lunedì 30 maggio 2016

"Il minimo comune viaggiatore", di Vincenzo Mascolo per la rassegna "Poeti all'Isola Tiberina" il 14 giugno 2016,


Nella rassegna "L'Isola dei poeti", che si svolgerà il 14 giugno 2016 alle 19,30 all'Isola Tiberina (organizzata da Roberto Piperno) Vincenzo Mascolo leggerà, in particolare, una poesia estratta da un lavoro intitolato "Il minimo comune viaggiatore". Fin dal titolo si comprende che la materia trattata riguarda la ricerca di ciò che è comune, del principio unitario che regola il mondo, effettuata con il metodo del viaggiatore, sorta di Grand Tour nella cultura, in cui un sogno guida l'utopico disegno: rintracciare l'unità sotto le mentite spoglie della diversità, addirittura dell'aporeticità. Dicevamo cultura perché il viaggio viene raccontato tramite topoi letterari: Dante, Shakespeare, Lucrezio, fanno da sponda all'itinerario. In realtà, Mascolo ripercorre tappe di cui, per essere egli nel secolo corrente, ha un maggior numero di evenienze di cui tener conto, le quali comportano una rivisitazione del ventaglio di posizioni messe a punto, la necessità di una sorta di rifocalizzazione.

Ma prima di parlare brevemente di questa sorta di apprendistato e di elaborazione in proprio, in cui sagacemente il mistero contemplato, tale volutamente resta, vorremmo condurre la vostra attenzione verso il linguaggio morbido e sensuoso, adottato dal poeta, il quale spezza sempre una lancia a favore di una poesia che trasmetta l'articolarsi di un discorso, che non sia data da una serie di immagini che confliggono in un caleidoscopio difficile poi da ricostruire nelle sue individue fattezze, ma che inanelli una pluralità di posizioni, dubbi e articolazioni a corredo di un'ipotesi: poesia riflessiva, civile, di ampio respiro, che squaderna tesi e antitesi e prenda posizione,a favore del metodo.

Nella poesia che presentiamo, il tema verte su un desiderio istintivo, perché non suffragabile da certezze, che il mondo e l'umano essere condividano il medesimo principio unitario. Tuttavia, prima ancora di affrontare la vessata questione, un altro punto ancora ci preme di evidenziare: tale unitario principio esiste ed è la poesia, che in forma di per se autonoma e coerente si pone come modalità di ricerca. E da questa posizione, Mascolo rivolge l'invito concretissimo, al di là della soluzione alle risposte cercate, che l'arte e la scienza possano parlarsi, innestarsi, arricchendo e vieppiù complicando, se possibile, quel quadro che solo può tentare di restituire la complessità delle relazioni e delle sostanze, delle forme e dei contenuti, dei valori etici e del valore della conoscenza.

Sarebbe questo un invito che va proprio nella direzione in cui innegabilmente, e per strade autonome, stanno andando la scienza e l'arte, al di là di quelle schematiche, rigide e sorpassate separazioni tra ragione e sentimento, tra immaginazione e conoscenza che hanno funestato le nostre menti alle prese con le manichee suddivisioni.

Cosi che "tutte le cose visibili non viste", delizioso verso, innestato come una chiave di volta nel totem di parole di Mascolo, siano finalmente presenti sulla carta dello stellato cielo e delle nostre riflessioni.  Che importa poi l'effettivo raggiungimento del traguardo, se già nell'impostare in maniera egregia il problema, non si perdono i pezzi e si può nuovamente rimirare il già visto reintegrandolo con il perso. in fondo, la poesia nasce con questa marca: capacità tecnica di sussumere in se la complessità del mondo. Una posizione che voglia indagare solo con la ragione, perde innegabilmente la visione a cui invece possono partecipare immaginazione ed emozione. Sarà un assommarsi, non certo il vivisezionare che per analizzare trancia il linguaggio nei soli modi del monosemico. Scienza oramai è d'accordo! Forse anche filosofia?

 3.


