisteva prima del moto filosofico che presume di indicarlo, anzi, come in questo caso, di inaugurarlo.  

Detto in altri termini, decostruire i fondamenti della tradizione architettonica, per Derrida vuol dire criticare tutto ciò che la lega all’utilità, alla bellezza, all’abitare, nella volontà di liberarla da queste finalità esterne, da tutti questi scopi che le sono estranei. “Ma poi si devono reinscrivere questi motivi nell’opera”. “Bisogna ricostruire, per così dire, un nuovo spazio e una nuova forma, delineare un nuovo modo di costruire in cui quei motivi o quei valori siano reinscritti, avendo nel frattempo perso la loro egemonia esterna”. Che è come far rientrare dalla finestra ciò che si è appena estromesso dalla porta. Derrida precisa che decostruire non è dimenticare il passato, ma serve per liberarsi delle rigide opposizioni dialettiche (figura e sfondo, ornamento e struttura, forma e funzione). Ciò comporta anche la possibilità di attraversare i confini delle varie discipline, di creare incroci, innesti, contaminazioni. D’altra parte, il filosofo francese è consapevole che la decostruzione non “sia qualcosa di specificatamente moderno” nel senso che quest’atteggiamento è sempre stato all’opera nella storia e riconosce che esiste un’irriducibilità delle specificità delle varie discipline, ma sembra accordare questa specificità in modo accalorato solo quando si parla della filosofia, mentre dovrebbe riconoscere che quel suo riconoscersi ‘tecnicamente incompetente’ in architettura dovrebbe raggelarlo sulla soglia della suddetta.
  
Ritornando alla decostruzione che Derrida vorrebbe vedere all’opera nell’architettura, e cioè “il tentativo di liberarsi dalle opposizioni imposte dalla storia della filosofia” – quali teoria-prassi, animale-uomo, filosofia-architettura –  essa coincide con l’interrogare “le coppie di concetti che per lo più vengono accettati come ovvi, come naturali, come se non fossero stati istituzionalizzati a un dato momento, come se non avessero una storia. A causa di questa presunta naturalità, queste opposizioni limitano il pensiero”. E per questo il filosofo francese ritiene che “un pensiero architettonico può essere decostruttivo solo in questo senso: se tenta di pensare quello che costituisce l’autorità della concatenazione architettonica in filosofia”. Siamo, come volevasi dimostrare, ritornati alla filosofia: “L’opposizione tra tempo e spazio, tra il tempo del discorso e lo spazio del tempio o della casa, non funziona più. Si abita nella scrittura. Scrivere è un modo di abitare”. Siamo, dunque, definitivamente usciti dal campo dell’architettura. Ma con questo libro non ci eravamo mai entrati.  

                                                                                                     Rosa Pierno

lunedì 4 giugno 2012

Mario Fresa “Il bene”, Edizioni Marocchino Blu, 2007


Suadente la voce di Mario Fresa si leva dalle pagine di “Il bene”, Edizioni Marocchino Blu, 2007, come un aroma, che provenga da osmotico passaggio tra cieli bagnati e vene, stretti insieme da parole di miele che richiedono rallentamento del respiro, tono affabulatorio. Un vero e proprio fiotto costante interrotto solo da proposizioni avversative che con la loro serrata frequenza incalzano l’apparente supina fissità di ciò che è: nulla che si percepisca e si pensi può riposare nella sua essenza: lo svolgersi incessante è esplicito riconoscimento che solo il divenire esiste.  

Dentro quei nuovi flutti si disperde all’improvviso
un sole così gonfio di lame e di sorprese;
ma poi tu guardi al fiume nel riflesso di questo pieno
intendersi che subito rinasce ma non parla di giustizia;
ma custodisce morbide sostanze che inventano una
vincita di farmaci segreti e di timori.
Le leggi del volere riferiscono: gite annunciate
sopra la luce delle parole nuove.

La posta in gioco non consisterà certo nella scelta fra i due versanti della medesima onda, ma si dispiega con scrosci e raffinatissimo elargire di sfaccettature, ambigue consistenze, tramate illusorietà, nella consapevolezza dell’infida posizione da cui si guarda al mobile teatro delle cose! Questo preziosissimo restare in equilibrio su impercorribili versanti, mentre si affondano i piedi nella materia molle delle parole nuove, rende  questa silloge sontuosamente bizantina: splendida nell’ora del tramonto, quando le cose si percepiscono vividissime per un lucore che proviene da consunta luce.

“Tranelli” e “gallerie di soluzioni” proiettate con un sorriso su “pareti sacre” fanno affiorare nel lettore precisi contesti di riferimento filosofici subito scambiati come in un mercato nero con elementi provenienti da un mondo in cui non la volontà regna, ma specchi e riflessi “gesti iridescenti” e “ricami”: apparenze barattate con sostanza.

Si inscena attraverso le parole un mondo straordinario, familiare e distantissimo, di sogni e  sorgenti, di calcoli e predizioni, quando fra di essi non esisteva frattura. La bellezza vi regna sovrana, domina menti e cuori, facendoci intravedere una via che non si oppone alla visione della volontà e della chiarezza, ma che la contiene: “piano delle armonie / che dicono e disfanno; che toccano e disfanno”.

