martedì 27 dicembre 2016

Tre poesie inedite da "Crete" di Laura Caccia,1991




Modellare, dare forma, sono azioni, ma l'oggetto che le subisce è l'io. È un io che però resiste, ostacola la neo-formazione del sé: "non sa farsi materia", non è duttile, si crepa, fino a frangersi, tale urto conservandolo nella viva carne. Ogni respingimento è un'impronta che lo mette a nudo, svelandone la fragilità, tuttavia non fuoriesce sangue. Eppure, come non vedere che la forma crepata, fessurata è quasi assimilata a un oggetto artistico, e che se non equivale a una mera estetizzazione del soggetto, si pone, rispetto alla realtà, in ogni caso come un oggetto prodotto. Che non vi sia estetizzazione del soggetto è dato dal fatto che egli è assente e che, frattanto, tutta l'operazione è avvenuta tramite linguaggio e solo nel linguaggio. Lungi, quindi, da quella corrente che vede nel linguaggio l'unica realtà, Laura Caccia disegna un essere che è imprendibile sia con i lacciuoli linguistici sia con quelli artistici. Con l'addentrarci nella lettura delle tre poesie inedite, tratte da " Crepe", vediamo che assedi e agguati, stermini e presagi di lutto si verificano tra forme inservibili e scorie: siamo nel regno dell'inanimato e non vi è "neppure nell'aria / un consenso tra cose complici" a negare, appunto, la possibilità di convocare effettivamente sulla pagina ciò che è umano. I calchi, manichini di calce viva - unica possibilità di rinvenire ciò che ricorda il vivente - sono sparsi in un paesaggio a sua volta formato da materie frante. Tutto ciò che appartiene all'esistere si è tramutato in cocci. Il luogo d'esercizio del soggetto - la sua coscienza - è una sorta di laboratorio disatteso ove la pelle è diventata greto, la materia maceria, mentre i guadi sono ostruiti e la luce concorre a disseccare ancor di più il prosciugato paesaggio. L'essere resta totalmente fuori dal linguaggio, quest'ultimo non è in grado che di afferrarne un franto calco.



(sedimenti)

                                          non sa farsi materia 
nei crateri dell’aria tra i detriti
rimasti sulla soglia

l’impasto che accoglie tra le mani
cumuli di spartiti

                                        nel rovescio delle cose
sedimenti ogni impronta a nudo


                                       dentro il suo calco inaspettato 
il rimosso di crepe un crepitare
muto di ombre

                                     dove si accalca 
la realtà affonda i suoi copioni
nel magma informe

                                   da cui straripa assente da sé    
riversata nei nomi          






(crete crepe)


                                come se tutto 
si facesse anonimo le piazze gli episodi

in odore di crete crepe d’ombre 

al suo esordio il finito
                                a fuoco di stragi al rallentatore

tra stermini presagi lutti a nidiate
la nostra parte 

            di folla in agguato tra gli assedi 
                               e quel che affiora

in questo scavo profano
                              in scorie d’anime così da rendere 

grumi di scena a ritroso                                                         
                              neppure nell’aria                            
                un consenso tra le cose complici    
                                      
al minimo indizio prezioso 
                                                            





 (la tela mancina)


in cerca di inizi nel vacillare 

            reciproco non la pietà convinta 
                                d’oscuro al guado 
delle sue controfigure
tra le promesse che rivolge muta

a ogni senso la tela 
                             mancina 
           il movimento in prima battuta

è maceria materia
di fragilità su cui si appanna il respiro 

                            rientrando 
           dalle impronte al greto della pelle 

a calce viva in ogni sbavatura

                          di buio tra le screpolature 
del colore
prima che la luce asciughi



mercoledì 21 dicembre 2016

Alechinsky





Invocare la spontaneità, la libertà sembra una cosa fuori luogo. I mostri che prendono corpo sulle pagine, col relativo corredo di trattini ripetuti al fine di donare loro un fondale di esotico stile, certe volute che si aprono in orifizi senza fondo o certi grovigli vegetali indistricabili menano innanzi una pudica verità: il disegno non si può scindere dalla narrazione.

A riprova, quella necessità costante d'introdurre la scrittura, di disegnare su fogli già stampati o di inserire disegni consequenziali in bande che contornano l'immagine centrale, e che valgono come  il viatico per un racconto che non può svilupparsi oltre.

Teatrini e serpenti piumati sono più un simbolo che un narrato testo e reclamano l'urgenza di legarsi a uno svolgimento seriale.

Le silografie dei libri più belli del mondo sono dietro l'angolo, risiedono perennemente sulla coda dell'occhio, sono incise sul palmo della mano.