                   PRESAGI DEL FUOCO


Dell’identità molteplice del treno
- forse, perché no, persino della mia
prima che il mistero rimanga chiuso in me
e il nome mio si sperda fra terra e discendenza –
parlerei con voi per ore e ore
approfondendo con scrupolo ogni aspetto,
analizzandola in ogni disciplina
che l’ha elevata a simbolo e ad emblema,
in un viaggio ideale che percorrendo l’arte
attraversi la psicoanalisi e la scienza
(e lo intraprenderei usando proprio i versi
perché credo in potenza sia tutto la poesia
e tutto possa quindi assumerne la forma,
sempre che una forma è vero che ci sia:
il non detto l’invisibile i fasti del sentire
ma anche i filamenti del pensiero razionale,
il brulicare oscuro di elementi primordiali
che si combinano e si legano tra loro
generando la composita materia
che non si crea e nemmeno si distrugge
ma da sempre di continuo si trasforma.
E’ tempo di vegliare anche noi notti serene,
di ritornare insieme ad osservare il cielo
per raccontare adesso con parole nuove
la profonda densità di quel mistero
che declina la vita dell’uomo e delle cose,
è tempo ormai che la poesia e la scienza
riprendano a parlare con una lingua sola
dei sentieri notturni del loro ricercare
l’immutabile principio originario
dell’eterna infinità dell’universo
e di tutto ciò che è legge naturale.
E’ tempo, sì, è questo finalmente il tempo
di andare con lo sguardo oltre il confine
che ora divide l’umanesimo e la scienza,
e di scrutare la natura delle cose,
tutte le cose visibili non viste,
unificando ragione e irrazionale
ipotesi concrete e fantasia
la logica stringente all’utopia
perché riunendo le due dimensioni,
le due metà che formano il reale
si toccano le viscere del mondo
che come aruspici possiamo interpretare
in cerca dei presagi di quel fuoco
che fu per noi rubato ai primi dei.
Andare verso l’Uno, questo è il senso
condurre all’unità tutto il duale
che ci compone e nel contempo ci separa
corpo e anima, vita e morte, bene e male
notte e giorno, sole e luna, terra e cielo
e chi ne ha di più ne aggiunga se lo vuole
a questo risgranare opposti universali
che si ripete uguale da quando è nato il mondo
dai tempi del big bang e da prima forse ancora
dal tempo in cui non esisteva il tempo
quando era il caos a governare la materia
prima,
  prima dell’ordine del Verbo
che tutto, generando, ha separato.
Di questo ci troviamo a conversare
con il mio amico Gigi nelle giornate estive
mentre cerchiamo di ingannare il tempo
- ma è lui a ingannarci con il divenire -
rimanendo immobili per ore
a misurare con lo sguardo dalla riva
la distanza che divide l’orizzonte
dalla superficie curva della vita.
E se Gigi non mi sta in cagnesco
quando mi attardo nelle mie teorie
vostre eccellenze, non ci manca molto
perché lui abile chirurgo del cervello
è sempre la metà fisica del tutto
che privilegia nel nostro dialogare,
la forma di realtà che già conosce
la più rassicurante, abituale
che non richiede di scavarsi dentro
in cerca della fiamma originale
e come Giovanni Drogo nel deserto
nel corso del mio dire sul duale
asserragliato nella sua fortezza
al confine nebuloso del reale
scruta e riscruta in lontananza i segni
           dell’incedere nemico che minaccia
la difesa del suo credo razionale.
“Il mondo che disegni è molto bello”,
mi ha detto Gigi un giorno sorridendo
scuotendo però il capo lungamente
come a volersi scrollare dal cervello,
da quale degli emisferi poco importa,
ogni residuo delle mie parole
anche le particelle elementari
e la radiazione cosmica di fondo
emessa dalle mie onde vocali,
“la lotta tra gli opposti è suggestiva
e mi rimanda al mare dell’eterno
nel quale forse è dolce naufragare.
Ma io vedo intorno a me dolori atroci
io vedo grande sofferenza e pianto
e torno in quei momenti alle tue voci
sull’unità infinita che governa
la natura dell’uomo e delle cose
e a tutti gli altri tuoi racconti
sull’andare e venire dell’essenza
per unirsi alla coscienza universale
e allora penso che nell’esistenza
noi con la finitezza dobbiamo fare i conti,
è quella la realtà, è lei la nostra sorte,
nessuna tua parola, per quanto luminosa,
potrà mai diradare il buio della morte”.
Ci siamo salutati poi al tramonto
stringendoci la mano un po’ più forte
come volendo apporre nuovamente
  il suo sigillo al libro del mistero
che sfogliavamo poco prima insieme
ma ricordo che ancora dopo ore
ripensando da solo al nostro incontro,
alla voce di Gigi senza incrinatura,
ho sentito più volte risuonarmi dentro
l’eco lontana di quel suo dolore
e nel guardare il cielo della notte
per un istante o forse per mezz’ora
del suo silenzio ho avuto come lui paura)


Cercai la scaturigine segreta
del fuoco che si cela nel midollo
della canna, maestro d’ogni arte,
via che si apre.

(Eschilo, Prometeo incatenato, tr. di Enzo Mandruzzato, ed. Rizzoli BUR)


martedì 24 maggio 2016

I disegni di Georgina Spengler


L'attività del disegno si presenta come eminentemente riflessiva, legata com'è allo studio e alla fase progettuale, apparendo come il luogo di un  ripensamento, pausa di riflessione e ispirazione all'interno dell'attività votata alla pittura nella carriera di un artista. Ed è proprio in tal guisa che Georgina Spengler motiva la presente fase all'interno del suo percorso: momento in cui più spontaneamente, l'artista prende familiarità con le forme e le analogie che la abitano in maniera inconsapevole, fintanto che, appunto, non vedono la luce tramite la pratica del disegno. In tal senso, l'immagine sembra nascere da un luogo maggiormente intimo, ed essere meno incline a una verifica, alla razionalizzazione degli intenti teorici.

La differenza però tra lo schizzo e un disegno vero e proprio, compiuto, lo fa la capacità di sostare, di trattenere l'immagine, di lavorare ad essa per renderla autonomamente espressiva: opera a  tutti gli effetti.  La distanza tra pittura e disegno non è quella tra oggetto rappresentato e schema, è solo una maniera diversa di elaborare l'oggetto, mentale o reale che sia,  coi mezzi espressivi dell'artista. L'artista di origine greco-austriaca si predispone dinanzi al foglio con perigliosità, attende di riconoscere la figura che darà alla luce, pronta ad accettarne l'esistenza, ma per cavare questo risultato deve sottoporsi a sedute che dell'immediatezza non hanno nulla. Questi disegni presentano la medesima pazienza necessaria a opere maggiormente laboriose, come appunti sono le opere pittoriche.

