giovedì 27 settembre 2012

Alcuni frammenti inediti di Mara Cini

Seguire le tracce nella neve sembra facile al confronto di questo sopraffino tendere un agguato all’esistente affinché si riveli. Nulla di quello che si vede è di qualche interesse. Ma esclusivamente l’adombrato, l’inefficace, ciò che le cose reali tessono fra di loro negli interstizi: la rete invisibile, quella che cattura, per cui è vano mettere a fuoco, sfuggente fino all’inverosimile. Di conseguenza anche la macchinazione testuale deve adeguarsi all’oggetto da intercettare. Le sdrucite zone del tessuto, le consunte, fino a diventare trasparenti, trame si rivelano come le più adatte a filtrare tale preziosissimo plancton, evanescente, mobilissimo. Nella rarefatta tramatura dei versi, tutti i verbi indicano azioni impalpabili, tattili o riferite all’interiorità (sfiora, imbroglia, tenere, invecchiare)   e i participi passati (scampati, inosservato, privato), inoltre, sono ancora più eloquenti rispetto alla circoscrizione dell’oggetto agognato: ciò che non si vede o la nuova apparenza che nasconde la precedente, come a dire il fantasma. E dunque questa è poesia che richiede di aderire allo striscio che si forma sulla lastra fotografica quando il soggetto ritratto si sia mosso come fosse la sua essenza. Quel momento del divenire a prescindere dallo stato finale del moto è davvero un appassionante oggetto di ricerca, di riflessione. Sarebbero i meandri dell’essere da sempre rigettati e che pure esistono, di cui non si dovrebbe tacere e che vale la pena di portare sulla superficie come concretissimo elemento, poiché può restituirci proprio ciò che rigettato ci ha causato contraddizioni e perdite. Si tratterebbe di un’interezza a dispetto delle lacune con cui viene restituita (e si badi bene: la paradossalità dell’affermazione è, anch’essa, apparente). L’interezza è quella a cui il vuoto appartiene, come il pieno appartiene al vuoto. Separare è atto tranciante che solo la poesia, e l’arte in generale, possono rendere reversibile.
Restano sul fondo di tale finissima rete, le labili percezioni che messe una sull’altra, in un incongruo accumulo, creano la somma degli stati dell’essere da cui non deve trarsi nessun conclusione. Le stesse citazioni dai poeti frequentati creano una sponda, come una corda a cui tenersi durante la traversata, contenenti persino un avvertimento a non issare mai la lenza in barca, a mai raccogliere, ma solo a mantenere la partita aperta. L’essere è mortale quando ci cattura. 




