domenica 31 gennaio 2016

Gilberto Isella su "Grandangolo" di Marica Larocchi, Joker, Novi Ligure, 2015

  Di Marica Larocchi – poetessa, critica e traduttrice dal francese (Baudelaire, Rimbaud e Flaminien in primo piano) avevo apprezzato in particolare la raccolta Le api di Aristeo (Book, 2006). Ne avevo registrato  una domanda, quasi un auspicio: “Sarà/ quest’occhio fiacco/ il faro di un vivaio più fiero?”. Ora con l’uscita di Grandangolo la sfida al ‘labirinto del vedere’, adombrata in quell’interrogativo, acquista  nuovi accenti. Già il titolo conduce il lettore per direttissima nella sfera visiva. Nel visibile, intendo, quale frutto poetico di una scienza ottica nietszcheanamente ‘gaia’, proiettatata qui su un “arabesco di vene astrali”, su filature veggenti la cui genesi è da ricondurre in ogni modo  al labirinto-‘vivaio’ degli affetti corporei (“vene affilate per/ fendere la nebbia/ degli affetti”). L’istanza rappresentativa sarà per forza di cose  multiprospettica, sottratta per gradi ai condizionamenti del logocentrismo, e lubrificata da quel “seme di manzia” primario (o logos spermatikos) incompatibile con griglie semiotiche costituite. Un tappeto verbale che si svolge, a patto di assumerne l’efficacia espressiva su ‘un’altra scena’, come luogo figurale espanso, sussulto di topologie cosmiche alla ricerca del loro focus: “Già spremuti/ dalla siringa cosmica […] sapremo captare ancora/ l’angolo della visione/ nel fuoco che riposa/ verticale sull’accordo/ in bilico”. Al centro di questo accordo in bilico tra verbo e visione sembra stagliarsi, ombelico del soggetto, la pupilla regina.
   In ogni pupilla infatti – organo del cuore - nuotano “virgole” e “lembi di pagelle stinte”, il cui  movimento contribuisce a dar vita, di poesia in poesia, a un vortice di torsioni, giunture e disgiunzioni, colpi d’ala e contraccolpi. È la dinamica, detto in breve, che l’incontro dialogico (seppur fantasmatico) tra sistemi segnici di diversa natura e specificità presume, e di cui si fa carico, entro il  fuoco metrico riverso sull’asse verticale, la preponderante strofa lunga. Ma dove il vero propellente risiede nel costante lavoro assegnato alla metafora – artefice di interscambi in questo universo del tracciabile, potenziatrice della  schermaglia amorosa condotta dall’ élan vital con la pagina bianca  (le “fiere assenze sulla pergamena/ appena illuminata”) – e a consimili tropi di straniamento. Sarà ancora la metafora, figura per eccellenza del transito, a scandire paradossalmente i limiti, le linee d’ombra da non oltrepassare, affinché il poiein  non ceda alla tentazione di farsi  ‘esubero’ o puro spreco: “Per le papille rimaste/ a gustare la fine degli/ alfabeti, ecco di nuovo/ la tortura dei verbi, via!”.
    “Via!”, tra papille e pupille, attraverso campate testuali ‘a grandangolo’ dove il linguaggio verbale, nel suo scindersi fino a lasciarsi penetrare dall’altro da sé, “interiorizza il figurale nell’articolato”, come direbbe Lyotard. Ma se l’occhio irrompe nella parola è anche grazie al gesto poetico che si ripromette di riparare (almeno parzialmente) quella scissione, attizzando del linguaggio l’hybris e il furore oltrante, sfruttandone le incontenibili ambizioni sinestesiche in vista di un, ipotizziamo, geroglifico orizzonte di salvezza (“Pure Lei/ leva braccia e pupille/ verso la prua dell’orizzonte”). A venir rimessi in circuito, in simile circostanza, sono materiali allegorici di squisito timbro baudelairiano.