Le carte vengono dapprima usurate,  consunte da  velature di colore, e assumono la consistenza della pergamena con un passaggio di pigmenti ad olio che le rende anche calde, morbide e pesanti. Acquisendo un sembiante che fa loro acquisire un sapore antico, quasi affossate nella notte dei tempi, consentono al  disegno di emergere dalle cavità interiori, non distinguendosi mai, in Georgina Spengler il corpo dalla mente. Il corpo, infatti, anche nell'ultima serie di lavori pittorici a pieno titolo, è sempre presente nei suoi aspetti più misteriosi, mentali: è un corpo che si fa fatica a riconoscere, e solo per frammenti, per isole, come appunto oggetto in emersione. Dunque, i disegni, presentano l'oggetto rappresentato come una sorta di fossile oppure allo stato embrionale,  non differenziabile, per la comune materia organica, da tutto ciò che vive. Si possono, pertanto, distinguere disegni in cui l'animale prende il sopravvento rispetto all'umano, ma non è che ciò attesti un salto di scala. Il quesito rimbalza in avanti per restare in evidenza e non essere banalmente risolto. Ed è anche lavoro di ricreazione, quasi un rimettere a posto le cose, un sistemare, ordinare, in merito a ciò che se ne può sapere o ai diversi gradi di conoscenza che possiamo avere dei corpi in generale. Nei pressi della medicina, come nei pressi della sfera affettiva, il corpo ha un valore da cui non si può prescindere, ma che assume sembianze differenti in relazione al contesto culturale.


Per tenerci dappresso alla pratica del disegno, ritorniamo alla matita che solca la carta e vi scorre quasi nel tentativo di  trovarvi una vena per iniettarvi inchiostro e visualizzare sulla lastra-carta, la traccia, la permanenza, l'impronta della carne. Che l'indagine svolta dalla Spengler mostri lacune nel tessuto epiteliale, smembramenti del ricordo, macchie umorali, impronte e calchi, dice che siamo in presenza di quell'azione paradossale che ha sempre in sé  la conoscenza di qualcosa che ci è noto e ignoto allo stesso tempo. Le immagine brumose, macchiate come dall'iridiscenza dei pigmenti metallici, muschiate o più fluide, anziché svolte come garze che abbiano avvolto membra ferite, declinano verso un'area che trae dal ricordo un alimento altrettanto vivo di quello dei corpi presenti e ci ricordano della mai irrisolvibile scissione tra saggezza e prefigurazione, tra storia ed esperienza percettiva.

                                                                                  Rosa Pierno

martedì 17 maggio 2016

Diego Conticello: la dimessa resistenza nella poesia di Lucio Zinna

Della dimessa resistenza nella poesia di Lucio Zinna. Trent’anni dopo Abbandonare Troia.


Abbandonare Troia (Forlì, Forum/ Quinta Generazione, Collana “Poesia ‘80” 1986), libro cardine nell’intera produzione poetica di Lucio Zinna,  nato qualche decennio dopo l’acceso fervore degli avanguardismi – Lucio Zinna in quegli stessi anni flirtava con l’avanguardismo palermitano riconducibile al Gruppo 63, tuttavia mostrando quell’acuta intelligenza critica che, per sua stessa ammissione, lo faceva stare «con un piede dentro e uno fuori». Aveva dato vita al Gruppo Beta (nel 1965), interagendo però «dialetticamente e non pedissequamente» con quei propositi di rinnovamento che venivano dai Novissimi, rifiutando nel contempo di aderire al costituendo Antigruppo: «Si faceva più teoria che pratica della letteratura. Condividevo l’opportunità di un sommovimento sul piano formale, mentre rigettavo il puro formalismo, così come la teoria dell’identità tra ideologia e linguaggio.» –, rappresenta il raggiungimento delle vette espressive più autentiche nella poesia dell’autore siciliano (Mazara del Vallo 1938) per il suo amaro sarcasmo, per l’indignazione allo stesso tempo pacata e pregnante,  per l’uso centellinato e corrosivo della citazione letteraria e del prestito linguistico, per la ‘malinconiosa’ meditazione sul metaforico incendio distruttivo appiccato da qualche tempo al reale, che comporta l’incenerimento di qualsiasi valore. Il poeta pensa per un attimo di fuggire da questa perdizione e tuttavia preferisce ugualmente rimanervi, saggiando sulla propria pelle la sconfitta d’ogni giorno, la morale messa al rogo. Davanti ad una ideale biforcazione Zinna sceglie la strada infangata, il percorso accidentato che lo costringe a raccontare le difficoltà del vivere, evita insomma di rifugiarsi nell’idillio, nel lirismo puro e trasognato, affronta ‘di petto’ il marciume dell’esistenza opponendovi la fiera, pervicace e tagliente sciabola dell’ironia (si legga a tal proposito uno stralcio dalla poesia Il bivio).
E nonostante le coordinate imprese le ferree
volizioni le strategiche inquadrature ad ogni
bivio reale rivendica il caso il diritto ad una
compartecipazione alle scelte.
[…] Opera tu per la tua parte
mettiti in guerra la coscienza – insisti stringi
i denti – per il resto (sia chiaro) la vita
è vita e va (per la sua parte) dove la vita vuole
nei parametri suoi sceglie discreta a volte brutale
e all’improvviso arruffa sconvolge come un sisma
c’è una Scala Mercalli del vivere con cui
si ristabilisce il gioco delle parti il misto imperio.