E non so più…
Chi di noi è l’assente
Paul Eluard

stralci di pallore scampati alla pietra // una doppia festa

s’apre all’inosservato


rivela che sono bambini //  prima che ricordi

una parola monca

e un

a capo

privato della febbre e della collera




vedo la luna nuova
più fine di un capello
E.E. Cummings




fatto un sospiro / curvo su di lei / sfiora le occhiaie

sfiora l’icona per vederla più grande

ma non si vede // resta un invitato segreto






IL TEMPO LA RAGGIUNSE. IL TEMPO FINITO.
Patrizia Vicinelli


ogni luce imbroglia il non scriverti

tra costole di bottiglie scure
dietro // relegata al suo uso: il non scriverti

ma porta di colpo  // carezza dall’aperto
passeggiate // sponde di lago

come  tenere dentro // a invecchiare
la luce di bottiglia



Mara Cini ha studiato all'Istituto Statale d'arte e al DAMS di Bologna dove si è laureata in Estetica. Si occupa di scrittura e arti visive. Suoi lavori sono apparsi su antologie e cataloghi d'arte.  Numerosi gli interventi su periodici italiani e stranieri. Collaboratrice di 'storiche' riviste sperimentali come Tam Tam diretta da Adriano Spatola e Giulia Niccolai, Mini diffusa in tutto il mondo da Franco Beltrametti, North (http://www.gianpaologuerini.it/b_aboutyou/2_guests/pdf/_north.pdf) creata da Massimo Gualtieri e Ugo Pitozzi, Il poesia illustrato di Corrado Costa. Fa parte della redazione della rivista Anterem. Ha pubblicato le opere poetiche: e film introverso e film chimico, il periplo, 1976; Scritture (http://www.gianpaologuerini.it/b_aboutyou/2_guests/pdf/cini.pdf), North Press, 1979; La direzione della sosta, Tam Tam, 1982; Poesie per amore della pittura, Venezia Undertide, 1986; Anni e altri riti, Anterem Edizioni, Verona, 1987; Dentro Fuori Casa Anterem Edizioni, Verona,  1995; in tempo, Porto dei Santi, Loiano(BO), 2000; Specchio convesso (con Rita degli Esposti)  Anaedizioni, 2005.

sabato 22 settembre 2012

Santiago Espeche “The Mystic of Landscapes” alla galleria SpazioNuovo, Roma


La mostra, curata da Paulo Pérez Mouríz, e avente il patrocinio dell’Ambasciata della Repubblica Argentina in Italia, verrà inaugurata il 26 settembre 2012 in via d’Ascanio, 20, Roma, ore 19 e resterà aperta fino al 17 novembre




Santiago Espeche, in quanto collaboratore presso il CONAE (Agenzia spaziale argentina) ha avuto modo di elaborare le immagini satellitari con speciali tecnologie, scoprendo così il loro altissimo potenziale estetico. Le immagini si configurano come concrezioni di colore al punto che sembrano assumere, pur con il solo ausilio dei contrasti di colore sulla superficie, spessori volumetrici come se fossero, appunto, dovuti al pigmento: eppure, Santiago Espeche agisce non per simulare dipinti, ma per creare luoghi immaginari, artificiali, derealizzati col fine di fargli assumere persino aggettivazioni mistiche – come il titolo della mostra  “The Mystic of Landscapes” indica.


Il fascino tutto percettivo di queste poderose immagini è ineludibile. Immediatamente dimentichiamo che si tratta di fotografie del pianeta terra (fotografie satellitari del Nord della Russia o dell’Antartide, dell’Arizona o del Rio delle Amazzoni), poiché, spesso, l’elaborazione è condotta fino al punto da rendere irriconoscibile il soggetto, attestato solo dal titolo. L’alterazione dei colori originari comporta di fatto un nuova immagine, non più relata all’originale. Oggetti estranei che sono pronti ad assumere  sembianze familiari in un viaggio a ritroso, non solo spaziale ma anche temporale, oppure che si astraggono dal referente per mostrare quanto viva e feconda sia la nostra attrazione per i colori, per il disegno e per quel disegno  che solo il colore può conformare. Parrebbe, in sintesi, un ritorno al pittorico, nel senso  di un agire con insistenza nell’informale che si presta ad essere letto in quanto figura e che ci fa venire alla mente lo straordinario “gioco” insegnatoci da Leonardo da Vinci, di leggere forme compiute nelle macchie, ma si tratta soprattutto di un’operazione sull’immagine condotta per riproporne la centralità e il ruolo insostituibile nel presentarci scenari non riducibili al logos.



Santiago Espeche, argentino nato a Roma nel 1973, è già stato protagonista di diverse mostre personali in Argentina, Giappone, Italia, Arabia Saudita, Bahrain e Stati Uniti. E’ autore di innovative proiezioni multimediali e della scenografia per l’opera lirica I Masnadieri di Verdi al Teatro Avenida di Buenos Aires.