Le figure occasionate dal testo già stampato, come la donna nata dalla presenza di parentesi graffe o la scimmia che serve frutta e conto assieme, si radicano in un mondo dove le storie sono create dalla contiguità tra testo e immagine. Storie che appaiono congruenti solo attraverso la loro prossimità.

"Sono tutti là" sulle due pagine aperte del taccuino: squadernati a bella posta, attori convocati per tutte le possibili storie del mondo.

Il tratto fumettistico non induca in inganno sulla possibilità reale che una tale assemblea si coaguli, si muova seguendo un ordine. Le tacche, inoltre,  riempiono gli spazi bianchi ancora agibili, rarefacendo lo spazio a disposizione. Fa caldo nella sala, le voci si accavallano.

Ogni immagine, figura, tratto è legata visceralmente a una parola, a una frase. L'artista insegue il lestofante fin nell'angolo estremo  del foglio.

Il paesaggio, incantevole, luna alta sulla falesia, che discende, precipitando, dalle xilografie giapponesi, ci mostra un artista consumato, strenue negatore dell'improvvisazione.

Il gattino stampigliato sul foglio pretende un cane-drago che lo minacci e che non s'accorga che il piccolo felino non fa una grinza, né arretra.

Una storia per immagini non ha capo né coda. Non si snoda, si assembla, si accosta e si allontana. È fatta di inserti che non hanno attinenza, di disgressioni astruse e cambi di scala, di alterazioni spaziali e temporali: non è certo una storia quella che il pennello infilza sulla punta!

Le trame dell'inchiostro, il tratteggio che diviene curvilineo e si aggroviglia, si assembra in membra, si discioglie sui pendii in neri rivoli, racconta uno stato vorticante della mente.

Un disegno ha spesso una cornice, ma non sempre ha il soggetto al centro. A volte, c'è un paesaggio e nei riquadri laterali qualcosa viene registrato nei suoi moti tellurici. Il personaggio principale resta aggrappato sui bordi esterni.

Si vede la nave sulla linea dell'orizzonte, poi nell'occhio della tempesta e ancora un particolare ingrandito dell'ondoso mare. Tuttavia l'immagine è una sola.

Nei riquadri che circondano la figura centrale, e che fungono da cornice, è replicato il medesimo oggetto visto da altri punti di vista, ma ora dislocati in un continuum temporale. È la moltiplicazione dell'immagine. È l'immagine che non ha più centro.

                                                                                     Rosa Pierno

martedì 13 dicembre 2016

Gilberto Isella "Acque aperte acque chiuse", Il robot adorabile, 2016 con un'incisione di Adalberto Borioli




Come cogliere meglio l'essenza dell'acqua se non quando se ne avverta la mancanza, nel deserto, nel miraggio che da esso fluisce, denso quasi come mercurio? In questo modo sgorgano le undici poesie del pregevole libretto di Gilberto Isella "Acque aperte acque chiuse", Il robot adorabile, 2016, contenente un'incisione  di Adalberto Borioli, il quale sembra, a sua volta, replicare il tema del rispecchiamento, dell'inversione di un'identità non afferrabile nemmeno nell'originale.
Non si può, per Isella, dire acqua senza dire resto del mondo, le sue mille sembianze, la sua diramata presenza. Ma assenza d'acqua vuol dire anche invisibilità, delirio, regressione a uno stadio prossimo alla sparizione di ogni cosa. Da quella conca accecata che è il deserto - occhio del mondo senza pupille - si diparte la visione mentale, la vena immaginifica assumente il miraggio non come mancanza di realtà, di verità, ma come se esso fosse cosa fra le cose. Dinanzi agli occhi sfilano le subitanee involuzioni dell'acqua metamorfizzata negli esseri che la abitano e se ne nutrono. Sulla carcassa del cammello, nello sciame di mosche, già si cela, però, la scatenata esplosione delle forme scritturali, le quali pedinano tali visioni come un alter ego. Che sia pozzo o lacustre specchio, acqua è ancora sabbia, la sabbia si muove come acqua e delfini vi guizzano e ibis vi infilzano il becco. Arsura genera visioni e  acqua stessa è visione, elemento fascinoso come nessun altro al mondo, capace di trascinare giù persino gli dei tirandoli via dalla loro tavola imbandita.  Siamo all'interno di una cornice barocca che fa sentire il suo gioco di specchi e di rimandi, di replicate essenze e differite.  Non solo perché è uno dei costanti interessi di Isella, ma perché il barocco ama i paradossi, è mutevole e incessante, si trasforma, e poi bara per stupire. Barocca è sempre la parola poetica quando vuole trasformarsi sotto gli occhi ammirati del lettore e generare spostamenti di senso al limite del veritiero. Spinge all'estremo limite le apparenze per poi costringerle nel flusso di un unico fiume. Acqua che, non certo ultima cosa, ospita umano embrione. Ma anche scrittura, la quale segue l'acqua dappresso, ne registra le forme, a sua volta rinsecchita, arsa linea nera.  Ancora acqua, è certo, ma di diversa consistenza, onirica e specularmente inversa.