   Poetare al fine di inludere docendo? In un certo senso sì, per Marica. L’illusione, in Grandangolo (“illusorio liquore”) è quella di realizzare un vortice scenico - portentosa fiera dell’ibrido e della metamorfosi – esperito il quale l’io poetico possa riaffacciarsi sulla scena del logos. O per mezzo di paradossali sottrazioni e denegazioni (“un’ampia foglia di cielo/dove ogni grafia si è/ già impressa e dissolta”) oppure, col supporto di aneliti espiatori,  risalendo “la rampa dei sensi”, dunque con quel viatico di dolorosa libido (“sillaberai ogni/ frammento di sospiro/ e d’osso”) sottesa alla scissione e al suo contraddirsi. “Amplessi virtuali”, avverte l’autrice, appercependo la cattura di “qualche chimera geniale”. Saranno appunto chimere (corpuscoli dell’io, tuorli d’anima, dense linfe assurte a “mia calligrafia”, sillabe sibilline, non di rado stringhe di “bypassata memoria” entro un groviglio di ipotiposi incombenti) a configurare – nella spasmodica caccia ai punti d’innesto - le gaudiose quanto controverse nuptiae di parola e immagine, coppia di riferimento per ulteriori ricognizioni tattili o olfattive. Perché in definitiva è nei sensi, in sensi peraltro irrigati con dovizia  da rugiade platoniche, che si celebra l’enigma del dire per figure.
   “Ma sì, fissiamo/ prudenti l’obiettivo/ di sbieco”; o, regolando inclinazioni e aperture, “visioni che fremono/ in parata per obiettivi/ sempre aperti”. Visioni tese a circoscrivere, motu proprio, una singolare mitologia che trova nascita e abbrivo nel corpo.  Mentre la parata, da supporre entro ellissi e spirali, concerne il soma nell’atto di rifocalizzare i suoi attributi ridotti sovente a grumi e molecole (“l’estasi delle molecole”), per mescolarli poi alchemicamente e proiettarli in sempre più eccentriche orbite visuali, verso i territori dell’origine. E proprio nella preverbale chôra semiotica - secondo l’accezione di Julia Kristeva - va a delinearsi l’orizzonte della parola, sia essa rantolo o alleluiah. Non importa se, in un primo tempo, questo orizzonte coinciderà con gli anfratti oscuri  dell’organismo,  fino a toccare il ‘grado zero’ dello scheletro: “ Servitù d’ossa: eredità/ cui mi legano pieghe/ di sillabe e rantolanti/ motti”. Lì sta in effetti il suo misterioso imprinting.
   Lasciando intravedere una sfida a occhio-di-pesce con l’incognito, il grandangolo ci sembrerà un “reziario” in grado di  catturare l’‘obiettivabile’nel suo illusorio insieme. Una chimera, di nuovo. Parata di parvenze, entità riflesse nella parola costantemente in transito, sottratte a fatica “dall’umile cancrena del tempo”, entità che si compongono e scompongono in virtù di qualche astrale congegno,  risagomato magari nell’io sotto forma di  “golem che/ il tornio ha così bene/ levigato”. Questo io golemico ha un desiderio: recuperare l’astro perduto. Gli basta, per rinfocolarlo,  percepire “l’onda zufolare  nella conchiglia incrostata”, o ascoltare un invito come questo: “Coraggio: punta e slaccia/ quel tuo grembo d’ossa”. Un grembo di tutt’altra specie è in attesa. L’importante, come auspicava Baudelaire, è sciogliere l’àncora, elevarsi “au-dessus des étangs,  au-dessus des vallées…”.
 