giovedì 20 settembre 2012

Mario Fresa “Alluminio” Lietocolle, 2008


Mario Fresa è uno di quei pochi poeti di cui si sente la voce, già mentre si legge la prima strofa. È una voce caldissima, commossa, epica che ci introduce in un universo di oggetti enigmatici eppure amichevoli, ove persino il silenzio è un’argilla che rinvia al concetto di spazio plasmabile e dove, dunque, ogni elemento non è più astratto. Mario Fresa con “Alluminio” Lietocolle, 2008 ci presenta un mondo in cui spinozianamente nessun elemento perde il suo contatto con la propria concretezza, particolarità. Nessuna ragione ne incenerirà le mobili e seriche apparenze, nessuna passione ci invischierà solo perché si è all’oscuro delle possibilità, aperte e plasmabili, insite in ciascuna cosa che cade sotto il nostro sguardo. Se Spinoza ci ha indicato la possibilità di questo modo di percepire e sentire, Fresa attraverso la sua poesia  ce lo mostra in atto.  Sgombrato il campo da paure e speranze, immaginiamo appunto che debba essere proprio questa la quieta, placante voce:

II

Il cristallo è perduto ma tu riposa:
si accendono le dita nell’argilla del silenzio.
Nell’odore del dormiente ci sono ricci
dalla lingua sconosciuta
e c’è l’obliquo amore
di chi sorride nella notte
della rincorsa vera.

In essa ogni parola acquista una profondità che è riflettanza, un bagliore che è oscurità, il senso è plurimo e mosso, desiderio e amore aprono le porte alla conoscenza ove le cose sono, appunto, instabili e inafferrabili, inestricabili e disciolte. Non a caso abbiamo pronunciato la parola ‘epica’: la voce narrante si situa in un tempo perenne, che è passato e in cui, eppure, siamo immersi, ove tutti gli eventi coesistono nella mente e noi li percepiamo sulla pelle. Le voci, i gesti, i volti appartengono contemporaneamente alla storia e alla leggenda, ai miti e al quotidiano: “Si apre volando il celestiale nastro che sorveglia già le strade: / la seta fascia i gesti / e come tace lo stupore della vista, / come risplende il fiore degli abbracci / ricaduto nella luce di fantasmi…”.

Il passaggio dall’oggetto al simbolo è il passaggio da un tempo prosaico a un tempo universalmente valido. Fresa è poeta che va contro la contemporaneità per aprire alla coesistenza. Nessun indugio o obolo da pagare all’osservanza di regole o precetti; egli, letteralmente, ricrea il mondo anche in senso anacronistico. Crea un tempo inesistente: assolve alla funzione del poeta: “una bendata resistenza” che vale come profezia, sguardo che va al di là, capace di sfondare le convenzioni, di essere preveggente, di restare fermo e saldo, di non appiattire la ragione sull’esistente, né sacrificare il potere dell’immaginazione di raffigurarsi il diverso.

Nessuna attesa in questi versi, tutto è già sulla pagina: il desiderio ha attuato il reale. Nessun dubbio le abita. Nessuna separazione dell’intelletto dall’amore, della mente dal corpo, della volontà dal desiderio, dell’altruismo dall’amor proprio:   

V

Conoscere il centro, la carezza, l’occhio bruciante
mentre adesso si risvegliano minute
le profezie discese nella sera
dei dolori: così andremo col passeggio che ribolle
sui candidi riflessi, finiremo
nella morte lentissima di luce:
sulle veloci labbra si è riposata lieve l’ombra
per sognare la vittoria sulle cose

Attraverso la rinuncia alla violenza delle passioni e all’uso limitante della ragione, e con un’immaginazione che lavora sulla fantasmatica ricomposizione dei frammenti, reintegrazione delle lacune e delle mutilazioni di senso, Fresa ricostruisce ponti e lì, dove era oscurità, procura passaggi. Fantasmatica poiché la consapevolezza è propria di colui che diventa quel che è: egli non sostituisce vecchie credenze con nuove, ma è consapevole in ogni istante della propria cesellata, preziosa creazione.
Di questa poesia dagli accordi soavissimi, risuonanti come il getto di una fontana, fantasmagorica come le vetrate di una cattedrale gotica, che continuamente mette a fuoco e sfoca per sostituire immagini sonanti con immagini rutilanti, immagini sul far della sera con albeggianti quadri d’insieme, moti di ardore con stasi orientali, Fresa è infinito demiurgo che ci libera da immagini fisse, predisposte da altri e ci riconsegna, finalmente, al nostro mondo.
  