Dopo le pause quasi idilliache di Sàgana (Crotone, Il Punto P.L.A. 1976) Lucio Zinna ritenta in questo volumetto, con effetti sorprendenti, la carta dello sperimentalismo polisemantico, sfruttando in maniera più consistente la citazione culta che, nel gioco parodistico della giustapposizione ironica, determina un ribaltamento del significato in direzione elegiaca (qui sotto uno stralcio da Odore di acetilene).
[…] Venti lire non erano
molte (poche neanche a quell’epoca) per considerare
nostra semenza. Si sgranocchiavano serate blu
e nostalgie campestri un seme appresso all’altro
in solitudo paesana la mente a vagare su trascurati
compiti di scuola su aggrovigliate vicende di Montepin
(«Il medico delle pazze») extravaganti evasive o su una
fanciulla sempre intravista avvicinabile mai…

Qui all’evidente citazione dantesca si sommano la ripresa latineggiante, oltreché il riferimento al romanzo d’oltralpe. Inoltre il passo è tutto giocato sulla meravigliosa sinestesia (serate blu) e sull’effetto straniante dello zeugma (Si sgranocchiavano serate blu e nostalgie campestri). Lo stile colloquiale attrae il lettore, immergendolo poi nello straniamento dato dagli ossessivi ‘ganci’ letterarî. Spesso Zinna propone anche il gioco allitterativo per creare tensione nella sintassi, allentando subito dopo il laccio con la sinestesia che apre il dettato al lirismo (Il bacio).
Intangibile fontana di riccioli occhi plenilunari
compagna di scuola selenica e soda (arcana ti girava
una qualche tristezza) a quel tempo in quei luoghi era
impresa l’amicizia qualora il sesso non fosse avverso
(già parlarsi con gli occhi era mezza avventura). Ebbi
(mite – parsimonioso) permesso di venirti a trovare
per catilinarie coseni / covavo un desiderio impudico
che presagivo condiviso come quella strana malinconia
da stradivari […] o compagna di scuola selenica e soda
leggera come la mariposa fiore di spina fiore di rosa.

L’uso della citazione diviene talvolta, come in Ridi pulzella, vera e propria parodia continuata di cui il poeta si serve per imbastire un personale ricordo-divertissement di matrice leopardiana.
Mi ridi pulzella appena invasa da un fremito dolce
te a te stessa celando. Si chiude un’esile epopea
di sguardi troppo orientati altrove («meglio di così
non riesco a guardare non guardando») mentre
per il limitare di gioventù spavalda e mite
con un confetto-camicia e bianchi bermuda t’inerpichi
io ridiscendo giorno secondo giorno a filo di capello
a diottrie a tenui zampe di gallina (che un velo
di emulsione pantèn – dicono – infrenerebbe) mi si
riduce il verde foglia a foglia. Ti sorrido connivente
e distanziato. Lascio le sudaticce carte e ti coltivo
                                  stupendamente viva in faccia al mondo.

Zinna è poeta che mal sopporta l’esibizione egotistica per questo, secondo Raffaele Pellecchia (La possibile resistenza nella poesia di Lucio Zinna, in Con le parole/ oltre le parole. Saggi di letteratura contemporanea. Pesaro, Edizioni Metauro 2006, pp. 329-340) utilizzando «[…] la tecnica della citazione parodiata e sottratta all’aura del contesto obbedisce di fatto, ad una sorta di pudore e di decenza, offrendosi come filtro di una soggettività che rifugge dalla teatralizzazione della sua sfera segreta».


Lo scarto, direi ai limiti dello scandalo morale, è feroce quando il poeta mescola – qui nella lirica Ne pollantur corpora – accenti opposti e diversissimi tra loro, ottenendo un violento effetto dissacrante.
Dentro mi sei come spina rimasta balestra
dei miei sogni intonso pube.
[…] Il fondo pallidi recò
sedimenti ascensionali e nella sbucciata
immagine di te – tu carponi – idolatra
offersi su quell’ara (oh quale) di linfe
un’ecatombe.

Si noti l’uso stridente del titolo latino, che peraltro deriva da un’opera di Prudenzio, l’Hymnus ante somnum, nel Cathemerinon  (Inni della giornata); proprio dall’autore cristiano Zinna riprende l’intitolazione: «Affinché i nostri corpi non siano contaminati» rovesciandola sarcasticamente.
Nella poesia che dà il nome alla sezione, Scartabello degli attimi invenduti, riprende la vena sperimentalista che fa giungere Lucio Zinna a risultati che ricordano la poesia visiva, molto in voga in quegli anni, di un Lamberto Pignotti o di un Emilio Isgrò: adesso il fare lirico stride fortemente col linguaggio tecnico.
                   un sentore d’alba i tuoi occhi nella città malata
(s’erano appena accese le luci dei lampioni l’asfalto
tremolava di minutissima pioggia) era il futuro
un lontano vivido ricordo da coltivare ancora

[…] Ci sarebbe così per Tesnière una traslazione
che produce (un’A la simboleggia) la funzione
aggettivale nella proposizione «appartiene al padre».
L’analogia profonda tra «paterna» e «che appartiene
al padre» e al tempo stesso la (superficiale) loro
differenza sarebbero rappresentabili per mezzo
di «stemmi». Ovverossia

(Lo stemma linguistico inserito da Zinna è derivato da O. Ducrot – T. Todorov, Dizionario delle scienze del linguaggio. Milano, ISEDI 1979).
Talvolta vengono descritte scene che di primo acchito potrebbero sembrare futile intermezzo scherzoso – come nel caso del componimento Uccelli del viale – ma che tuttavia nascondono intense considerazioni in margine ai disastri perpetrati a danno della natura da interventi iper-progressisti.