Su, vita mia,
leviamoci da questa
pozza limacciosa!
Salpiamo per rotte
limpide e sconosciute
senza bagagli, privi
d’identità, di nome:
[…..]


                                                                             Gilberto Isella

sabato 23 gennaio 2016

Antonio Rossi “Brevis Altera”, Book editore, 2015



Una geografia domestica e industriale, quella di Antonio Rossi in “Brevis Altera”, Book editore, 2015, attraversata da distorsioni temporali, le quali agiscono smaterializzando gli oggetti, anche da un punto di vista semantico. Il senso, almeno, ne risulta alterato, si esce dal conforme, dall'abitudinario. Ciò che è asettico o scontato o degradato nella sua funzionalità diventa estraneo, o meglio, lo diviene in base al fatto che la sua riconoscibilità non  è più immediata. Le "finestre tortuose", il "telaggio da sollecito / urto svelato" se hanno il compito di farci notare tali oggetti, hanno come non riposto fine di mostrarci la sconnessione dei nostri scenari di riferimento. In senso lato, il pericolo denunciato è di abitare un mondo troppo supinamente recepito, mentre il risiedere dovrebbe essere l’oggetto di un progetto. Abitare non è funzione che non includa il concetto di collettività e di storia. Oggetti sotto straniante luce divengono meccanismi in grado di produrre senso, di attivarsi affinché con "vortici opportuni e sparpagliato / soffio lontano sospingano il piombo / ovunque depositato".

In ogni singola poesia troviamo una serie di parole che delineano una immagine precisa, fanno riferimento alla storia. Ma quale tipo di storia e quale meta essa si prefigge? Quasi uno scopo improbo riuscire a dirimere la questione e trarre un responso dai "Pochi disegni sull'acqua / sospesi forse davvero bastano". È, tuttavia, la poesia ad assumersi l’onere della prova: essa, infatti, si contrappone alla storia, aristotelico retaggio, per una capacita più ampia e profonda di far parlare i segni. La portentosa posizione dell’aggettivo che precede quella del sostantivo, ad esempio, contribuisce a scollare il significato dal significante, quasi una leva che sollevi il coperchio, che sveli il meccanismo:

Lama e vertice
quale propensa superficie
con esattezza incidere
o lenire senza che uno strato
danno subisca o sfregio
così che intatto rimanga
nella frequente penombra
forse già  sanno.

E, dunque, niente è innocente: vi è una sorta di sospetto, di dubbio che esala come veleno dalla superficie materica delle cose, oltre che dal linguaggio. Doppiezza di ogni elemento,  tecnologico o semplicemente funzionale, che, secondo il doppio movimento adorniano, solleva una contraddizione ineludibile. Così l'utensile si mostra chiazzato e morbido, in un irrisolvibile paradosso. Le poesie, sapientemente costruite, disegnano una sorta di indovinello, quasi una mitica reminescenza, su ciò che configura l'ambiente umano, ma ora lo sappiamo, esso non è neutrale, sospinge all’azione  o all’apatia che sia. Asserito che il tecnologico, in relazione alla natura  è l'innaturale, anche la natura non è immune dallo scatenare un venefico dubbio:

Fronda di rovere o scalfita
betulla e sempre avida nervatura
di clematide o florida pianta
Infestante da oscuro granello
a insetto divoratore o cospicua
muffa sfuggito potranno forse
aver principio.

Forse, il “disancoraggio”, diviene una risorsa al fine di divellere la continuità per spingere verso la riconquista di un senso maggiormente adeguato, coincidente con il  proprio ritrovarsi. In ogni caso è la mossa da cui partire per rompere la scena illusoria che incatena in uno stato acritico.

Dove una linea sconfini
forse da una fune impigliata
o colore fuori tempo
si saprà; e se la meta
era quel procedere in sospensione
presto surrogato da inezia
o distrazione può darsi
ciò sia imputabile
a una smarrita fattezza
nel pulviscolo ammutolita.

La relazione oscillante e irrisolvibile tra scopo e meta delinea una scenografia pulviscolare, degradata o almeno non  a fuoco. Un  reticolo di specchi, la presenza di qualcosa da decifrare, il dialogo tra originario e culturale costringe Rossi a utilizzare il pensiero come strumento a cui ancorarsi: “e di ogni fessura o pensiero / fai tuo presidio”, dove proprio il disancoraggio è da superare. Il poeta svizzero, in un incanto fissato in un istante, compone il gesto-limite per eccellenza, il quale mettendo a nudo, maschera ciò che svela.  Numerose divengono le assonanze con l’Antica Grecia:  dallo specchio, all’enigma, in una scenografia in cui la visibilità ha un ruolo centrale. Riflessione ed enigma sono le facce di una medesima medaglia, ove se l’oggetto ha la caratteristica di sfuggire alla presa, anche il soggetto sfugge, o meglio, inserisce la sua invisibile presenza nella visibilità del guardato da se stesso.