Sul velo incrinato nel miraggio
s'innesta improvviso
Il tragico giallo di una ginestra

Occhio del transito, nodo espanso
In arido panno mormoratore

Dove zoppica
quel piede d'acqua diafano
con tendini di luce
aggrappati a una stella





Sola rovina materna il pozzo,
come una pala la sete
vi rimesta bocche sostitutive

Schiena contro schiena
confabulanti, le comari cause:
"L'acqua ha preferito lasciarci"

Con catinelle legate ad aquilone
due cerbiatte osano, lì
dove l'intercapedine
dell'ora
           manca




Pleura d'acque,
quadrante per ore rapprese
inscindibili

La barca e il peso
delle alghe che fremono,
i tramagli manomessi
nel sottotraccia

E vedi il pesce
imbottito di nebbia
mutarsi in cefalo immenso
che s'impenna
umido ancora d'avorio marino

Nel gorgo delle pinne
a momenti
scorgi tavole imbandite

mercoledì 7 dicembre 2016

Maria Grazia Insinga "OPHRYS", raccolta di poesie inedita, finalista al Premio Montano, 2016





Traiamo disordinatamente dalle tre sezioni della raccolta inedita OPHRYS di Maria Grazia Insinga, tre poesie Apnea, Specchio, Liste. Le poesie hanno uno svolgimento doppio (prima e seconda parte), non propriamente un dialogo, ma una stessa scena vista da due diversi punti di vista o tempi, i quali comportano una collazione di diversi sensi che vanno ad ampliare un medesimo lemma, il titolo, a sua volta associato a un sottotitolo, generando, appunto, una serie di significati che si uniscono a grappolo, per cui è subito evidente che per la poetessa è fondamentale che il senso sia quanto più inclusivo per poter esprimere ciò che accade nella realtà. Ancor più che creare nuove parole, sembra dunque necessario allargare l'uso degli striminziti concetti, abitudinari, che abbiamo stipato, spesso in maniera acritica, nella nostra testa, di fronte ai nuovi scenari che la contemporaneità ci obbliga ad affrontare.

Questa azione la si recepisce nella costruzione delle poesie della Insinga soprattutto per il loro essere fortemente ritmate: esse s'incrostano di senso nelle ripetizioni, aumentando la capacità di restituire un significato più articolato, spesso contraddittorio. Dinanzi agli accadimenti traumatici, dolorosi, di cui siamo testimoni, comprendere deve voler dire assumere su di sé, guardare e replicare nella propria interiorità, tentare di sentire nelle ossa, sui denti e sulla pelle, la fame, il freddo, la guerra, la morte. Altrimenti, il rischio è di restare spettatori inerti, di abitare un mondo in cui non siamo presenti.

Le ripetizioni, basate anche sulla sola assonanza, istituiscono un martellante incedere, quasi corrono verso un acme, che, però, più che essere emotivo, drammatico si profila come conseguenza logica. Anche l'acme si raggiunge in due tempi: incentrato dapprima sull'uso di oggetti, di sensazioni fisiche, di descrizioni spaziali e sonore, nel secondo movimento presenta una chiusa che cala come una ferrea constatazione, una conseguenza agghiacciante nella sua inevitabilità. Che sia una posizione morale che si associa all'amore, come se fosse possibile assegnargli solo una funzione positiva, di bene e non anche quella del male, che invece lo attraversa "da parte a parte", oppure l'orribile condizione dei naufraghi, dove il titolo Liste è associato al sottotitolo "fame"  e dove  quest'ultima non è soltanto fisica, ma è la fame che si ha dell'intero, di quando si era comunità,  o ancora, in riferimento al titolo Apnea, in cui, anziché "il fiato" (sottotitolo), è la sete che denuncia l'orrore, la sete che si prova, mentre si affoga, tutto ciò determina un ribattere che scava la realtà fino al suo nervo dolente.
Questa continua spola del senso, che costringe il significato a muoversi, a non arrestarsi mai come non deve arrestarsi la coscienza, è una forza che attraversa tutta la raccolta, costringendo il lettore a una lettura fisica, esperenziale, non certo rassicurante o pacificante. Una scossa.

APNEA


I fiato

Non ci collocavi nell’età giusta
se ne accorsero a Ferdinandea
troppo lunghe le arcate e ingovernabile
la gestione dei fiati e lei
era sempre stata lì era sempre stata
aliena ai morti tra i morti seduta
come si sta sedute da tutt’altra parte.

