domenica 31 luglio 2016

Davide Cortese su "erbaluce" di Francesca Moccia, Edizioni l'Arca Felice



Massimo Dagnino, Pipistrello-vampiro genera anatomia, matita su carta 2014


L’esperienza compositiva della plaquette ‘erbaluce’ di Francesca Moccia (Edizioni l’Arca Felice; collana “Coincidenze”) si configura come un transito di elementi dalla realtà, vissuta direttamente o attraverso altri, al linguaggio, in «una sottile lesione di pronuncia»: i materiali che compongono le liriche, esclusivamente d’amore, grazie ad una limitata e definita gestazione, si dispongono per permeazione, come di «Mani in adiacenza», dove il «filamento rotto» del vissuto viene restituito, nel testo, con un’acquisizione di connotazioni, che rivela una nuova «densità (…) del nome».
Il controllo del  travaso, operato da un «cuore isolato dal senso», è tentato nella forma: i potenti enjambement («L’acqua quando cade/ riempie la tua bocca era/ sera fino a  poco fa e il/ buio accade ora nel cielo») inseguono gli scarti emotivi e metaforici generando però, a loro volta, un’altra «figura» che continuamente «scema(...)/ nella tasca del bosco».
I disegni, e la foto, come tavola esterna, di Massimo Dagnino, con il loro proprio linguaggio, lavorano vicino ai testi, fino a quasi intrecciarsi. Lo sguardo da luogo a una relazione, dove pezzi di corpo e scenari, come quello della «Spiaggia di Voltri», entrano in contatto generando un «Anatomopaesaggio»: zona franca, entro cui gli elementi, compenetrati, si rendono in una forma, in una natura, sempre in divenire.

Il sentimento amoroso, durante il corso dell’opera, subisce continue fluttuazioni di ruolo.
Declinandosi come minaccia («lunghe onde erano venute/ a lambire cuore e sangue») o presenza rassicurante («Un mare profondo,/ insiste per scaldare») e nonostante una fitta di parole ricorrenti sembrino incarnarlo resiste a una “decifrazione lineare”: rimanendo, piuttosto, come dice Maurizio Cucchi nell’introduzione, una “sostanza”  che “sorregge l’intero, misterioso percorso di ogni singolo testo”.
Nei confronti dell’amore, l’autrice, non si pone frontalmente, ma, agisce in maniera laterale: arretrando quasi sullo sfondo «le onde del mare», il resto della poesia si concentra verso l’ambiguo di una «terra salmastra» o di un «crepuscolo», dove «l’emozione scissa dalla pianura» mette in luce i processi nascosti («i miei passi dimenticati), che compongono l’amore, o  lo mettono in atto.
Elemento, esso stesso, di transizione, e attore nei luoghi di «acqua fra sabbia e terra», il motivo del ‘risveglio’ si riverbera tra la pagine. Il momento in cui si passa dal sonno, durante il quale si è «fibra bianca», pura potenza, alla veglia, quando si dovrà assumere una forma, la propria, costringe all’acquisizione di un limite, di un’identità, che espone al rapporto con il mondo, con l’altro e con l’amore.

«L’alba», allora, è «una ragnatela/ divina che imprigiona l’anima»: la presenza «scatena la caccia», «la preda» che la subisce «ansima in cerca di vita».
Lo sdoppiarsi della voce, da femminile a maschile («ridotto, ferito/ chiudo la strada»; «disteso immobile sulla sabbia/(…) fingevo») è il concretizzarsi del tentativo di fuga, ma che al termine della «corsa del treno» porta verso «nessun indirizzo» si rimane, soltanto, una «figura irta» imprigionata «come un porcospino su un foglio bianco».

                                                                                                     Davide Cortese


domenica 24 luglio 2016

Marco Giovenale "Il paziente crede di essere" Gorilla Sapiens, 2016




Un'analisi sui limiti - quando i limiti sono ambigui e si collocano trasversalmente fra un oggetto e un altro, anziché definire i singoli profili, e sono immersi nella nebbia, poiché anche le condizioni metereologiche complicano il quadro influenzando le percezioni - delinea il quadro problematico del testo di Marco Giovenale. O meglio, della serie di Racconti, forme intermedie, prose (in prosa), inconvenienti, dissipazioni dopo, come recita il sottotitolo dell'ultima raccolta di prose Il paziente crede di essere, Gorilla Sapiens, 2016.

Persino le cose separate, se sono abbracciate, non sono più distinguibili: i corpi. È,  dunque, impossibile distinguere dove finisce l'io e dove iniziano gli altri, il cerchio intimo dell'uno, le disgrazie della collettività. Ma nemmeno per un istante si può riscontrare estraneità nell'occhio che scruta e pensa, invischiato com'è nei luoghi e nei percetti, sentimentalmente  coinvolto, crudamente separato. È un occhio che guarda ciò che sta sotto e ciò che sta sopra: è un occhio pensante. Oseremmo dire, metafisico.