Il disancoraggio, dicevamo, produce enigmi, recidendo il senso dal significante, quando si tratti di parola, o la funzione dall'oggetto, oppure provoca una sorta di paralisi: non si sa come collocare o come servirsi delle cose: "un oblò spaiato un mocassino", "su un innocuo traliccio una concisa luminarie. Una “misurata presa", d'altronde, offre la natura: rispetto a essa, il soggetto non riesce né a costruire un proprio ruolo né a sentirsi parte integrante. La descrizione coinvolge il soggetto in quanto percettore; impossibile per lui tirarsi fuori: invischiato dai suoni, dagli odori, riconosce ai degradati ambienti industriali ancora valore di scenario, quasi per un’incoercibile capacità di potere costruire, persino nei più refrattari luoghi, una porzione di intimità. La natura, rappresentata da ben miseri steli, non demorde, resta simbolo di un rapporto necessario, anche se momentaneamente disarticolato. Di una pianta si può ignorare il nome scientifico, ma non la fondamentale relazione. Lasciamo ad Antonio Rossi l’ultima parola su che cosa si possa trarre dai suddetti elementi, indicando al contempo il movente della scrittura, che è sicuramente una ricerca, un invito a una nuova costruzione:

Senza ostacolo si giunge
fuori mano per scoprire
lamine  desuete o un refe
strappato e oltre tenue
discesa ornamenti e fogliame
da maltempo trascinati
nel sottinteso luogo dove
indugio non è pensato.


                                                                                    Rosa Pierno

lunedì 18 gennaio 2016

Bertrand Dorny e Bernard Noël “Alberi” edizioni Pagine d’Arte, 2015


In edizione bilingue, italiana e francese, nella collana ciel vague, le edizioni Pagine d’Arte ci riservano un’altra splendida opera grafica Alberi con testi poetici di Bernard Noël e opere fotografiche di Bertrand Dorny, anche se difficilmente si accorda a queste ultime l’appartenenza alla produzione fotografica, travalicando esse nel disegno.

Nato dapprima come libretto d’artista tirato in sette esemplari è stato poi ripreso da Matteo Bianchi e Carolina Leite, i quali presiedono alle scelte editoriali di Pagine d’Arte, per essere offerto a un pubblico più vasto. Nonostante ciò, l’edizione stampata riesce ad offrire, per cura e raffinatezza, la sensazione creata da quella originale, nella quale le poesie erano redatte a mano e le foto incollate su carta.

Il titolo originale dell’opera è emblematicamente Ecrire dans l’aire ed è del 2013. Le immagini si situano ambiguamente tra fotografia e disegno, quasi un omaggio al metamorfismo che, di fatto, è operazione che resta rara nell’ambito delle opere d’arte (si pensi al collage nei quadri cubisti o all’iperrealismo in cui la pittura si finge precisa come il risultato del mezzo fotografico).  I rami degli alberi paiono di grafite e s’inerpicano negli spazi bianchi quasi forati dal lucore della carta, fingendo, con le lacune nella grana, i pori, appunto, del foglio.

Il cielo oppone i suoi segni voluminosi e morbidi agli scheletrici rami, spogli e puntuti. L’artista colleziona, con ogni immagine, varie modalità di contrasto della scala dei grigi. La medesima opera, quindi, è replicata presentando di volta in volta un cielo assente, lievemente mosso o grevemente drammatizzato, mentre i rami e il tronco acquisiscono una maggiore scabrezza (i giochi della luce contribuiscono a donare volume al fusto) inversamente proporzionali a ciò che avviene sullo sfondo.

Il testo poetico, che trae la propria ragion d’essere dal dialogo con le suddette opere visive, ne risente e lo declama a piani polmoni, anzitutto costruendo la rete di relazioni che legano l’albero agli altri elementi, ma intendendoli metaforicamente come scrittura e con ciò ponendosi subito sul crinale che denuncia la propria operazione come metatesto: “linfa e senso vi mescolano terra e aria / il nostro pensiero ha perduto questo sapere / cerca l’accordo che lo sappia rinnovare  / ma l’orizzonte muta ancora di posto”  intendendo con questo che la percezione e la consapevolezza dello scarto con l’immagine resta faglia aperta e problematica.