II fiato

A Finisterrae non si volava per andare su
ma per andare giù al centro della terra
dilazionati dove c’era la madre l’uroboro
a mangiarci la coda e non finire non sentire 
il mondo che finisce trovare l’acqua nell’acqua 
respirare con le branchie non respirare 
differire l’apnea unica voce al centro 
e l’unica voce in quel deserto era la sete.


SPECCHIO

                                                            se aggiunge male al male
                                                            non starà poi così male


I guado
ora accade l’ordine
ora cada
defalchi l’errore la parola
data, d’amore
ora si taccia


II guado

dovresti procurarti il male
procurarle un filo di lame 
obliquo rispetto all’asse
per obliare i dubbi 
accelerare la corsa della lama
dovreste guadare lo specchio 
nel catino di zinco

una vocazione a parte
spacca al centro
e a parte mette il male
e da parte il bene
da parte a parte



LISTE

I fame

eravamo più della somma
ora sottrarsi aggiunge 
al digiuno una fame insaziabile

II fame

la lista lunga come la fame
allunga il passo e qui si frenetica
ciò che manca qui si frena e lei
arriva e arriva mille volte
reitera il sonno nel giardino dove
d’un tratto non poggi i piedi 
sulle onde e brevi e lunghe forzata

a nuotare l’aria a non arrivare


mercoledì 30 novembre 2016

"L'ANIMA DEL SEGNO, Hartung, Cavalli, Strazza", Museo di Villa dei Cedri, Bellinzona, fino al 29 gennaio 2017




Estratto dalla conferenza “Dal gesto al segno - approcci sulle tecniche dell’incisione” tenutasi presso il LAC, Lugano, 20 ottobre 2016, relatrice Loredana Müller 

Parlare di anima del segno porta in grembo plurimi significati, in qualsiasi modo si voglia intendere il segno: potremmo sostituire anima con carattere o psiche o, ancora meglio, con tensione. Oppure pensare ai segni come suoni, atti, intense-adesioni, tensioni, necessità e svolgimenti, ritmi e costanti che appartengono al vivere, alle emozioni, alla priorità dell'esprimersi oltre che all'orientamento etico ed estetico. Forse potremmo anche partire dall'autonomia del segno e nel contempo individuare la sua grammatica. Ecco individuato ciò che, per i tre artisti che sono riuniti, perché pittori ed incisori, nel contesto espositivo e museale di Villa dei Cedri a Bellinzona, appare quale luogo comune di ricerca. Essi condividono assonanze e dissonanze nel loro procedere, pur nella loro diversa contestualità storica, accomunati essenzialmente da una forte ricerca analitico-espressiva.

Cosa si intende per grammatica del segno, come si genera tramite tale struttura la visione?
I segni appartengono al vivere. Tracciare è ricercare, comprendere, è dialogo tra sé e la società, e non è  necessariamente verbale: ricordi e primissime adesioni al proprio vissuto. Al principio c'era il tatto, il respiro, solo dopo lo sguardo come finestra sul mondo della luce e del buio. E questa comprensione che relazione ha tra il mondo interiore dell'uomo e quello dell'artista? Comprendere, prendere in sé, ciò che si fa gesto, traccia. In che termini diviene segno?

Ma prima di tentare di dare alcune risposte in relazione all'attività dei tre artisti e alla mia diretta esperienza, premetto che  sono un'artista visiva particolarmente fortunata perché, dei tre artisti presentati, ho avuto il piacere di averne due come docenti, Massimo Cavalli qui a Lugano negli anni '80 e Guido Strazza a Roma alla fine degli anni ottanta. Ho la fortuna, dunque, di essere in amicizia con Cavalli e Strazza e, riconoscendoli come maestri, li pongo all'interno di quel processo che riguarda a sua volta la trasmissione del sapere all'interno del processo di insegnamento, il quale oggi è una vera e propria sfida:  generare conoscenza intorno a una pratica apparentemente "superata“ legata al tempo del corpo come a quello della materia. Oggi, incanalare la forza, l'energia, il senso in un segno, per chi non si muova nell'ambito delle arti visive della mia generazione, sembra non appartenere al mondo contemporaneo, in particolare, alla sofisticata tecnologia che ci circonda.

Parlare di incisione calcografica vuol dire però anche accorgersi di quanto il mondo dell'incisione sia vasto, basti pensare alla pietra e all'incompatibilità delle sostanze che si adottano, per giungere ai segni che vengono solo in un secondo tempo registrati e inchiostrati e passati alla carta, alle reazioni di incompatibilità tra i diversi materiali utilizzati, al metallo, alla pietra, alle punte...ebbene è PARLARE DELLA STORIA DELL'UOMO e della sua evoluzione...
È una cosa molto diversa dal lavorare con le immagini precostituite, magari con l'ausilio della fotografia, le quali invadono come rumore il nostro immaginario e contribuiscono a una visione superficiale. Usare registri figurativi sottratti da fotografie o da immagini già elaborate dal computer è diverso che cavare da sé un segno come atto e direzione di senso, ricercando il superamento nel proprio agire, anche nell'inevitabile acquisto del dubbio.