Il metafisico reclama la classificazione, sotto l'egida dello scientifico, fosse pure dei casi umani, il che determina uno scacco, come avviene nella prosa di un Kafka ironico, in cui però la denuncia non è per questo meno fittizia né meno dolente. Il vero snodo, sembra risiedere nella composizione e ricomposizione: nella scomposizione che non ha nulla di analitico, nella neoformazione frattale, che al fine assembla l'identico da che riscontrava il diverso e viceversa. Non sarà in nessun caso questione di logica! O forse solo di una logica oulipiana.

La classificazione diviene perigliosa se non si attua rispettando le regole. La differenza si perde senza che sia mai stata chiara l'appartenenza a una medesima classe. Mancanza di logica non è detto che sia assenza di una logica perversa: l'orologio acquistato che purtroppo non è rotto, le persone che sono in fila, accanto al morto, per farsi derubare e assassinare, l'installazione con porte che non si aprono e con scale prive di scalini e che ciononostante necessita di un guardiano che "dovrà avere l'accortezza di interdire al pubblico l'accesso fisico alle installazioni" ove però "Il guardiano non può far parte dell'installazione".

Di Marco Giovenale si conosce d'altra parte anche la produzione artistica, la sua attività fotografica che s'innesta nel testo, non solo perché presente allo sguardo del lettore tramite citazione, ma anche perché l'opera visiva figura in esso come sfondo, a tratti, al posto della città.

È il sogno, il luogo in cui si riscontra la mancanza di logica o la sua assoluta presenza - il che è lo stesso. Il cane che al posto delle zampe anteriori ha due braccia umane "È solo un diverso tipo di cane". È una sorta di disegno alla Esher, qualcosa che da cattivo diviene buono, o l'inverso,  sotto il medesimo sguardo, senza soluzione di continuità. D'altra parte, è nota la posizione di Poincaré che riconosceva alla scienza la sua distanza dalla verità, in quanto la verità è una questione d'interpretazione, mentre lo spazio geometrico non è lo spazio rappresentativo: le geometrie, in quanto convenzioni, non sono suscettibili d'essere vere o false.

La paradossalità è, pertanto, presente in quanto veicolata da una razionalità che si muta nel suo perfetto contrario ed è presente nella città descritta da Giovenale in quanto, pur nascendo come aggregazione di individui, diviene lo spazio in cui l'individualità è negata: è l'istituzione, infatti, che vuole organizzare l'umano, inserendolo in binari, insufflandolo in tubi pneumatici,  preordinandone il tragitto, e come potrà l'arte in questo universo-mondo trovare il suo grado di libertà? Forse è nell'accumulazione, nella distorsione del senso, nella deviazione subita dal soggetto - un soggetto sguisciante e amorfo come i personaggi beckettiani - che si può rinvenire la chiave che consente l'uscita. Un'uscita verso un mondo parallelo, incompossibile anch'esso, però, ne siamo certi!
                 
                                                                         Rosa Pierno


-zoon

Pulisce con una salvietta umida la plafoniera della lampada alogena, polverosa sì ma cosparsa in particolare di resti - a migliaia - di piccolissimi e piccoli insetti. Alla fine sul riquadro umido della carta rimane una media accattivante, neoformazione e bolo, insetto somma di molti, coalescenza di mandibole aline zampe frantumazioni di creste, un crepitio visto, dedalo, frattale, una variazione genetica post mortem. Necrozoon


Interni

Senza dubbio una parte vuota dello specchio ovviamente vuoto riflette ovviamente il dubbio di Lia  sulla presenza dell'amica col suo stesso nome.

A sua volta, una parte del nome, con il suo non diverso specchio, riflette col suo sistema di vuoti legati la mancanza doppiamente cava del dubbio di Lia.

Di questo parlano all'esterno della gabbia i domatori.



lunedì 18 luglio 2016

Isabel Pavão "Ten impressions of rose and sea" con poesie di Nuno Iúdice. Pagine d'Arte, 2016







Il fluido che scorre nelle venature della  vegetazione marina, nei quadri della pittrice portoghese Isabel Pavão, irradiandosi dispensa colore e volume. Rende il foglio, erbario di alghe e coralli, nuovamente sottese alle correnti profonde.

Le immagini costruite tramite una simmetria realizzata da quattro specchi che, replicando una parte dell'alga o della rosa ne ricompongono la figura, evidenziano che in realtà quella rappresentata non coincide con la figura intera riscontrabile nella visione reale. La simmetria è un altro modo di pensare, appartiene a un altro ordine di idee, e tale distanza equivale, in qualche modo,  a quella che esiste tra segno nell'immagine visiva e segno nella scrittura.

A volte, nel cuore dell'immagine c'è un quadrato ruotato che sembra una porzione del medesimo oggetto, ciò che sarebbe visto al microscopio o da una distanza siderale, è lo stesso. Quando si parla di segno, si compie un'astrazione. La sua contestualizzandone può subire un'oscillazione anche forte in funzione dei diversi contesti interpretativi. La perfetta macchina costruita da Isabel Pavão mostra il funzionamento di un segno che gioca a più livelli, che non blocca il segno nella sua fissità, ma ne rilancia l'interpretazione, scatenando domande, e facendo scattare il moto nel cuore della visione su carta.