Abbandonano gli uccelli l’anticrittogamica campagna.
Attentàti da diserbanti e bracconieri emigrano
con celeste meridionalità e s’inurbano.
[…] stazionano sui rami con disinvolta discreta vucciria
volano a folte squadriglie sui tetti perlustrando.
Sistematici rivestono marciapiedi sedili di un bigio
escrementizio bersagliano cofani pellicce incomparabili
aerei cecchini.
[…] Sorge un’era di urbanesimo ornitologico un pennuto
sessantotto si profila…


Il divagare per memorie letterarie affiora sempre improvvisamente, fungendo talvolta da vera e propria citazione manifesta: in Memoria di scirocco Zinna riporta alcuni versi di Lucio Piccolo, creando un’affinità emotiva che lo conduce a far rivivere uno scorcio non diversissimo per sensazioni dallo Scirocco dei Canti barocchi.
La siciliana arsura dell’estate parafricana
coloniale si stempera con douceur al primo
autunno (qui – come tutto – tardivo) in questo
novembre già così sufficientemente malinconioso.
Bevo le prime celesti gocce e m’assaporo
l’odore bagnato della terra il lucido dell’asfalto
la rarità del grigio in cui s’inglobano Piazza
Politeama i pizzardoni ormai di nero con tanto
di casco a pera – in un innaturale frammento
londinese. […] L’ultima sciroccata
i giorni biblici (43 all’ombra) prima che si movesse
per il Casentino vogliosi d’altre atmosfere («siamo
in una conca una settimana così rastrema mesi
d’energia») il treno proiettava di campi riarsi
un giallo vangoghiano – un’ora fermi non so dove
per un accenno d’autocombustione ai margini
della ferrovia – affioravano versi di Piccolo
con la sua esatta scienza di poeta («di virgulti
fa sterpi, / in tromba cangia androni, / … ghermisce
le foglie deserte / e i gelsomini puerili»).
Anche l’autunno è desertico anche l’inverno (ci salva
la nostra coesione un singolare modo di tenerci a galla
persino la zuppa di fagioli che ci attende stasera).

Nella terza sezione del volume, Lamentazioni d’Orfeo, i toni si fanno più accesi e risentiti, il verso acquisisce connotati ‘civili’ di manifesta indignazione. Il poeta esce per un attimo dall’universo delle memorie, accordando lo strumento del disagio, per poi intonare uno sfogo composto  e dignitoso sulla perdita della civiltà (qui delineato in Resistenza).
Imparo ogni giorno a costruirmi questa vita
contro visibili storture sotterranei tentativi
di sopraffazione spesso disancorato cerco
rammento propongo ampliamenti progressivi di umani
spazi ulteriori conquiste di civile dimensione.

Fido nella memoria. Altra funzione non v’è
che sia così cosciente così controllata così
di sé consapevole (Galluppi). Vigile memoria
di sconfitta barbarie. Quando si vede il nero
proclamarsi luce ordine il caos quando la filosofia
della morte violenta pretese gloria nei secoli
fu obbligo – e sacrificio – lo smascheramento.

[…] Coltivo un’utopia di nome libertà. Uomini e idee
andare sicuri nel mondo. Una possibile
utopia. A volte stringo i denti urlo se capita
difendo mi difendo continuamente resisto.

Questi versi fanno comprendere, per dirla con Antonino Contiliano (L’ironia nell’opera poetica e letteraria di Lucio Zinna. «Libera Università di Trapani» 23, anno VIII, novembre 1989, pp. 145-152) quanto
[…] la capacità poetica e letteraria di Lucio Zinna di utilizzare lo strumento linguistico, con la misura e l’architettura di chi ha un habitus di “preziosa e ironica curiosità”, è di notevole fattura, e che l’impiego dell’ironia-interrogazione, indagine, euristica, ermeneutica, va oltre il soggettivo psicologico e il contemplativo nostalgico o disincantato del nostos o “ritorno”, e che la sua poesia non può essere chiusa entro i confini positivisti dell’espressivo.