                                                                             Rosa Pierno

mercoledì 13 gennaio 2016

Gilberto Isella “L’occhio piegato”, Book Editore, 2015


Le considerazioni che oggi riguardano l’equilibrio o la supremazia del potere, declinato secondo i concetti di consumismo, massa, civiltà globalizzata con i suoi luoghi di esercizio, il supermercato, e persino il privato, rispetto all’autonomia del soggetto, sono rivoltati e rinnegati da un Gilberto Isella incoercibile all’appiattimento del singolo, alla sua supina definizione, in quanto ben consapevole dell’impossibilità di addivenire a una soluzione delle contraddizioni con termini che saldino le coppie antinomiche, convinto, anzi, dell’assoluta necessità di negare tale soluzione. Nella contrapposizione di origine/meta, individuo/società, trascendenza/immanenza, sono conservate e anzi innescate le potenzialità dello scontro, secondo la direzione percorsa da Adorno in Minima Moralia. Un libro, L’occhio piegato,  dunque, etico, con una forte propensione costruttiva.
Se persino il glabro petto di un volatile può dar luogo alla stura del vaso poetico, ci sentiamo, leggendo, affrancati dall’universalità del concetto di globale. Come vasi comunicanti, il travaso dalla voce poetica all’afflato partecipativo del lettore si rivela catartico: valga come prova che se la poesia non cambia il mondo, non gli consente nemmeno di sedere sugli allori. Nessun luogo è quello che sembra. Il valore della percezione è già valore creativo. Persino stimolante: nei freddi corridoi delle merci ordinate sugli scaffali si aprono porte di plurime dimensioni, dove il potere della mente resiste a ogni oltraggio e a ogni passo mette a punto strategie di diffrazione, strategici scarti dal consueto.  Le merci, poi, sono traini di veri e propri viaggi sensoriali che affiorano sullo specchio della coscienza di sé, proprio a dispetto e sullo sfondo del  degradante luogo: “Da stoccaggi  l’arte evacua asprezze / vagheggiandovi gli alvei del miele / /  Nel balsamo dondola la tigre / per un velo che sente tracimare”. Il poeta crea una  collisione/collasso tra merci impilate e certe installazioni di arte contemporanea mostranti l’estrema omogeneizzazione dei linguaggi e se ne appropria per creare un luogo inusitato in cui la merce appare cambiata di segno. Non è solo critica, al modo in cui siamo abituati dalla scuola di Francoforte: è un atto creativo, quello stesso che se Adorno non poteva proporre fino in fondo a causa del fatto che pensava che l’arte fosse una sovrastruttura e che quindi non potesse cambiare lo status quo, Isella invece propone: atto creativo inteso nel suo potenziale fattuale, e quest’ultimo accostamento non sembri utopico. L’arte cambia le cose, perché cambia le prospettive interpretative da cui dipendono i nostri atti, la nostra disposizione verso il mondo. Non si tratta semplicemente di astrarre, nel passaggio di scala tra individuo e società, perché il quid che si perde è esattamente quello che non può essere tenuto sotto controllo. La funzione del poeta-intellettuale è questa: allargare la frattura, mostrare l’inconciliabilità dei concetti presi dal lato del singolo e dal lato della collettività e servirsi di entrambe le sponde per puntare i piedi e darsi lo slancio, ricreando ogni volta una nuova pedana di scontro.

L’uroboro clientesco
accerchia la casa e ringhia

Consegna macerie di muscoli al taglio

Ma la coda è a sua volta circondata
da una cinghia che in monitor s’allunga
e ha gli occhi di bue dell’erbavoglio.