È sufficiente vedere quello che accade quando all'interno di un'immagine se ne seleziona un riquadro, colorando diversamente fondo e oggetto: in questo caso, fondale  e nervature, il che equivale alla sovrapposizione di un vetro colorato. Cambia il mondo, variano le sensazioni, quasi la materia non sembra più la stessa. Il riconoscibile, ciò che ci è familiare, diventa analogo ad altre cose, anche molto distanti,  mentre rende estranee le altre aree,  non coperte dal "vetrino". Nulla dovremmo mai dare per scontato. La realtà non è che un modo di vedere/pensare  e mai dovrebbe dipendere da un'abitudine, da un atteggiamento privo di curiosità. Ciò che vediamo in un quadro non esiste. Ma all'improvviso fa parte di noi.

Allo stesso modo l'operazione che il poeta portoghese Nuno Júdice compie, guardando le opere di Isabel Pavão, è simile  a quella di seguire le tracce di un eco: non è un'operazione che possa ricucire le distanze. Lo dice splendidamente Yves Peyré che commenta, nella postfazione, l'incontro di arte e poesia: "L'incontro nell'utopia della certezza", poiché tale incontro eppure avviene.  Il testo insegue la visione, eppure seguendo se stesso, le proprie parole, e rimanda a sistemi culturali proliferanti che si sommano e si ammagliano senza però che mai il bersaglio possa dirsi colpito. In fondo, non si tratta mai di centrare il senso, ma di costruire la rete dei lemmi, della proliferazione del senso e mai come in questo caso le venature linfatiche di Isabel Pavão sembrano sostenere quelle letterarie di Nuno Iúdice:

Un compasso de nervuras percorre cada
ângulo numa crispação de ramos. Suspenso
no quadrante celeste de onde
o sol se ausentou, o prumo do amor
rege um movimento de braços
no emaranhado dos ramos, como
gestos leves no silêncio
dos lençois.

Una vicinanza ineludibile forgiata dallo sguardo determina un'ostinata distanza nelle ramificazioni del senso poetico, disegnando una rete non meno fitta e ricca di rimandi, qual è di fatto quella presente nei quadri. La sapienza con cui il poeta segue l'artista non è certo meno edotta né meno complessa. Se la divisione in riquadri, nei quali si percepisce non si sa bene se una micro o una macro porzione, rinvia, nelle tele, all'esistenza di diverse realtà, ciascuna dotata di un proprio statuto, nella poesia si dà fondo a impressioni letterarie, visive, memoriali riferite a più realtà contemporaneamente. In tali stratificazioni pare allora di poter cogliere la vicinanza delle due operazioni, il luogo in cui attingono, arte e poesia, alla medesima sorgente.

Certi meravigliosi incontri ci rendono edotti sulla miriade di reti con cui formiamo la nostra realtà percettiva e ci fanno solo desiderare che certi incontri impossibili siano all'ordine del giorno, come da anni ci va proponendo il lavoro di ricerca di Matteo Bianchi e Carolina Leite su tali universi smisurati, frutto di una simmetria d'intenti.

                                                                                   Rosa Pierno



www.paginedarte.ch

Il volume è redatto in portoghese, francese e inglese


mercoledì 13 luglio 2016

Seconda parte del testo "Cuffie deserte" di Gilberto Isella





  [INTERMEZZO ONIRICO, LABIRINTICO RISVEGLIO]


   Strisciamo nella pre-torba. Immagini morbide di morte serpeggiano tra le meningi, il pulviscolo intasa i timpani, si preparano scatti sinaptici sostitutivi. La palta confina con le  tomaie cerebrali, diventa il loro torbido confine. Su di esse cala una cuffia intasata di cacofonie ghiaiose, che volgono in gutturale sospiro. Fossimo almeno su terre. Trasciniamo, lottando col fango, un rugginoso carro (forse) stipato di attrezzi. Vorremmo pregare e in pari tempo bestemmiare. Sul carro spira vento acre, non ne conosciamo provenienza. Fa stridere impugnature ma è scomparso il corpo dell’arnese, vanga o piccone che forse, di malavoglia, un tempo usavamo. Del lumacume invischia le nostre affondanti calzature, tumidore di mollusco attenta le zone alte del fortino corporeo, o quel che rimane di esso. Sentiamo il risucchio delle gambe nei calcagni, il cigolio cadenzato delle vertebre dorsali, nessuna delle quali sta ferma al suo posto. Squittio in sordina. Si formano intercapedini. Tra le vertebre passa un volo di pipistrelli, finché ci prende voglia arcana di separarci da noi stessi, gridiamo “aiuto” al dio bendato che preme sulle cuffie. Il carro si arresta al limitare di una massa di organismi violacei, si svuota. Si svuota di noi, felici perché il nostro dissolversi, per quanto accumuli densi vapori e caligini, è corollario di vita. Contenti di trasformarci in riserva paludosa, biotopo dal volto cangiante. Siamo impasto di rane e canne elaborato da un ventriloquo in noi vento notturno, porzioni di prolungamento palafitticolo, magma da supporto a cemento armato
in espansione, tenero albergo Hered
                                con camini e camere
                                                   ardenti, verso cui
                                                                            esaliamo
                                              • • •