                                                                                            Rosa Pierno

lunedì 17 settembre 2012

Ines Fontenla “Requiem Terrae”

Le opere che Ines Fontenla  ha appena esposto a Buenos Aires (Centro culturale Recoleta dal 15 giugno al 22 luglio 2012, con il patrocinio del Ministero della Cultura del Governo della città di Buenos Aires) e che spaziano dalla installazione, al disegno al video, denunciano lo stato precario in cui versa il pianeta Terra (e si badi bene in relazione al nostro stato di benessere, in quanto la Terra è l’ambiente in cui viviamo).

Una delle installazioni è  poggiata su un manto di nuda terra, a rinsaldare il legame diretto, fisico con la materia, creando così  uno spazio interlocutorio con la rappresentazione grafica del pianeta (emisferi, mappamondi, cartine geografiche) in cui però materia e rappresentazione mantengono aperto anche un conflitto, quasi un illogico tentativo di dialogo.

Ciò rende sinistro l’appello perché la denuncia si attua a fronte di nessun evidente pericolo. Certo, il vetro su cui è stampata la carte geografica è rotto e sul pavimento  se ne vedono i frantumi, oppure, la carta geografica è appallottolata come un rifiuto o anche, nel disegno, le terre stanno scivolando dalla loro canonica posizione (in riferimento alla precarietà di ciò che invece diamo per scontato)  staccandosi dalla cornice di riferimento e deformandosi. Quel che però appare generico, non individuabile, soltanto paventato, è proprio la minaccia che incombe e che non viene raffigurata.

Ciascun fruitore riempirà questo spazio volontariamente lasciato vuoto, con le proprie credenze, fobie, conoscenze. In ogni caso, le metafore visive di qualcosa di nefasto che è già in atto, non vogliono funzionare riduttivamente come momento di richiamo alla consapevolezza (fra l’altro l’artista argentina, raffinata ed elegante, compare in veste collettiva, non impone perentoriamente la sua narcisistica presenza)  ma danno voce all’esigenza di una diversa rappresentazione culturale del pianeta su cui viviamo. Probabilmente una rappresentazione in cui l’uomo non sia escluso e la relazione con la terra appaia più stringente, e l’essere umano si senta legato al medesimo destino. Forse, da questa nuova posizione, potrebbe essere capace di virare, di cambiare rotta, di avere un comportamento in cui egli non si estranei dal suo pianeta, coincidendo, alfine, con esso. 

                                                                                Rosa Pierno

giovedì 13 settembre 2012

Due poesie di Adam Vaccaro

Nella trappola che Adam Vaccaro ordisce sulla pagina si sentono digrignare i denti, si odono gli sfrigolii e gli stridori  e pare che a produrli siano le contraddizioni irresolubili della società e le ingiustizie e le umiliazioni. Invece, sono le componenti foniche, le scelte lessicali, prima ancora che il significato a produrre rumore sinistro, di ferraglia, con le sue ripetizioni con le sue allitterazioni, generando inesausto stridore di freni come su arrugginiti binari. Col che Vaccaro pare insistentemente indicare che non c’è riferimento a una possibile soluzione, a una progettazione ottimistica. Qui nessuna cosa si muove se non ciò che non cambia. Si sente il cozzo fra valore imposto e valore progettato dal singolo, tra stagnazione e incitamento, tra destino e volizione in una lotta che se non può trovare vincitori non può nemmeno trovare stasi. Non pare che il riferimento abbia come scopo di indurre a una maggiore consapevolezza. Nelle poesie presentate, Vaccaro  realizza con la scrittura un modellino in scala, in cui meccanismi di senso e suono, di reiterazioni e inceppamenti, di avanzamenti e retromarce mostra una impossibilità di evadere con l’assolutizzazione, con la cieca credenza, con l’ideologia e tuttavia l’impossibilità di fermarsi.    