Il motto che fa da sfondo a questo ‘lamento’ è lucido e disarmante: «e poiché non offendo m’è dura fatica il perdonare» (da Frammenti per le creature).
Il fulcro-tarlo della poesia di Zinna è certamente la memoria, a cui si associa il motivo dello scorrere inesorabile del tempo che, come accade costantemente anche nella poetica di Lucio Piccolo, preclude ogni possibilità di costruire la dignità umana, nella cui mancanza di utopie si realizza un ineludibile ‘spreco’ del miracolo dell’esistenza. Si legga a tal proposito questo confronto tra Tabes del nostro e due liriche, Le Carte in cammino e Gioco a nascondere, di Lucio Piccolo.
E le ore dissolte nel quotidiano da noi a noi stessi                    […] e i giorni mutano volto
rubate (come a noi giammai appartenute) dal ricordo               e muta volto la vita
imperfetto poi riassunte nella memoria da un’immagine          i quadranti dicono i segni
un gesto – e tutta vi consiste una fetta di vita.                           degli impossibili ricorsi
Spesso sono eventi improvvisi a segnare pietre miliari             nell’eterna dipartita.
nella carreggiata di ciascuno.
                                                                                                   […] e la rete dell’ombre sui banchi
[…] Per ora ci accomuna un costante spreco di noi                  vuol chiudere i fantasmi dell’ore
un pervicace sfascio di tutto la premura infiltrata                     che non sono, che non saranno:
nel midollo. Anticontemplativo irremovibile                            i giorni sono stanchi
questo nostro presente questo impercettibile approssimarsi      sebbene i rami in fiore.
all’attimo che ci rende imperpetuo il moto definitiva
la stasi impietoso il dissolvimento d’ogni fattezza.                   […] e noi trascorriamo inerti spoglie
                                                                                                   d’attimo in attimo, di flutto in flutto
Resta (perplessa) la speranza di uno squarcio                           senza che ci fermi il giorno
aperto nell’ignoto. Che una rigida ragione non precluda          che sale o la luce che squadra le
spazi che non sono di memoria.                                                                                             [cose.


Secondo la ‘filosofia’ di Zinna anche l’evento improvviso può determinare la direzione vitale d’ognuno, finché non subentra l’ineluttabile avvicinamento all’attimo in cui ogni cosa si dissolve nella fine.
Entrando più a fondo nel proprio ambiente di vita (il riferimento obbligato è alla Sicilia, ma l’inferenza è universale), Lucio Zinna, in Sudità, enuclea un sottile ragionamento sull’atavico fardello che investe la mentalità ‘meridionale’: una sorta di sudditanza psicologica; riflettendo argutamente sul fatto che i cosiddetti ‘mali’ esistono ovunque e che bisognerebbe seriamente stigmatizzare questo ancestrale senso d’inferiorità che conduce solo ad una malata ‘autocommiserazione’.
Chi disse si debba eternamente piangere il peccato
(così scarsamente) originale di questa oltranzosa
sud-ità irremovibile sudditanza implume vecchissima
insularità da viversi sulla pelle come nigritia.
Chi vuol essere geronimo sia. […] Più non è tempo d’auto-
commiserazioni semmai di segnare altro lamento
(che basta coi lamenti) che ha d’esser convien sia.

Esistono le mafie ed i fascismi e sono planetari
e sono mascherati esistono ascari e colonizzatori
ogni speculatore ha portamento signorile la calma
è la virtù dei provocatori. Siamo un (generoso) popolo
di oppressi ed oppressori siccome in ogni particula
mundi ci coglie sino qui il montaliano male di vivere.

Per quanto mi concerne – Marina – ‘i mi son un che quando
il sole picchia ne riceve fastidio e non s’abitua
[…] resto imbevuto di continentale letteraria
cultura secondo l’aspetto climatico-geografico mi configuro
uomo del nord (Sicilia mio nordafrica) né mi cale se tu –
così soavemente lombarda – sia donna del sud (del
                                                                  sudeuropa intendo).

Al di là delle frasi trasformate sulla base di citazioni da Lorenzo il Magnifico a Dante, da Leopardi ai proverbi è da notare, ancora una volta, l’intromissione dell’elemento divertito a spezzare le trame dell’invettiva.
Il poeta riesce a creare argute composizioni, ancora sul versante satirico, tutte giocate sul conio di estrosi neologismi, forse ultime reminiscenze neo-avanguardistiche: «Recito controvento controcampo controgloria./ Ridopagliaccio e infarino (a volte m’incavolo/ e dice Elide mi si potenzia l’ironia)» (da Controcanto); oppure in A volte qualcuno rimane, attraverso una disinvolta struttura metaforica continuata,
Di poesia mi reputo un antico drogato

(Iniziai per solitudine a quattordici anni
con spinelli in terzarima a sedici mi bucavo
versisciolti più tardi m’iniettai – quel tanto –
parolibere in esperienze neoformaliste)

Da tempo mi coltivo (solitario) la roba
non soffro crisi d’astinenza evito cauteloso
l’overdose

M’affratello ai clandestini della parola
ai tossicopoesiomani ai liricodipendenti

agli indifesi in più plaghe temuti dal potere
mentalmente perquisiti destinati a campi
di deconcentrazione

È canapa indiana la parola e cresce
in terra di libertà parola trasmutata
risignificata – vena musica fionda – era
in principio

[…] (A volte qualcuno rimane accartocciato
in un angolo accanto a versisiringa a volte
poeti si muore)

Raffaele Pellecchia, nella prefazione al volume, sottolinea come dato pregnante
la presenza di un pluralismo […] che investe tanto la sostanza lessicale quanto la strutturazione sintattica e contestualmente l’effetto tonale del discorso poetico che, tuttavia, conserva, come suo segno distintivo, un abito di preziosa e ironica curialità. Una sorta di aura domestica si diffonde tra elementi sontuosi e raffinati, senza provocare stridore kitsch né tendere a esiti dirompenti e corrosivi.