                                                 
                                              

                                                      Alla vendemmia ferita di noi morti non satolli
                                                      portaci un vassoio di locuste in allegria,
                                                      impenitenti dal tempo del deserto.
                                                                                                             Emilio Villa 

  Locuste non incombono, o solo su display mentale. Voli di storni sì, appena visibili in lontananza, il motore affronta, rimodulandole, placche elevate e falsopiani. Qualche raro giuggiolo e palmizio, oltre a rabberciati, spinacciuti cespugli non identificabili. Yoram, taciturno, si limita a segnalarci il passaggio di due ieratiche cicogne delle steppe. Probabilmente domani avrà qualcosa di meglio da dirci. La sonnolenza postprandiale è vinta dalla certezza di avvicinarsi alla regione di Makhtesh Ramon, il cratere spento.
   È curioso come, percorrendo un deserto, l’individuo tenda a rompere i ponti con lo spaziotempo reale, l’occhio si sfogli e sfarini, obliteri il generico panorama esterno, si arrotoli nelle celle disabitate dell’io. “Veni creator Spiritus/ mentes tuorum visita”, supplico tra me e me, cercando un virgulto nella misterica preghiera di Rabano Mauro. A poco a poco, quasi timidamente e senza violenza alcuna, il deserto ritira al viaggiatore il pensiero – passaporto inutile per questo imperscrutabile faccia a faccia  -  e se lo serba in pegno. Gli offre, per risarcirlo, una tabula rasa, il vuoto del ricominciamento, le campate dell’ascolto e della responsabilità. Silenzio da decifrare, ma nell’attesa di un codice che per consuetudine ansima, stenta.
    Emilia è concentrata su Giuda, al capitolo dove si parla dell’esodo di Shemuel: “Qualche mese prima aveva letto sul giornale di una nuova cittadina che stavano costruendo nel deserto, sul bordo del cratere di Ramon. Non conosceva anima viva lì…”, e aggiunge a voce alta: “E noi stiamo proprio per arrivarci!”. “Vi state familiarizzando col Neghev?” interviene con discrezione Yoram, “peccato siate venuti in tarda primavera. Per capire il senso profondo del deserto, almeno secondo noi ebrei, è indispensabile mettere in relazione la sabbia con la tenda. Se ci tornate in autunno potrete partecipare al Sukkot, che è la Festa delle Tende o dei Tabernacoli. Rimemora e celebra l’erranza degli Israeliti nel deserto durata quarant’anni, prima di raggiungere la Terra promessa. In quel periodo, appunto, essi vivevano in tende o capanne. Per voi, beh, ora c’è il lussuoso albergo Tiféret… immaginatelo una tenda di pietra, seppure dotata di conforti elettronici. Buona fortuna, vengo a prendervi domani”.

   Nel cuore dell’altopiano la pionieristica, poco attrattiva città di Mizpe Ramon si snoda alle pendici dell’enorme cavità, il Makhtesh Ramon, che sprofonda per quattrocento metri di collera divina e asteroidea, mandando in polvere mappe e piani cartesiani. Una prosecuzione filosofica, una replica lavica del Mar Morto. L’avveniristico albergo Tiféret – eccolo svettare  - strutturato in moduli abitativi simmetrici e in sostanza niente male dal profilo archi-teatrico. Ogni sua suite dispone di piscina, collocata sotto l’ampio balcone. Aggetta spavaldo sul cratere, costringendo per così dire gli ospiti a mutarsi in ossessivi fruitori di vertigini, a trottolare nottetempo con turbini giallo-ocra. Ramon multiprospettico,  palestra di sguardi rientranti, onirici. Il convesso sistemato a bivacco sul concavo,  carapace frenato sull’orlo dell’abisso. Comunico a Emilia, che, non appena riposta la valigia sul letto, impaziente vorrebbe sgranare
                                                                                         sgranare il rosario dei gradini e toccare uscio,  incamminarsi sui ciglioni aspri e slabbrati del paesaggio che ammicca oltre la finestra, le comunico un pensiero d’allocco: “Ci troviamo in una proiezione distorta dell’eternità, nel suo rassicurante simulacro postmoderno”. “Ave, cervello in tilt”, conclude lei. Le replicherei volentieri che ogni punto di vista umano, il mio il suo, è solo un infimo frammento
                                                                                                            un infimo frammento del deserto occhiuto che si sbriciola in noi da sempre, coronato da un bianco che nulla emana e nulla trattiene, il metafisico bianco delle pagine  bianche. Che siamo giunti a un sito dove l’interno non si distingue dall’esterno perché, come dice Edmond Jabès, “Il dentro e il fuori sono soltanto la parte arbitraria della divisione di un infinito-tempo, per cui ogni minuto rimette costantemente in causa il centro”. Centro e soglia a piacimento. La soglia simbolica di tutte le case d’Israele, dove accanto alla porta d’entrata trovi un astuccio metallico contenente la Thorà. Domestica voragine in forma di spilla, fissata al muro come un geco incolore. Parola divina che si occulta per difendersi dalla violenza di un mondo autarchico che ha ripudiato le proprie soglie.