Il succo

Il succo di questo nostro esistere
che tenta a volte slabbrato
il salto sgangherato e fulgido  
di tradurre tutto   
il suo dritto e il suo rovescio
in parole dal sapore
di zucchero e sale
completamente dentro e
completamente fuori – così
dolce da stordirci e 
salato da spaccare le labbra 
nel vento del deserto
che spinge senza tregua
a proseguire

30 dic. 2009

  

Oro-vita

Quando il danaro non è più segno d’oro splendore
di sole o chiarore di sale valore riflesso del fare ma
solo mina vagante tra le dita di invisibili croupier
sul tavolo dell’immenso magma dei debiti imposti
al mondo – vuoto che risucchia e vomita come

ventre di balena ogni minuta vita nel suo vortice 
che pare privo di uscite – tocca alle sue vittime 
cercare ancora ancora e ancora scarto e scatto
di ripresa di vita senza più aria come smarrita
provando ancora a ridarle valore e altro oro 

2 giugno 2012

Poesia inserita nella IX Edizione PoesiArte Quintocortile del 2012, col titolo Altro Oro e curata con Milanocosa



Adam Vaccaro, poeta e critico nato in Molise nel 1940, vive e opera da più di 40 anni a Milano. Ha pubblicato varie raccolte di poesie: La vita nonostante, Studio d’Autore, Milano 1978; Strappi e frazioni, Libroitaliano, Ragusa 1997; La casa sospesa, Novi Ligure 2003; e la raccolta antologica La piuma e l’artiglio, Editoria&Spettacolo, Roma 2006. Tra le pubblicazioni d’arte con artisti: Spazi e tempi del fare, con acrilici di Romolo Calciati e prefazioni di Eleonora Fiorani e Gio Ferri, Studio Karon, Novara 2002; Sontuosi accessi - superbo sole, con disegni di Ibrahim Kodra, Signum edizioni d’arte, Milano 2003; Labirinti e capricci della passione, con dipinti di Romolo Calciati e prefazione di Mario Lunetta, Milanocosa, Milano 2005.. Collabora a riviste e giornali con testi poetici e saggi critici. Per quest’ultimo versante, ha pubblicato Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi Terziaria, Milano 2001, Premio nel 2001 del Laboratorio delle Arti di Milano, sez. saggistica. È tra i saggisti del Gruppo redazionale che ha curato Sotto la superficie – quaderno di approfondimento sulla poesia contemporanea de La Mosca di Milano, Bocca Editori, Milano 2004. Ha fondato e presiede Milanocosa (www.milanocosa.it,), Associazione Culturale con cui ha realizzato numerose iniziative.

Vogliamo ricordare che Adam Vaccaro e l’associazione culturale Milanocosa sono gli ideatori della Maratona di Arte, Musica  e Poesia “100 Thousand Poets & Musicians for Change 2012”  che si terrà a Milano il 29 settembre 2012 dalle ore 17 alle 20 presso ChiAmaMilano, Largo Corsia dei Servi 11.   Il sito su cui vi sono dettagliate informazioni è: http://www.bigbridge.org/100thousandpoetsforchange/
Oltre, naturalmente, al sito di Milano cosa: http://www.milanocosa.it

domenica 9 settembre 2012

The silent space between and around words. Seconda edizione a Lipsia

La pittura è lo spazio silenzioso tra e intorno alle parole – questa frase di John Berger è stata l’origine di un progetto realizzato nel 2009 alla Temple Gallery di Roma, curata da Shara Wasserman: 4 scrittori (Bruce Comens, Rosa Pierno, Beatrice Talamo e Luigi Trucillo) sono stati invitati a riflettere su questa citazione. I testi poetici che sono stati sviluppati sono divenuti la cornice di sfondo per le due pittrici Georgina Spengler ed Edith Urban, le quali a loro volta usano frammenti di testi  in modo ricercato e particolare nel loro lavoro.
Colonia 210 ospita questo progetto nel “Rundgang 2012” dello Spinnerei-Leipzig di Lipsia  (Spinnereistraße 7 – halle 20 . eingang E). Inaugurazione: 15 settembre 2012.    