Un segno tracciato a grafite ha una sua nobiltà e appartenenza che si riscatta nella pressione, ma anche nella grana della carta, tra pastelli grassi e inchiostri magri e la loro impermeabilità, tra inchiostri grassi e acquarelli. Qui dovremmo necessariamente entrare nelle tecniche pittoriche,  renderci conto che segnare, disegnare e dipingere, hanno diverse fasi e gradi di conoscenza, i quali comportano anche conoscenze chimiche, oltre che riguardare i problemi della mimesis e la concertazione del pensiero... Quanto cioè ci sia di meccanico” o fisico che, come direbbe  Leonardo Da Vinci, vuol dire che chi ha in grembo una verità chimica ha già una  dimensione analitica.
Hans Hartung


Ma vediamo, cosa scrivono a tal riguardo gli artisti presenti nella mostra, partendo da Hans Hartung, pittore tedesco, nato a Lipsia nel 1904 e deceduto ad Antibès nel 1989, il quale ha compiuto gli studi artistici e musicali a Dresda e a Monaco, inizialmente vicino all'espressionismo, ma da sempre attratto dai segni più forti e incisivi in natura. Voglio indirizzare l'attenzione su quanto nell'incisione ci porta a contatto con il passaggio, con l'afferrare o meno il visibile... Accade nell'istante, ma è in grado di generare esperienza...e soprattutto appartenenza, orientamento, chiarezza di lettura. Lo stesso Hartung giovanissimo pare avesse un taccuino dove registrava lo zizzagare dei fulmini, dove annotava  un segno in qualche modo indescrivibile, tra sperimentazioni e ampliamento del gesto, con scope, rastrelli e faggine. “L’arte astratta mi pare un movimento particolarmente sano nella storia dell’arte. Con essa, dopo un lungo periodo di rilassatezza, si ritrova una tendenza purificatrice, che aveva avuto inizio con Cézanne,  proseguendo con il cubismo analitico. La macchia torna ad essere una macchia, il tratto un tratto, la superficie una superficie. Le opere vivono per se stesse, di per se stesse, sbarazzate dalla sottomissione alla figurazione. Il che consente di ricongiungere i poli principali dell’uomo: l’universo e l’uomo nell’universo".

Le sue parole sottolineano quanto la dimensione dell'esperienza come atto del proprio agire diviene per questi artisti primaria relazione con il mondo. Quindi credo che se leggessimo i loro segni con questa consapevolezza, certo comprenderemmo perché un Paul Klee diceva che la pittura era rimasta indietro rispetto alla musica. Perché ancora oggi, nelle arti visive, il ruolo della disciplina come ordine, come ordine del fare, come continua esperienza e quindi pratica è desueto. Tuttavia, proprio la sua immediatezza, che non è velocità fine a se stessa, ma esperienza acquisita tramite la pratica, diviene anche esperienza del tempo.

Credo che il compito oggi dell'arte sia accorgersi dell'urgenza di mantenere la diversità, come priorità, al fine di salvaguardare l'esprimersi come atto autentico primario e individuale, e credo che l'arte sia questa ricerca o almeno a questo dovrebbe sempre tendere. Concetto intorno a cui la lezione di Guido Strazza si è particolarmente articolata: ricca di avvertenze, di riflessioni sul segno. Guido Strazza, nato a Grosseto nel 1922, vive e lavora a Roma. Ingegnere formazione, grazie alla poesia entra nell'ambito delle arti prestissimo.  Marinetti a invitarlo attorno all'aero-pittura. Ecco alcune sue parole dal suo testo "Segnare":
Guido Strazza

"Non è un foglio bianco in attesa dell'ispirazione, ma una fitta rete invisibile, già tutta intessuta delle sue e delle nostre pulsioni a un suo (nostro) ordine tutto da decifrare. Materia e significati (ecco la fondamentale doppiezza) che troveranno accordo in quella forma di incrociati riconoscimenti e identificazioni che usiamo chiamare opera. Ma, fin dal primo istante qualcosa si sta facendo diverso dal previsto. Senza fine. Si provoca la materia, questa risponde. Non parla di sé, ma del suo rapporto con noi. Che non è cosa cosi certa e chiara. Un pensiero si fa segno, segno di sé e qualcos'altro ancora".