Credere soltanto a una contrapposizione è letale: i concetti sono innestati l’uno nell’altro, frastagliati e intrecciati al punto da risultare indistinguibili, eppure, ciò nonostante, antagonistici e irrisoluti. La polimorfia è insediata nel cuore stesso del processo d’interpretazione del reale: ‘succiaromi’, ‘beccuzzato’,  ‘similbianco’, e riverbera i suoi effetti nelle ulteriori due sezioni de L’occhio piegato, imperniate una sulle banche, Migrante in Ade, e l’altra sulla libido censurata: Censuralbe.   Il linguaggio più algido, costruito con apparente logica (“geometrica legge è neutrale stilema”) o simbolico, avendo avuto cura di svuotarne il senso (“rostro del salmo / punteruolo // lì si smarrisce l’accordatore”) rende palese che il linguaggio è, appunto, strumento essenziale nella lotta a una lettura dogmatica e rassegnata.

Prima che l’arco d’angelo
Abbandoni il palato
Uno sperone d’ombra
Deformi il vagíto

Risuona l’eco delle parole di Benjamin, che avevamo già ritrovato nel tema della merce-feticcio, nella sua subdola e poliedrica valenza, in cui l’immagine – e  si ricorda che la poesia di Gilberto Isella è essenzialmente  visionaria – ha un ruolo interscambiabile nel processo di ricreazione del dato reale. E’ strumento di riassemblaggio.  Non solo, dunque, le parole aprono le cataratte del cielo semantico, ma anche le immagini fungono da meccanismo che fa scattare serrature: “Da sempre n’importe où  / sotto vuoto l’immagine  /  la rete sua vinta / l’oculo a pieghe”. Non distante quello sfondamento del finito che Giordano Bruno aveva inaugurato e che trova esplicita citazione nei versi, quasi una spolverata che indora il tutto coi suoi venefici strali:  “inabissi la bestia nella luce”, “e la bestia vola”  e che vale come dichiarazione di poetica: l’immaginazione può tutto e il contrario di tutto.

                                                                                    Rosa Pierno

giovedì 7 gennaio 2016

Pierre Boulez “Pensare oggi la musica”, Einaudi, 1979


Un libro importante per la critica musicale è quello  tagliente e fermo di Pierre Boulez Pensare oggi la musica, datato 1979, capace di rispondere  non soltanto alla domanda su quale funzione debba avere la critica, ma a quella molto più scottante di quali oggetti e con quali modalità la critica debba svolgere il suo compito e il compositore fondare il proprio oggetto estetico.   

Se, Considerazioni generali, può considerarsi capitolo introduttivo a tratti giocoso, l’ultimo, Necessità di un orientamento estetico, vede calare un netto colpo di scure su imprecisioni e posizioni dimidiate, portando a isolare nella radura così disboscata, l’indissolubilità di forma e contenuto e cioè tra tecnica e concezione estetica e mostrando quanto non si possa dare nell’opera compiuta nessuna struttura che possa da sola esautorare il prodotto creativo senza al contempo considerare il senso della operazione che si sta attuando.

Non è banale tale assunto, il quale, fra l’altro, traina con sé una serie di corollari che definiscono il ruolo del tutto fuorviante della spontaneità e dell’istinto, di matrice romantica, contro la riflessione  mentre si caldeggia una ragionata adesione a un posizione teorica scelta con ponderazione. Non si può aderire per la sola forza di una preferenza emotiva a una tecnica di cui non si sia preliminarmente sceverata la validità formale e altrettanto vale per la posizione estetica.

La realizzazione, dunque, come rapporto di pensiero e tecnica, che Boulez vede vacillare nella produzione dell’epoca, aperta a uno sperimentalismo privo di costrutto o troppo assecondante rispetto alla vulgata del momento. Il compositore fa esplicito riferimento all’assunzione all’interno della tecnica musicale delle caratteristiche di altre discipline, la quale mostra quasi una sfiducia, in alcuni, per gli “aspetti morfologici” o un’allergia a ogni concetto estetico, in altri. La scissione fra forma e contenuto, presente a suo avviso in molti suoi contemporanei, provoca per Boulez danni irreparabili.     

Nemmeno la storia riesce a vagliare esiti maggiormente validi: “L’aggressività dello sguardo storico rende poco; si riduce spesso a giudizi umorali, psicologicamente interessanti ma privi di generalità: destinati dopo tutto a rimanere <>!”. Occorre “riconoscere che l’ascendente di certe opere, di certi compositori non è forzatamente immediato”. Analogamente, non è possibile avere la consapevolezza di tutti gli aspetti del presente anche nel momento in cui lo si sia abbracciato nella sua totalità, per ciò è d’uopo un processo elaborativo che verifichi la validità di taluni elementi in relazione alla propria attività.   