GEORGINA SPENGLER

IMMERSIONE/EMERSIONE

Immersione nelle oscure cavità della roccia, nel sordo brontolio dell’acqua che viene respinta dalle pareti traslucide dei sassi. Emersione del chiarore abbacinante di una non materia, polverizzata in aerea posa, intercettante piano promiscuo, d’incerta consistenza. L’ambiguo confine tra le materie, la possibilità di una loro definizione grafica e delle loro relazioni pongono, infatti, un problema di metaforica evidenza. Se è proprio roccia, acqua, muschio ciò di cui si tratta o sia, appunto, un paradossale tentativo di stabilire che esiste un irrisolto confine tra gli oggetti naturali in cui la linea di contorno spalanca un baratro d’irresoluzione. Il medesimo quesito viene sollevato dal nastro di omogeneo colore, che sta sospeso come un galassia su tale naturalistica rappresentazione. Vale come salto di scala che completa il discorso, poiché non esiste concetto di microcosmo che non debba servirsi  come necessario polo dialettico del complementare concetto di macrocosmo. In fondo, qualsiasi nostra considerazione dovrebbe inscenarsi su questo teatro per  essere esaustiva, per non mancare di complessità e di completezza, non esclusa una sana relatività che smussando estreme posizioni renda tutto soggetto a un’omogenea indifferenziata distesa del tempo.  Rocce esistono da sempre, ed esisteranno anche dopo la nostra sparizione: sparirà con noi ogni tentativo di definirle.  E, dunque, all’immagine del sasso battuto dall’acqua e arricchita da una dimensione cosmica si sostituisce la medesima immagine che ha questo lampante senso: l’immersione nel consueto causa l’emersione del non conosciuto.

.  

EDITH URBAN

SOVRAPPOSTO/INCISO

Incidere una tela senza lacerarla è possibile solo se la si rende spessa con strati di colore, di pigmento steso come fosse calce a ripristinare il muro dei secoli, il muro della memoria latente, pronto a balzare in primo piano ed essere tavola del presente appena lo si riconosca come superficie sul quale i segni impressi ci catturino, non necessariamente facendosi forieri di un interpretabile messaggio. Graffi, scarabocchi, piccoli aggrovigliati vortici, parole monche. Su questo impercorribile crinale si pone Edith Urban: sul fatto che il segno possa identificarsi con un significato non necessariamente ascrivibile a una lingua, ma appunto a quello  della evocabilità, dell’azione espressiva, del grido inerte che pure deve raggiungere gli altri perché un sostrato universale comune dichiari uguali gli umani che pur s’infliggono sofferenza e fratricide guerre. Che, dunque, tale segno condiviso emerga sulla superficie appena raffreddata di lavico fiume, su un muro di consumata materia, sia inciso o vi appaia sovrapposto, che sia appena uno sgraffio o che sembri estendersi fluente come un’intera frase, giunge a noi colpendoci come un gesto che ci afferra le viscere. Un’evocazione dell’antico che si attualizza nel nostro presente per avvertirci che  è sempre possibile cambiare direzione, che niente è scritto in maniera definitiva.

giovedì 6 settembre 2012

Du Fu “Paese in pezzi? I monti e i fiumi reggono” Edizioni L’Arca Felice, 2011


La traduzione di Alessandro Ramberti ci consente di conoscere quattro  poesie di Du Fu (712-770) raccolte nella silloge “Paese in pezzi? I monti e i fiumi reggono”, Edizioni l’Arca Felice, 2011  (con una litografia di Francesco Ramberti) e di penetrare in maniera ancora più diretta nel pensiero cinese di quanto molti libri sulla cultura orientale ci consentano, perché spesso la preoccupazione o l’urgenza del confronto con il pensiero occidentale appiattisce l’articolazione del pensiero orientale. In questa raccolta di poesie invece possiamo cogliere la pienezza del moto e dell’intensità del flusso poetico assieme all’impossibilità di fissarlo in un’immagine quieta, rassicurante, definitiva.