    Scrutato da presso, nella sua evidenza geologica, il cratere non presenta granché  a parte il fascino crudele del dislivello: una lunga faglia piatta, si dice popolata da feroci ma invisibili leopardi. Il cratere ripercorso nella rêverie, invece, gola frastagliata e gravida di effetti ottici, è chimera siderale. Basta un capogiro, un lieve sbalzo di pressione, e inquiete sagome si levano.
   Saliamo  la  sterrata, breve tratto. Ci teniamo per mano, avanzando con le scintille negli occhi, sono folletti di fuoco estromessi dalle mobili soglie del circostante.  Improvvisiamo una ronda intorno alla gran bocca defunta che veglia su di noi. Sfaccettature di panorama polimorfo. Nervature, ripiegamenti, fenditure e spuntoni di roccia si mutano in spire, quasi volessero avvolgere  fettine d’universo tornate d’improvviso diafane e imponderabili, umida insorgenza. Alle spalle il guscio sonnacchioso del Tiféret. Modesti esercizi d’equilibrio: lanciamo ciottoli nella gran buca, oh non piombano, scendono come piume! Un sorriso, poi qualcosa succede. La buca si sta riempiendo di tende rotonde, o forse  sono altra cosa, distanza inganna. Che siano le testoline già conosciute da noi  nel Mar Morto, consegnate per un attimo fuggente a lave e basalti? Cuffie d’uomo che voleranno via, e  qualche falcone di passaggio le carpirà. Si alza, improvviso, il vento rosicchiante del crepuscolo, torniamo sui nostri passi, rientriamo nell’effimera tenda abramitica, per un pugnetto di ore. 

  Ospitalità, solo fisico passaggio, transito di anonimi. Nella sua sciagurata maestà il deserto ti costringe a un simboleggiare impotente. Accumulo di tracce che non hanno direzione, orientamento. Forza della terra nuda che  ti trattiene e nel contempo espelle dal suo grembo, ti getta nella specchiera della  disparizione. Ora il tramonto getta bagliori obliqui, l’atmosfera  si ripigmenta, straterelli di tinte friabili che volgono al cupo,  e allora perché
                                                                                                 perché rimanere così a lungo in questa camera? “Vieni, corri sul balcone”, la voce di Emilia mi scioglie dal torpore, “ma non dire una parola”. Lì sotto uno stambecco del deserto, occhi bruni e corna alpestri, attratto dal richiamo dell’elemento vitale, si sta abbeverando alla piscina. Assorto, non si cura di noi. “Come la cerva sospira le sorgenti dell’acque, l’anima mia ti desidera…” (Salmo 42). Icona della terra, il suo esilissimo invìo di luce maculata ci accompagna giù per la scala.
 E domani, nel vortice del tempo, questo giorno sarà un giorno qualsiasi trascorso, una  locusta errante.                                                                                     

     



     

Un frammento inedito


Pagine di muro gerosolimitano


 Quel terreno non ha nome che ne inquadri zone, nessun raccoglimento lo piega a vela, pietre gemelle solo a emanare orienti
uniformi che si annerano.
  
   Hakotel Hama’aravi, tempio di Salomone. Parete il cui duro sasso piange, e tutt’intorno le pagine di un libro. Assonometria cupa, cucita nel provvisorio aperto. Pagine non in ascesa non in discesa, nubili èsche. Viaggiano per tramite di aere fermo, direzione informulabile, formano alta piramide dalle cento facce-fogli. Cento facce, altrettante ecatombi? Scorze che procedono, camminano nel mondo, poi nell’oscurità convergono.
   Emilia ed io avevamo passeggiato su una scorza di tappeto. Tappeto, lungo fulmine piatto, carro di concatenati tizzoni, mormorativa lingua di soli nodi dipinti, tappeto uguale a libro di lentissime stille. Dona flusso, perché deriva dall’albero di pianto e conoscenza. L’aveva scoperto, Emilia, presso un rigattiere sulla Via Dolorosa. “È fatto con tefillin tenuti insieme con la colla. Non è stato concepito per voi, ve lo vendo per mestiere, ma non parlerà a voi”. Titolo da tradurre forse così: Pagine di muro gerosolimitano. Autore: l’eterna fumata di rovine, colei che gli sguardi derubricando installa. 
  Cupolette d’ologrammi, noi due, sul volume. Vi abbiamo infilato cento segnalibri multicolori, uccellini pronti a volare
                                     a volare dal e nel libro. Dentro, fuori, l’appena dove che, diafano, protegge le pietre. Tappeto a spiccare aspro volo, combusto in traiettoria. Diviene, prima di desolarsi in cenere, cento cantillazioni per fessura, cento danze della schiena, sono i supplicanti in nero, sotto pellicciosi copricapi chassidici. Veniamo scansati da un rabbino coperto di balsami: “A causa delle mura che hanno abbattuto, siamo seduti solitari e portiamo virgole tristi”.  Lutto d’armatura retrocessa, sospettiamo Michele Arcangelo, lacrime spillate dalla mappa delle quattro regioni del mondo.  Tre volti animaleschi – Leone, Toro, Aquila – e l’Aquila ad ardere il volto dell’Uomo. Sospesi
                                                      sospesi come dolo d’oriente dentro la nostra faccia cupola e due fori, strozzati da pagine e pagine, assediati da punteruoli di scritture. Decifriamo su  nuvola che rimonta alla Spianata
un nastro di parole lunghe, con “Muore imitando l’astore notturno vibrante nelle intercapedini, per altre vie di fame si è giocato il midollo
e dentro la mela di bronzo che i martelli picchiano
per farla suonare
ha incontrato il dolore orientale”.
E dall’altra metallica bocca del nastro : ““Gli assi del mondo s’incrociano in un ventricoloso centro, nell’arco calvo della campana spunta il batacchio-labirinto”.