Ma anche gli aspetti che riguardano la carta, la dimensione e orientamento del foglio sono aspetti centrali a cui  Massimo Cavalli dà particolare rilievo: nato a Locarno negli anni '30, pittore ed incisore dalla coerenza sbalorditiva, dal '49 studente a Brera a Milano all'Accademia di Belle Arti, si affeziona al naturalismo lombardo, guarda Morandi, per poi abbracciare l'informale. Seguiamolo in alcune affermazioni: "Non mi faccio irretire da nessuna forma, l'imprevedibilità dei segni è essenziale", "Affronto ogni dipinto come se fosse ogni volta la prima volta, non so quando inizio, dove mi condurrà, so che comunque ricerco la tensione massima".

Il segno in questi tre artisti è un dialogo tra crescita e tensione, si situa tra lo spontaneo e l'atto energico, a volte graffiato, portato davvero fuori da sé. Le possibili direzioni generano quasi una lotta, imponendo spesso una propria arbitrarietà come libertà d'ogni segno. Espresso con strumenti diversi: la punta in punta secca, dove il segno sposta il metallo in superficie, le barbe con le loro varianti e la traccia morbida eppure intensa. Oppure il bulino  con la sua punta a triangolo che estrae nella direzione del segno un ricciolo, come se fosse legno. Ebbene il segno poi porterà sul foglio di carta la presenza del corpo dell'inchiostro che va a riempire il solco, ed è netto e spesso, vivendo anche di pressione diversificata, dalla massima alla lieve, sulla lastra. Non dimentico il punzone a sua volta a cuneo appuntito, il quale crea uno schiaccio sia come punto sia come foro. Lì si deposita l'inchiostro, la diversificazioni di tali punti è data dalla forza del martelletto che batte sul punzone che è come un chiodo, oppure dalle punte più fini o spesse...Poi interviene la distanza o vicinanza d'ogni punto battuto...e una inesauribile possibilità di campiture. Appartiene alla stessa famiglia di tecniche dirette anche la mezza luna o Berceaux, una lamina di diverse grandezze che ha una zigrinatura che genera, poggiandola sul metallo e dondolandola, premendo, o ruotandola piano piano in ogni direzione,  una sorta di graniglia, un tessuto di segno che può avere incroci fino a 16 giri...e raggiungere dei neri di una profondità indicibile.
Massimo Cavalli

Le tecniche indirette, sono tutte quelle che nell'incisione calcografica usano l'ausilio di acidi, nitrico o solfati o sali, i quali producono i segni nelle cosiddette morsure. Qui tutto è aperto, la differenza tra spessore o sottigliezze, ripetizione, giustapposizione o interposizione, assunte come linguaggio dell'azione, dai ritmi quasi musicali, segni come suoni sospesi come note che precipitano, ricercano pentagramma... o generano aprendo, e non necessariamente concludendo la forma, sono andamenti lievi, ma non troppo, moti, forti, andanti contenuti, vivaci, ritmati assordanti...segni che si fanno tramite la nostra azione. L'interesse per la luce è ricerca di contrasto, un continuo contrappunto tra pieno e vuoto, linea e linea, affermazione o cancellatura, cromatura e buio: è il dubbio che ramifica le sfumature dell'assoluto.

Per concludere questo primo viaggio, abbracciando i nostri artisti attorno al segno, tento alcune brevi considerazioni tra l'incisione che per tutti e tre è spina dorsale della pittura, dando ruolo sostanziale anche al colore: segno, come gioco forza dalla tensione alla profondità, dalla verità che parte semplicemente dalla lettura tra cielo e terra, alto-basso-gravità, per raggiungere in ognuno astrazione o appartenenza poetica, libertà. È una scelta importante e oggi ardita, perché è di moda dimenticarsi del passato e della storia, come forza e paradosso, apertura e discussione sempre aperta, per poi cadere nello scontato di un agire mai nuovo. Carole Haensler, direttrice di Villa dei Cedri a Bellinzona, con questa mostra sottolinea che la ricerca d'ogni artista consiste, se parte dal segno, nell'affrontare e recuperare la dimensione della storia dell'Arte come valore forte.

Hartung, Strazza e Cavalli, hanno sempre guardato e studiato la natura attorno a loro e compreso la storia dell'arte anche come processo del fare. Delle tensioni che possono essere affrontate o confrontate nel loro tessuto linguistico e storico, e portate sempre su strade diverse, per avvalersi della propria verità e quindi della propria adesione al tempo come metafora della storia, della materia affrontata dal gesto, come corpo e spirito, dalla traccia che si è e si fa storia. Traccia che genera visione, per percorso e appartenenza d'ognuno, al proprio tempo certo, ma anche a quella dimensione profonda che poi segna una via collettiva...una traccia delle emozioni come comune valore, luogo anche della ragione d'essere, unendo natura e storia. Questo l'arte dovrebbe far avvenire...e nell'avvenire ritornare e rigenerare quella pregnanza storica che dovrebbe essere la cultura: luogo d'ogni ricerca del senso agito del nostro vivere anche spirituale.