La struttura, come spiega  il traduttore, adotta il metro “verso regolare/ato”: “otto versi di cinque o sette parole di cui il terzo e il quarto verso sono paralleli e simmetrici fra loro e altrettanto lo sono il quinto e sesto verso” sia per quel che riguarda il senso sia per il valore grammaticale.

Commentiamo qui la prima poesia della raccolta, che riportiamo nella sua interezza. A partire dal dato osservativo che riguarda le condizioni storiche e sociali in cui versava la Cina a lui contemporanea, il poeta pone immantinente tale dato a confronto con la natura, in un colloquio che non astrae mai il particolare per assolutizzarlo, ma in qualche modo lo innesta indelebilmente in una scala maggiore,  lo relativizza nel senso che l’interpretazione del dato viene immersa in un contesto e in una scala maggiori persino di quelli percepiti. Allo stesso modo ragione non viene separata da passione. A una realtà a cui non si può porre rimedio (guerre, peste, carestia) fa da contraltare una natura che tocca il cuore  e la vista rinnovandoli e commuovendoli e dona la spinta interiore per comprendere che il flusso vitale non s’arresta dinanzi alla disgrazia, sebbene immediato segua un riflusso verso l’individuo, il suo ciclo limitato, i suoi drammi personali, la canizie che aumenta e che misura il limitato ciclo esistenziale. Ma ci pare che qui fine e inizio siano solo falsamente recisi, formalmente distanti. Che la simmetria e l’equivalenza del senso che si tenta di instaurare all’interno della struttura poetica siano come dei muretti a secco destinati a crollare, travolti da sommovimenti che non è possibile controllare. La cosa straordinaria è che se pure paiono collegati, inizio e fine, tempo individuale e tempo della natura, il cerchio non si chiuda, nulla vi si saldi.  Resta drammaticamente franto il passaggio dall’uno all’altro. L’equivalenza non si attua, è solo molto più drammaticamente posta quando i termini della questione sono così vividamente tratteggiati (e quale rastremato e cesellato  vocabolario!) e mostrati come inseparabili. Se i monti e i fiumi reggono regge anche calvizie. Nessun annullamento, nessuna diminuzione, nessuna valutazione che minimizzi o che salvi, che funga da stratagemma per l’uscita. Sentiamo che un polso fermo ci trattiene, che ci invita a osservare tutto, a comprendere che nel tutto siamo immersi, anche se non vi è nessun punto di passaggio da una zona all’altra.



Veduta primaverile

Paese in pezzi? I monti e i fiumi reggono.
In città è primavera e il verde è intenso
commossi i fiori propagano lacrime
solo gli uccelli fan fremere il cuore.
Fuochi di guerra duran da tre mesi
lettere da casa valgono più che oro.
Mi gratto la canizie ormai sì rada
che è appena in grado di reggere la spilla*.


(*Per fissare il copricapo dei funzionari)


La pregevole collana “Hermes”, che raccoglie brevi raccolte di poeti stranieri tradotte da poeti italiani contemporanei, viene proposta in 110 esemplari numerati a mano, con litografia.

lunedì 3 settembre 2012

Gilles Clément “Breve storia del giardino” Quodlibet, 2012


In questo nuovo libro, “Breve storia del giardino” Quodlibet, 2012, Gilles Clément cerca di contemplare un dialogo con il giardino nelle sue forme storico-tradizionali e diciamo contemplare, poiché comunque il dialogo sembra fissato in una cornice e appeso al muro. L’ecologista francese vuole affermare con pienezza la necessità per la nostra epoca di proteggere e salvaguardare la terra tutta e non le certo ridicole porzioni recintate che chiamiamo giardino. E non credo esista qualcuno che voglia criticare la necessità di cambiare rotta, di modificare la nostra idea di giardino affinché essa si apra anche verso tematiche che pongano attenzione alla biodiversità, utilizzando solo le forme che ad essa non si oppongano.