  Dietro a quell’enigma di pietre di ammonticchiate che ci sovrasta, siede un grande occhio. Da spiragli fuoriescono rantolii di shofar. C’è, tra gli astanti, chi da fonda tasca toglie un cartiglio, povero angolo
                                                                              povero angolo giallognolo vergato. Procede, lo scuote per sincopi, lo preme nella strettoia, blocco di Hakotel inghiotte. I megasassi lasciano defluire lacrime d’issopo e di cappero selvatico, arcaiche sferette di rugiada. Quello che intorno a noi declina è scorza. Non importa: “Dal punto supremo al confine delle cose ogni scorza è un cervello. Una nell’altra, cervello nel cervello, scorza per scorza” (Zohar, Berechit I). Non importa: il rosso tappeto della bocca mia e di Emilia, la lingua del fiato danza qui. Tantissimi tropismi di scorze, verso il vertice pietroso di quella piramide.




martedì 5 luglio 2016

"Cuffie deserte" di Gilberto Isella




Se mai compiere un viaggio è visitare luoghi sconosciuti, essi si  trovano compiuti nella loro estraneità solo al di fuori della nostra mente. È, infatti, essa ad apporgli il sigillo di cosa conosciuta, arpionata, calpestata, ricondotta alla nostra intimità, conservando, solo per puro diletto, angoli di esarcebata resistenza o di tale levigatezza da mostrarla  refrattaria persino alla percezione elementare, alla sensazione fisica. Per quest'ultima via, si danno, nel testo di Gilberto Isella, quelle sacche di citazionismo letterario indicanti zolle di inaccessibilità, campioni di lunare essenza, e la cui indefinitezza dà luogo alla vera e propria escursione in territori non altrimenti restituibili che costituiscono, forse, il momento in cui la descrizione del luogo è quanto più vicina al luogo reale.

Così ci pare funzioni il testo "Cuffie deserte" nato dall'occasione di un viaggio intorno al Mar Morto,  che fra assaggi di dialoghi reticenti fra la guida locale e il viaggiatore, offre un altro spunto di variazione del medesimo: quanto si può percepire/ interiorizzare/pensare/sentire di un terreno che calpestiamo per la prima volta? La letteratura, certamente, non s'incaricherà di fornire pillole dorate e amuleti rassicuranti, e meno che mai nei testi dello scrittore svizzero, non imbastirà descrizioni da cartolina i cui colori siano ritoccati per rendere il luogo prodigioso, anzi, con quel tarlo che sempre mina una vena poetica di fantasmagorico talento, Isella si diparte spesso dal luogo in cui si trova per depistaggi in aree perlomeno non attinenti.

Dove siamo? Qual'è il paesaggio di riferimento? L'ubiquità, essa sì, è manifesta! Con incursioni in settori politici, sociali, culturali, si viene ad aggiungere alla già incerta cartografia, al suo mistero, la zavorra del complesso. I modi in cui narrare un luogo, zigzagando, disseminando, anziché piantar bandiera, sono esposti in questa che viene a costituirsi come una mappa di citazioni, di riferimenti di cui è difficile persino cogliere l'analogia originante. Sarebbe il luogo, forse, dove tutto origina, o forse quello in cui ogni cosa collassa. Da scena nasce scena, per "nuove, bislacche coordinate dello sguardo" in cui l'accumulo, se non delinea un filo rosso che lega le immagini l'una all'altra, almeno costituisce la quantità da cui, forse una volta ritornati a casa, si potrà dedurre l'essenza del luogo.

Che il luogo divenga metafora del linguaggio è metamorfosi che si svela sotto i nostri occhi di lettori: "commento di commenti fino a intravedere sterili contrade, le parole-locuste che ruotano con ossessione intorno a un vischioso cimelio metamorfico, a una  bislunga  bara chiamata Mar Morto." Ma non è per dire qualcosa sul linguaggio. Anzi è esattamente l'operazione opposta che qui s'inscena: con il linguaggio spiegare un luogo, usare le regole linguistiche per addomesticare la belva che si dà alle nostre percezioni come  una chimera.