A me pare più esatto parlare di ‘eclettismo’, visto che Lucio Zinna tenta costantemente di recepire quanto di meglio possa offrire ogni registro linguistico, ivi compresi certi particolarismi verbali delle avanguardie; ciò che effettivamente provoca stridore è invece il modo in cui la pacatezza dei toni riesca ad aumentare a dismisura il quoziente icastico ed urticante del messaggio. Esempio emblematico è senza dubbio Sessantacinque versi per il treno della Maiella, poemetto conclusivo della silloge dove il poeta, s-travolto dalla distruzione che imperversa nella sua amata/odiata Palermo-Troia, coltiva l’anelito ad un definitivo ‘abbandono’ che provochi una rinascita-sospensione nella bellezza, annullando di colpo i contrasti del mondo.
Filtra lento un senso angoscioso di quiete.                            
Piantare tutto. Allogarsi da queste parti                                  
con la sacra famiglia nel più remoto villaggio                        
mettersi in pensione anzitempo vivere del minimo            
prima che entrino falsi cavalli abbandonare Troia                
con semafori zebre ciminiere mitragliette skorpion            
e kermesses mondane e sindacati autonomi e confederali  
e impossibili scuole (elefanti di mala educazione              
di presunzione e droga) recidere i fili                                  
coi tossici milieux culturali                                                        
di questo molle-agonizzante impero.                                  
Comprimere la fretta rallentare i gesti                                
reinventarsi le albe e i tramonti.


                                                                 Diego Conticello

martedì 10 maggio 2016

Anna Toscano "Una telefonata di mattina", La vita felice, 2016


Per quanto piano e semplice l'andamento versificatorio, quasi epigrammatico, non si ceda all'impulso di scambiare l'elenco di oggetti, inseriti in una sintassi paratattica, come un procedere che appaia  opposto a un ordine spazio-temporale, quanto, piuttosto, come alla predisposizione di una scenografia: "Tavolo di marmo chiaro / deboli zampe di legno / briciole sparse sul piano / un piatto colore aragosta / posate spaiate".  Anna Toscano nel suo ultimo libro "Una telefonata di mattina", La vita felice, 2016,  disegna dapprincipio la scatola teatrale in cui far dialogare i propri sentimenti,  persone, animali, cose, ma per raggiungere prestissimo una straordinaria cifra contraddittoria, in quanto la consapevolezza del valore, dell'aver compreso ciò che si svolge sulla scena, viene sempre dopo, quando il teatro si è oramai svuotato, in una sorta di costante sfaldamento dei tempi.

La collisione vita-morte raggiunta per questa via modifica quella che in un primo tempo si crede poesia delle cose semplici, quotidiane, privilegiante la parola emotiva, in una poesia della riflessione metafisica tout court, la quale separando il bene dal male, classificando le cose importanti, ristabilisce una scala di valori del tutto individuale che resta avvinghiata agli oggetti, come avviene appunto nella metafisica di impianto aristotelico, e mai se ne distacca se non per farli diventare risicata astrazione: schema. Una revisione che tradisce, però, un certo scetticismo sulle modalità percettive (sempre innervate da ragione e passione) le quali appaiono tanto inestricabilmente connesse quanto separate: forse questo è il compito più gravoso: non si può mai mettere ordine, nemmeno in un elenco che non necessita di catalogazione,  nemmeno con un procedere lento, con dispositivi che ricordino quasi le strettoie del sillogismo, in una finta limpidezza (con colori metallici o vivissimi come sono quelli artefatti del ricordo nell'età che avanza).

Scetticismo perché non si comprenderà mai a sufficienza che il presente è il tutto, raggiunto focalizzandosi su tutti i tempi possibili, immaginabili persino, e proprio mentre si enumera una percezione afferrata istante dopo istante.
Persino l'amato passato, nel quale allignano familiari o personaggi presenti a vario titolo, diviene un fondale del tutto relativo, disegnato com'è dall'oggi,  anzi, solo da esso derivando virulenze tenere o nostalgiche mancanze.  La percezione non solo registrata per via visiva, ma anche uditiva: "televisioni che cambiano canale / lavatrici in centrifuga / qualche chiodo sotto un martello", con il corredo delle sue illusioni e delle sue certezze, fa scrivere ad Anna Toscano di "essere ovunque e in nessun posto / la domenica pomeriggio". Attenzione uditiva che si trasferisce integralmente nella definizione dei versi contenuti nella seconda parte della  raccolta "All'ora dei pasti", dove la rima diviene espediente o sinonimo di gioco e l'elenco diviene strumentale a una fuga: "lasciami stare silente / tra le braccia di un amante clemente". E, dunque, Il bilancio, ha sempre valore positivo: "cerco un pertugio dove trovare / l'ovvietà della decenza / come uno specchio oblungo / infallibile nel suo porsi", nonostante che la ricerca dell'equilibrio tra ragione e passione, tra percezione e concetto,  sia impossibile, come nella poesia "Ho guardato":

Ho guardato a lungo
la screziatura arancio
della fiamma violetta
ho contemplato la pentola alta
i suoi manici consunti dal calore
pensavo che io fossi come loro
arsa dal caldo della rabbia
brucia le energie squaglia le idee
sfoca la ragione rivolta l'anima
il rosso del ferro del fuoco
si accende e si spegne calmo
e il mio braccio prima bianco

lungo affusolato poi grossa torcia tozza

sì perché, ho messo un braccio
dentro la pentola
dell'acqua bollente
fino al gomito
pensavo fosse un attimo
e poi nulla
invece ho sentito tutto
su di me
Il dolore  che mi hai lasciato

Che sia, quella di Anna Toscano, una poesia impregnata di filosofia della percezione è manifesto per il modo in cui riporta alla mente certa prosa beckettiana, in cui, appunto, il linguaggio appare come svolto, disteso, ricondotto alla prosaicità del tempo esistenziale. Che allora il linguaggio ridiventi il dispositivo capace di sintetizzare in sé la non componibilità del reale, si palesa, allo stesso tempo,  chiave di lettura: che cosa sarebbero, infatti, le cose senza il linguaggio, come sistemeremmo la molteplicità delle sensazioni?