Ma quello che proprio non crediamo sia accettabile è come l’amore per la diversità in natura diventi odio per la diversità nella cultura. Ci chiediamo come sia possibile che in nome della natura si chieda di considerare come scellerate tutte le forme del giardino (dai recinti alle aiuole, dai muri alle forma architettoniche ivi alloggiate, e in generale a tutte le forme che nel giardino hanno trovato il loro luogo specifico di attuazione). Siamo in presenza dell’ennesimo tentativo di contrapporre due cose diverse per sceglierne una sola e si pensi soltanto a quella che nel contrapporre l’Occidente all’Oriente, in dipendenza della passione dell’interpretante, ne innalza una come eccellente a scapito dell’altra di cui si rilevano solo orrori (François Jullien, ad esempio, non ne è certo esente).

Dicevamo che siamo assolutamente d’accordo sulle necessità che Clément instancabilmente solleva di salvaguardia e cambio di rotta nella gestione del patrimonio naturale con le conseguenti nuove direzioni progettuali per i giardini. Ma non a bollare come nefaste ed erronee le concezioni che ci ha consegnato il nostro patrimonio culturale (che Clément ridicolizza senza sosta e critica aspramente). Arriva a dire che la storia del giardino non deve essere più ridotta alla storia delle forma, perché la libertà della natura non le tollera. Che la natura non ne può più di essere domata.

Il suo tentativo di invertire la rotta, issando a bordo anche zavorre di cui farebbe così felicemente a meno come l’arte o le forme dei giardini tradizionali,  naturalmente non gli riesce. Certamente sensibile alle critiche che inevitabilmente devono giungergli da più parti, ha tentato in questo libro di non contrapporsi frontalmente a esse. Ma in che modo ha tentato e il risultato qual è stato? 

La sua predisposizione a sentire la natura in tutti i suoi aspetti  gli fa credere che l’aspetto estetico della faccenda non gli sia estraneo e che dal pulpito artistico lui non possa essere tacciato di escludere l’arte, credendo che essa si possa genericamente individuare in un sentirsi solidale alle cose che si amano.  E lo dimostra con quest’affermazione: “Se in questa Breve storia del giardino non è stata affrontata la dimensione artistica, è perché tale dimensione l’attraversa in profondità e fin nei minimi particolari, tanto che sembra inutile sollevare la questione”. E con questo siano serviti coloro che pensano che la forma – la quale testimonia la capacità dell’arte di disegnare le mappe necessarie della nostra consapevolezza – sia capace di trasmetterci interrogativi continuamente nuovi, che in genere durano più a lungo degli scopi per cui sono state create, veicolando così le indicazioni che svelano nuovi orizzonti semantici e che non pongono in maniera dogmatica la verità del giorno. E la verità del giorno propugnata da Clément è l’ecologia come dominatrice dell’orizzonte artistico. E si sorvoli qui sulla famosa posizione implicita che se tutto è arte niente più lo è, poiché appunto la questione è chiusa. Gilles sbarra le porte alle ragioni intrinseche che hanno dato vita alle millenarie e diversissime forme del giardino.

Non gli riesce nemmeno il connubio artista-giardiniere: “L’artista-giardiniere del giardino ecologico appartiene al giardino, il giardino non gli appartiene; non saprebbe mai trattarlo in base a ordini e convenzioni”. Eppure l’iconoclasta Clément  (che critica, definendoli nostalgici,  coloro che invece “di cercare una verdura coltivata in condizioni accettabili per l’ambiente e per l’uomo” cercano un’immagine) ha appena abbattuto la necessità della forma: “Il regno dei viventi non tollera le forme rigide”. Ecco, ci fermiamo qui: crediamo che escludere le forme tout-court voglia dire servirsi delle parole ‘arte’ e ‘giardino’ per svellerle radicalmente.

                                                                                      Rosa Pierno