L’amante, a cui il poeta si rivolge, ci sembra pretesto – personaggio introducente al mondo solo intravisto    per tessere le lodi di una visione incantata e decantante, di rara fascinazione.  Quasi l’amore, più che l’amata, il viatico per simili visioni, ardenti e supplici. Poiché il poeta vuole penetrare in questi interstizi di visione, in questi specchi labirintici, fra profili e cornici, fra offerte e inventario, fra veli e bisbigli: se mai qualcosa deve essere non può darsi che in queste forme: instabili e fugaci, di eccelsa fattura e incorporee.  E valga come dichiarazione di poetica la cesellata affermazione: “Poiché su questa corsa ho costruito un / desiderio di ferite e di digiuni, di un’infanzia / catturata dalle vere meraviglie, sempre / disposte al sonno, all’invadenza, al bene”.

Non esente da inganni e voltafaccia, benché sempre accolta con una messe di sorrisi – vero e proprio simbolo di accoglienza e accettazione del rischio e della sofferenza e di una consapevolezza responsabile e non lasciata al mutuo e libero gioco delle casuali proiezioni – pure, questa diversa disposizione, accoglie la domanda che scuote la rifulgente e rifrangente  costruzione:

“Ma dimmi e ascolta: quale ventaglio di sonniferi
concederà la pace a questo vetro di visioni
che ci osserva, che ci ricorda l’arte di separare
il campo delle intese e delle feste,
quella virtù di prendere e lasciare?”

Poiché sarà vero alfine che si debbono saldamente tenere le redini anche in un mondo di sogno: tutto può diventare tranello e mancanza, violenza e disarmonia, lì dove l’unione non è che proiezione di figura franta. Non esattamente con la ragione si opporrà resistenza al palesarsi dell’altra faccia della medaglia: ma la si affronterà con le medesime armi: “E in questa tua caduta io mi /riparo; e mi divido; e mi trasformo nella tua veste / che dice allora d’imparare; di risanare e di / toccare”. La rinascita, l’incessante trasformazione, sono la medesima cosa della caduta e della distanza. Nessuna cosa mai definitiva, nemmeno il bene senza il male.


                                                                                            Rosa Pierno

sabato 2 giugno 2012

Gilles Clément “Il giardino in movimento” Quodlibet, 2011

Dopo avere letto “Il giardino in movimento”, Quodlibet, 2011, e osservato il suo ricchissimo apparato fotografico, si ha la definitiva sensazione che il termine giardino non abbia nulla a che vedere con l’impalcatura ideologica propugnata da Gilles Clément. Non è possibile, infatti, riferirsi all’etimologia del termine giardino come luogo chiuso, recintato, protetto e pensare di poterlo estendere a tutto l’ecosistema del pianeta terra, concludendo che quei tenerissimi campi fioriti e caotici, informi se non per qualche sentiero in essi ritagliato, siano giardini. Non farebbe meglio Clément a condurre la sua battaglia ecologica insegnandoci ad amare qualsiasi aspetto della natura, anziché condurla contro i giardini, così come ci sono stati consegnati dalla tradizione? 

Il suo attacco ha di fatto come obiettivo proprio quello di opporsi al giardino - qualsiasi forma esso abbia assunto - contrastando, dunque, insieme al giardino, la selezione, l’intervento umano che impedisce il naturale sviluppo della flora e della fauna, e quel marchio di potere che inevitabilmente esso reca impresso. Perciò ci pare che non dovrebbe utilizzarne nemmeno la nomenclatura dopo averla totalmente svuotata. Né ci sembra che al giardino si possano attribuire le colpe di essere causa di un ambiente compromesso e minacciato, né accusarlo di essere il simbolo di quel potere che ha nello sfruttamento intensivo delle risorse il suo precipuo interesse. Crediamo invece che esso non sia che una manifestazione tra le tante della creatività umana e persino costantemente minacciata. Potesse, invece, essere la terra piena di giardini! Quando si guardano le belle foto del libro, con i vari esempi di campi in cui la natura è stata lasciata libera di esprimersi - in cui cioè semplicemente non si è intervenuti - innegabilmente si avverte la sua potente bellezza e si è indotti alla contemplazione, che in ogni caso essa suscita. Ma da una natura a cui non si impone nulla alle forme artistiche del giardino c’è un salto sostanziale che a Gilles Clément semplicemente non interessa.

Oggi, l’attuale orientamento prevede un’integrazione tra le diverse componenti che agiscono in un paesaggio, anzi esso è visto proprio come risultato del rapporto tra elementi ‘culturali’ ed elementi ‘naturali’ e ciò supera definitivamente la dicotomia tra culturale  e naturale, tra le componenti  estetiche e le componenti ecologiche. Esse prese singolarmente sono parziali rispetto alla totalità ravvisabile in un paesaggio, il quale va gestito con il concorso di tutti gli apporti disciplinari necessari. La diversità va salvata non solo in campo biologico, ma anche in campo culturale, mentre ci pare che Gilles Clément voglia sostituire interamente il suo abusato concetto di giardino a quello tradizionale. Ancora un’altra riflessione va fatta, ma qui si può tranquillamente ricalcare l’estratto di Alain Roger dal suo libro “Breve trattato sul paesaggio” Sellerio 2009, che lo stesso Clément ha inserito in appendice al suo libro, sulle differenze esistenti tra paesaggio, ambiente e valori ecologici: anche Roger nota che Clément utilizza questi termini dopo averne ampliato troppo le definizioni, fino a renderle quasi sovrapponibili. In definitiva, i valori ecologici vanno difesi a oltranza da tutti, ma non c’è alcun bisogno di soppiantare l’idea di giardino, snaturandolo. 

                                                                                      Rosa Pierno