I procedimenti di scrittura musicale sono mezzi “perfettamente adatti all’invenzione di un dato compositore”. È necessaria “una conoscenza reale delle leggi grammaticali alle quali obbediscono” al fine di non cadere nel manierismo. “Qualsiasi riflessione sulla tecnica musicale deve trarre origine dal suono, dalla durata, dal materiale sul quale lavora il compositore”. E come esempio, Boulez afferma che non vi è alcuna garanzia che certe forme di permutazione matematica o di forme cifrate  – le quali forniscono una guida  rassicurante, ma non creativa – abbiano validità qualitativa se immessa nella struttura sonora. Allo stesso modo denuncia carenza immaginativa in chi introduce concetti filosofici all’interno del fatto sonoro. Soltanto “la padronanza del linguaggio implica una conoscenza tecnica approfondita” al fine di dominarlo e non soltanto di fornire idee al suo impiego. 

La musica merita “un campo di riflessione che le appartenga in proprio”. Gli apporti esterni possono funzionare per analogia e “non con un’applicazione letterale priva di fondamento”, pena il ricadere nell’arbitrario. Il fenomeno musicale se richiede un pensiero specializzato, richiede altresì l’analisi del suo stile, tenendo ben presente che è pressoché impossibile “voler analizzare in un unico modo il processo della creazione”, il quale, fra l’altro, necessità della giustificazione collettiva.

Boulez affronta vari nodi teorici: il problema della tradizione, del dialogo tra ragione e passione, del ruolo fecondo del dubbio e del sostegno appassionato alla ricerca, accendendo poderosi fari sul “potenziale di incognita racchiuso in un capolavoro” e sulla necessità di uno specifico pensiero musicale.


                                                                         Rosa Pierno

sabato 2 gennaio 2016

da "Le carte dei poeti", mostra al Museo Civico Villa dei Cedri, 2015


Enrico della Torre, Materie, 1990, pastello su carta




Gilberto Isella, Materie,

Quella tavola azzurra,
che antiche piste deduce
da un orizzonte finito in guazzo

Ora esso è lì, col gioco luminoso
dei suoi scarti
aggrazia due scimmie speculari
ne salva i profili in pure essenze

Per la materia
è tempo di salpare
verso l’arbitrario più nascosto

Portico scavato sotto strada,
oscura brezza in trasparente libagione

E per giri di aperto e chiuso
come per catturare porte
un soffio
il più-che-terrestre
sposa il gesto dell’imitante




Sergio Emery Ville venete, 1983 tecnica mista su carta



Rosa Pierno, Ville venete

Con le bambole di pezza si tiene ancorato alla terra, a essa legato senza remissione. Bambola è simulacro di sé, oggetto di scambio che salva entrambi i contraenti: uomo e sistema. Bambola ti sta affianco, ti assiste nel viaggio, ti sostiene crudelmente, digrigna i denti, ti porge, come serpente, realtà adulterata e monca. Ti insinua in scorci parziali, artefatti, in paradisi artificiali. Bambola è viatico per attraversare la desolata landa di polvere e fango o galleggiare sull’acqua con lo sguardo rivolto alla sgombra celeste volta.   Il nero, appesantendo con la sua zavorra le lievi parti chiare,  sottolinea l’estraneità delle membra, distanti dal corpo vivo, che dall’angolo osserva lo spettacolo. Eppure, esse ancora afferrano la mente, trainando in vorticosi moti, sfondando l’immobilità della materia inerte. Ignude, e coi cerchiati occhi, prive di arti,  vitalissime e smorte, del medesimo colore della cenere, s’involano come libellule in un promesso cielo ove il pensiero alligna e non demorde.




Dal catalogo “Le carte dei poeti”, mostra al Museo Civico Villa dei Cedri, Bellinzona, 2015, edizioni Pagine d'Arte