                                                                                     Rosa Pierno

CUFFIE  DESERTE

                                                                Terre d’outre-nuit que le soleil arrache à
                                                                      la méditation et aux épines du doute
                                                                                                                    Edmond Jabès



   Oltrepassata  la costa in dissolvenza del Mar Morto, le melme diventano strisce compatte di terriccio, scintillano. La strada vira a sudovest ma con  digressioni, tipo ampi tornanti che permettono di aggirare le zone più accidentate. Scarse, a dire il vero. I rilievi si disdicono, timide schiene d’asino e sentore di piattezza incombente, aridità generica e intercambiabile. Scorci di villaggi mimetizzati dietro canne, agavi e pallidi sicomori (biblici a quanto sembra) in lontananza, senza forare spazio. Né beduini né cammelli intorno. L’alfabeto geologico di questa landa è abbastanza atipico, direi senza qualità. Deserto faible, ‘pensiero debole’materializzato. Meglio così. Scenari privi di scenografie forti sono redditizi per immaginazione e  incubi. I Padri del Deserto, gli stiliti, Sant’Antonio insegnano. Mostri, chimere. Anche qui:  immondizia gettata sui cigli del nastro asfaltato installa sagome scheletrine - complici bianca luce e polvere, indefinitezza cromatica -  vedi anche un costolone dracomorfo, il drago distilla subitanee inquietudini, scuote le ali dentro la sonnolenza che ti sorprende nelle ore calde mentre in macchina attraversi questo desolato  territorio.
   Secondo antiche leggende, temibili creature s’annidano nel labirinto di grotte e  uadi che contornano il sito fantasma dell’antica città di Sodoma, maledetta dal Signore, non distante da qui. Basterebbero segnature incise su pietre e incrostazioni,  sgorbi e altre artificiose gibbosità a  irradiare quella lontana  maledizione. Ma attizzatoio di umor fantastico è anche l’immane archivio storico sepolto sotto dure rocce e sabbie. Clangori mai uditi filtrano dal suolo: echi di spedizioni e sanguinose battaglie, ribollimenti del cavalcare e battersi: ruote ittite e assire, frecce partiche, gagliardetti tolemaici e romani. L’antenna iperbolica s’attiva in ciascuno di noi.  Ma non è che per pochi battiti di palpebra, poi il fantastico s’incancrenisce. Svaniscono chimere, voci e cuffie d’ascolto divorziano, restano solo acusmi indeterminati. Fuggifuggi degli incantesimi, tinte e suoni omologati nel baulone del nulla.

 
   Siamo in tre sul pick-up marroncino tirato a lucido: Emilia, io e Yoram, la sagace guida askenazi messa a disposizione dall’agenzia di Tel Aviv. Il deserto del Neghev, appendice naturale del Mar Morto, “senza rischi per la vostra incolumità fisica e mentale” tiene a rassicurare Yoram, sfidando il sopore di noi due, “niente califfi intorno”.  La mia amica alterna acqua frizzante e caramelle al carmol, non scatta  foto dai due giorni  trascorsi sul mare. Si riassorbe, entra in circuiti di autoascolto. Lasciando che si consumino i giallastri banchi di noia - il visibile esterno –  forse medita sul bestseller portato nello zaino come un talismano, il romanzo Giuda di Amos Oz. Mi aveva già reso edotto, al riguardo: “Non esistono traditori e tradìti, Giuda non è Giuda, e probabilmente Cristo  nemmeno Cristo. Tutti siamo attori e complici di un piano universale  di cui s’ignora il senso. Non è detto che l’essere umano sarà redento. Shemuel, avvilito protagonista della storia, cerca fortuna in una nuova città del Neghev ”. “Ci tolga una curiosità, Yoram. Quante volte abbiamo attraversato pezzi di territorio palestinese, da Gerico a qui dove ci troviamo?”
  “Vi sto conducendo nella luce di Israele, e voi vi preoccupate delle sue ombre?”
   La macchina rallenta a uno dei rari incroci. Un cartello indicatore indica Be’er Sheva. Noi dobbiamo invece prendere per Mizpe Ramon. “Cosa ne pensa dello scrittore Oz?”, gli chiede Emilia. Un attimo di perplessità, si passa un fazzoletto sulla fronte: “Troppo astuto Oz, per riflettere l’animo autentico di questo paese”. Cambia subito tema. “Lo sapevate che il fondatore della nostra nazione, Ben Gurion, ha trascorso gli ultimi anni di vita nel Neghev?”