Quando il sole

Quando il sole
era luce
chiamavo le cose
con il loro nome.
Ora che la pioggia
non ha acqua
le cose
non hanno più un nome
sono solo cose

Persiste, in ogni caso, un certo disagio per la trasformazione che determina la non coincidenza delle cose ricordate con le cose presenti, un'incomprensibile modificazione che senza cambiarne l'essenza incide tuttavia sulla sostanza, ecco individuato un'altra antinomia, alacremente attiva in tutta la silloge.

Se la paratassi crea un effetto stilistico di velocità e immediatezza comunicativa, tale effetto viene annullato dalla chiusa che segue immediata e fulminea, avente sempre il valore di una meditazione. Pertanto,  anche se, ad esempio, le  città sono restituite attraverso un elenco di luoghi e suoni, esso  si conclude sempre con un punto fermo, quasi un guardare all'altrove dal medesimo punto, quell'io che è il più insindacabile dei risultati, emerge, infatti, dalle pagine come l'appiglio cartesiano di colui che fra mille percezioni è in grado di afferrarsi a esse come a un'ancora che assicuri la sopravvivenza. Ma che soprattutto dia, al tempo stesso, voce alle componenti tutte dell'umano essere, in modo inderogabilmente paradossale.

                                                                           Rosa Pierno

martedì 3 maggio 2016

Marco Furia su "Il guardante e il guardato" di Angelo Andreotti

Il guardato guardante

Sotto il titolo di “Il guardante e il guardato”, Angelo Andreotti presenta numerosi racconti in cui l’attenzione per il dettaglio, lungi dal chiudersi in se stessa, tende ad assumere toni evocativi ampi e imprevedibili.
Nell’estrema precisione alberga l’indefinibilità?
In questo caso, la risposta è affermativa.
Cito ad esempio:

“La notte assomiglia alla luna.
Lui guarda.
Osserva dalla finestra spalancata quell’incavo dai
sogni di mille insonnie, quell’incavo che già è mano aperta e
addolcita carezza.
Poi ascolta”.

La propensione a raccontare appare evidente anche se la pronuncia, non proprio ortodossa, in cui “la notte” è descritta quale somigliante “alla luna” attenua simile attitudine: il mondo, per il Nostro, è, almeno per certi aspetti, narrabile.
Il mondo in generale o quello specifico di chi scrive?
Direi ambedue, perché il reale e la percezione (con le sue implicazioni emotive) sono entrambi presenti in una sequenza come:

“L’uomo versa del caffè per sé e per lei. Prende le tazze e
le porta sul tavolino tra le due poltrone. Dice qualcosa che fa
sorridere la donna. Il sorriso è dolce e piega le rughe attorno
allo sguardo, e lo sguardo accarezza il volto smagrito dell’uomo
che accoglie quel dono con espressione giocosamente arcigna”.

Oggetti esterni e stati interiori non sono distinti tra loro in maniera assoluta: la realtà non è mai separata del tutto da noi, perché, in ogni modo, siamo noi a osservarla, a valutarla, a viverla.
Da qui il tono evocativo di cui parlavo all’inizio: un tono che dall’attenzione per il dettaglio trae la consapevolezza dell’esistere.
Non mancano tratti in cui il normale approccio logico pare stravolto:

“Lui, questa strada, la conosce. Non sempre la stessa strada
porta alla stessa meta. Non sempre le mete hanno pazienza”.

Il senso della direzione, per Angelo, non sempre è univoco, sicché “la stessa strada”, se la “meta” non ha “pazienza”, non conduce nello stesso posto.
La “meta” viene personalizzata e la sua ribellione porta a un allucinatorio scompiglio.
Ma anche quando la scrittura sembra percorrere gli usuali itinerari (si veda, ad esempio:
“Ha raccolto i capelli dietro in una crocchia. Il viso è più
illuminato, le belle guance raffrescano lo sguardo che sembra
più ampio”),
ossia anche quando le parole paiono susseguirsi secondo il comune ordine, qualcosa chiama fuori da fuori.
Si tratta di un’ineffabile energia che emerge tra e nei vocaboli, energia di cui l’autore è ben conscio e di cui rende linguistica testimonianza: per lui l’arte del racconto non consiste nel semplice rappresentare, bensì nell’essere con tutto se stesso in un guardare e in un dire che, pur mantenendo le proprie specificità, tendono a coincidere nella dimensione ulteriore di una scrittura articolata e originale.
In simile àmbito, le percezioni visive e le parole si sviluppano secondo sequenze in cui gli ordinari modelli vengono modificati con creativa attitudine non immemore, a mio avviso, di certe esperienze della letteratura francese del secondo dopoguerra (nouveau roman).
Attentissima e illuminante la prefazione di Flavio Ermini.

                                                                                                  Marco Furia



Angelo Andreotti, “Il guardante e il guardato”, Book Salad Editore, 2015, pp, 149, euro 14,00