                                                                                                                           Loredana Müller



Per le visite guidate consultare: www.villacedri.ch

Catalogo della mostra edito da Pagine d’Arte www.paginedarte.ch


mercoledì 23 novembre 2016

Elena Zuccaccia, terza classificata al Premio Nazionale di Poesia Terra di Virgilio, 2016




In Elena Zuccaccia, tre poesie che abbiano per oggetto il corpo non necessariamente inclinano verso una facile etichettatura: non siamo in presenza dell'ennesima poesia su tale tema. Non solo perché l'esposizione, cosi lenta, sovrimpressa satura lo sguardo, (un po' come accade nel quadro di Coubert L'origine del mondo) quanto per l'opposto: il corpo rinvia ad altro. Il corpo sta per una specie di segnaposto, di simbolo che segnala l'esistenza del mentale. Ed é il mentale a dichiarare l'assenza, la mancanza. C'é sempre qualcosa da operare intorno al corpo, affinché il pieno conceda l'affioramento dell'ipotizzato, anche sub specie immanente. Infatti, persino per convocare il concreto c'é bisogno di un'esca. Pragmatico utilizzo della materia con cui saggiare pur anche i comportamenti morali, quand'è sai si situino al limite dell'illegale o del plausibile, se non addirittura sfocianti nell'immoralità (si veda l'ultima poesia con l'orrido pranzo) il che fa di Elena Zuccaccia una sperimentatrice intelligente e pacata, che gestisce le sue risorse e i suoi mezzi espressivi con raffinate messe a punto, prossime alla costruzione di una trappola che abbia di mira la cattura del lettore, visto che questa  é una poesia "specchio delle allodole", dove si sa che il vero é gia perso in partenza, che il cuore dell'amato é nuovo, mai usato, che persino mangiarlo a pezzettini lascia digiuni. Una sorta di cerebrale alambicco disegnante una mappa piena di lacune e rabberci, tutti individuati sul solo piano esistenziale, ma limpidissima in quanto a resa formale, tanto da far apparire nuovo persino il linguaggio chiaro e consueto per la politura e la precisione raggiunta. Una prova di assoluta eleganza.

(dall'Antologia del Premio)
È possibile scaricare il bando dell'edizione 2017 sul sito www.poesiaterradivirgilio.it

L’ARTISTA

gli usuali aggettivi di possesso
con te io non li conosco
potrei al massimo azzardarmi ad
infilarmi nel plurale
confondendomi nel mucchio tra il
resto
allora potrei anche provare a dire
nostro
e accaparrarmi quanto di te rimane
:
brandelli di fegato
non certo di prima scelta
non opzionati da chi ha preferito tenersi
parti meno usurate
– il cuore, ad esempio, tra le più ambite
appare intatto
rivendibile come nuovo
mai usato


IL CORPO LIQUIDO

mi sento tutta liquida
non ho mani
nessun organo prensile

si stende il corpo liquido
tra le scanalature delle
mattonelle
/ ora acqua che corre
nervosa
/ ora pigra lenta cera

o stagna informe fermo in una
pozza
 / gli occhi spalancati al soffitto
e una paralisi del corpo liquido
immobile fino ad inghiottirsi


SÅSOM I EN SPEGEL

di vedere questo
corpo nudo non
ne posso più crepare
immagino almeno
lo potessi cuocere
per dire
la carne mi piace
alla brace
certo di te bianca così
come tacchino
più che Canova
che si può fare
(potrei)
imbracarti di spago
a mo’ di involtini
mangiarti a bocconcini
fare nell’olio la
scarpetta col
pane sciapo

per sempre digerire

venerdì 18 novembre 2016

"Renée Lavaillante. Une archéologie du dessin" a cura di Nathalie Miglioli, Occurrence/Sagamie, Canada, 2016




Boîtes et blocs, 1992, bâtons gras et de cire, acquarelle et gouache, sur plâtre

L'uscita del catalogo "Renée Lavaillante. Une archéologie du dessin" a cura di Nathalie Miglioli, Occurrence/Sagamie, Canada, 2016 è l'occasione per ripercorre alcuni dei punti salienti di un percorso di ricerca che ha incentrato sull'attività del disegno il suo precipuo interesse. Se l'immagine si situa prima delle parole, essa coincide con la parte non esprimibile linguisticamente se non per infinita approssimazione. Così che se il gesto costruisce un disegno, l'artista può affermare che tale immagine, luogo,  oggetto coincide con la sua interiorità. "Personne ne sait que vous êtes ici, n°6” del 1988 intende specificare che l'altrove esiste, è il luogo realizzato sulla carta, reso visibile.

Donare a questo luogo il moto equivale a mettere in azione il primo agglomerato della materia - quella dell'origine - il cominciamento assoluto. Prima dell'io, infatti, che decide di dare l'avvio al suo racconto visivo, non c'è la natura allo stesso modo in cui non è rintracciabile l'individuo se non a posteriori, sulla carta. Tutto ciò non certo per affermare il ruolo secondario e inconsistente della realtà quanto il fatto che la sua incidenza viene messa fra parentesi nel processo creativo, il quale sintetizza l'esperienza, rendendo centrali il gesto e l'ideazione.

Nelle grandi carte, che oscurano le nostre pupille come per il passaggio di ali e vortici minacciosi, è in agguato la macchina analogica che trasporta i segni della ricchissima texture dei lavori (ottenuta con pastelli secchi, all'olio, a cera e poi matita, acrilico, inchiostro) sulla mappa mentale di ciò che già conosciamo. La natura, dunque, come effetto dell'artificiale. Ma il divario tra questi due elementi è ciò che consente di situare il pensiero artistico: proprio fra le due sfere. I titoli che tracciano un resoconto, una cronaca diaristica, "Mouvement pour sortir", 1989, "Tourment avec écharde, n°1”, 1991, per cui chi scrive si sente autorizzato a parlare di narrazione, spostano l'accento sulla visualizzazione del sé, come d'altra parte invita a fare anche il lavoro che raggruppa temporalmente in serie lo snodarsi della ricerca.

Renée Lavaillante è nel suo percorso spesso attratta da una geometrizzazione che attiva il dialogo tra contenitore e contenuto, forma ed espressione, lucidità e incertezza. É il caso della serie "Boites et blocs", 1992,  una verifica tra ciò che può essere contenuto e ciò che può contenere, quando il contenuto è un masso e il contenente è una scatola di cartone. La tracciatura delle caratteristiche materiche è di per sé un tema che già da solo impegna tutto l'essere! La lotta è sempre impari fino a quando sulla carta non si ha la rivelazione della materia. Da siffatta materia caviamo ciò di cui eravamo in cerca. Ora soltanto, sembra porsi dinanzi ai nostri occhi come una rivelazione.

Il ricorso al collage, la stratificazione delle carte sapientemente lavorate, consente all'artista di operare distintamente sulla ricostruzione formale che in questo senso pare opporsi al trattamento delle superfici (superficie verso volume, bianco verso nero). La creazione delle forme non può che essere un assembramento effettuato in una fase successiva, studiato, ritoccato, confortato da incastri o disilluso da incongruenze. Forse l'io artistico non è tracciabile al di fuori del mito.

Ancora, la ricerca prosegue in questa direzione con un esperimento in cui l'artista socchiude gli occhi, ottenendo il tracciamento d'una linea 'alla cieca', e dunque introducendo contemporaneamente l'alea. La Lavaillante ha di fatto sempre costeggiato il dominio scientifico nel tentativo di rovesciarlo nel suo opposto: il dominio artistico (serie "Qui sait comment toucher le sol, n°6”, 1998).

La regolarità della tracciatura questa volta registra una sorta di ordine mentale che si situa prima della vista o che comunque si sottrae al suo imperio. Tuttavia, la disposizione, ordinata o anarchica che sia, svela un processo che marca l'essere, che decide della sua definizione. Se ne rintraccia la flebile presenza attraverso righe di grafite, le quali s'interrompono nei pressi di un immaginato contorno, ritagliando  una sagoma (serie "Dibutade n°3", 2015) o rilevando ispessimenti e intensità, come nella serie  "Giornate ( 45 jours), et detail”, 2014, o in quella più ossimorica "Points de chute n°2", 2014,  la quale a partire dalla caduta di ciottoli sul foglio registra l'addensarsi, intorno al punto toccato, di una concrezione di linee il cui spessore, scurito in alcuni tratti, crea un effetto di profondità, di vero e proprio abisso, in cui l'essere si delinea.

Ora,  l'associazione casualità/precisione è il tramite di condensazione di quello spazio oscillativo in cui trascorriamo dall'effimero all'eventuale, dal caotico all'ordinato, dal determinato all'indeterminato, cioè la messa in chiaro - in forma di grafite - di una inscindibile complessa materia: quel che dell'uomo si vede nell'arte.

                                                                           Rosa Pierno


Le fotografie sono di Eliane Excoffier e Yvan Boulerice





Dibutade, n.1, 2013, crayon graphite sur papier

www.reneelavaillante.net