   L’incolumità mentale di noi due: e, al fine di salvaguardarla, come sbarazzarci di Yoram e degli spacciatori di viaggi. Per rendere l’idea, a bruciapelo: del viaggio in sé. Qui, per soprammercato, è come
                                                                         come passare da una cosa morta all’altra, frugare in una pentola vuota. Il Neghev? Ultimo vagone aggiunto al convoglio esplorativo solo per conquistarci quel triangolo isoscele di brullità che completa la carta di Israele. Bastava concludere col Morto, o volare direttamente a Elat sul Rosso. Emilia proponeva un simile bypass. Io esigevo invece ponderazione, mi appellavo a scritture, a segni capaci di sostituire vuoti panoramici, compensare transitorie e frigide emozioni. Mio intento: ricavare da una scodinzolante lista di appunti  un compiuto libro  di  viaggio. E le premesse -  spazio e tempo – dove cercarle? Metter mano con prudenza a storia e geografia? Meglio forse rovistare nelle sacche memoriali dell’io, affidarsi a quei
                                                                                                             quei  ritagli di perturbante (intimo, idiota per eccellenza ) che avevano consentito, poniamo a Joyce,  di mettere in moto l’Ulisse, straordinario poema del narciso leso. Sfilata di soggetti in divenire - tutti riversati in uno - che adombrano processioni di teschi, il passato remoto per il passato-futuro anteriore (o viceversa). Giacché il vero narciso adora intingere il proprio volto in qualche craniospecchio di cultura. Il funerale di Patrick Dignam, celebrato tra pirotecniche discese in biblioteche e birrerie da Ade, valga da paradigma. Segugi spirituali a ogni capoverso, certo, dign(am)ità còlte al volo durante la loro dispersione. Come dire
                                                                                                    come dire lo zigzagare, il disseminarsi del senso a mo’ di duna che si sfalda, commento di commenti fino a intravedere sterili contrade, le parole-locuste che ruotano con ossessione intorno a un vischioso cimelio metamorfico, a una  bislunga  bara chiamata Mar Morto. Distesa di malta salina che finge di portare in superficie ricordi ma è solo pozzo di annientamenti, mare scosceso in se stesso. Che eiacula preziose allegorie, ma non dispone neppure di una riva per accoglierle. E nemmeno simulacri di porti, e la sua fauna ittica fossile è virtualmente mostruosa, raffigurabile ieri e oggi in nere prosopopee di  bitume.
   Eppure è proprio lanciando lo sguardo a quella morta gora che qualcosa,  dalla cultura del silenzio, affiora verso di noi. Una domanda disarmata e disarmante,  la stessa del filosofo Derrida: “Sommes-nous des Grecs, sommes-nous des Juifs?” Insomma, da dove proveniamo, di quali impasti di luoghi e linguaggi siamo fatti? Domanda in standby, da millenni galleggiante - né su né giù - ma in quanto tale al riparo da usura. Ne era ben conscio il grande irlandese.


  Il lago Asfaltite, o Morto. “Amaro e infecondo”, scriveva Flavio Giuseppe, “ma per la sua leggerezza mantiene a galla anche gli oggetti più pesanti che vi siano gettati dentro. Quando Vespasiano si recò a visitarlo, ordinò di gettare in acqua alcuni che non sapevano nuotare, con le mani legate dietro la schiena, e tutti tornarono a galla come fossero spinti verso l’alto da un potente soffio” (De bello judaico, IV, 8).
   Pervenuti a quelle sponde, noi, due giorni fa. Yoram  approfitta per chiederci con sinuosa gentilezza un po’ di congedo. Ovvio. “Godetevi En Bokek. Non dimenticate di prendervi un bagno, certo l’acqua non è quella del Giordano, guai a immergervi la testa, ma ne scoprirete immediatamente i benefici”.
   En Bokek, ex pugno di casupole ora cittadina balneare, quattrocento metri sub limine. Complesso di alberghi lussuosi, a metastasi. I fanghi del Mar Morto, terapia ineguagliabile contro verruche, incartapecorito derma, invecchiamento. Cloruro bituminoso a profusione, scorrente in creme e pomate. I ricchi dannati della terra convengono qui. Mare da obitorio che ridarrebbe vita alle stoppie. Di fronte a noi i rilievi sulfurei della Giordania. L’albergo Hesed, gestito da joint-venture russo-israeliana, è uno dei più rinomati, dialettica di fitness e ottimismo culinario. Difficile raggiungere camera senza aver prima scavalcato palestre o tempietti rigenerativi. Gli ascensori: conventicola di accappatoi e ciabatte in fregola. Gommose istallazioni fitomorfe sui pianerottoli. Varcata la soglia e messa via la tessera magnetica, Emilia spalanca impulsivamente la porta finestra che dà sul mare. Il potente soffio dell’immagine che a noi sale e investe gli occhi ci esonera dal preannunciato rito d’appisolamento meridiano, ora è la ruah di un’altra scena
                      di un’altra scena a impostare nuove, bislacche coordinate dello sguardo. Dietro l’indolente vaevieni sulla litoranea, tra palme stenterelle e una striscia di spiaggia assolata, spicca lembo di mare. L’imago è fermatempo e  fermaspazio, anello chiuso del vedere, immobilità in se stessa iterata. “Mi sento come una cornice che sta per cedere”, esclamo. “Chiudi la bocca, e guarda lo spettacolo”, ribatte Emilia.
   Mare, pelle opalina dai riflessi calcinati. Osserviamo, lì infisse, testoline umane del tutto simili a boe, prigioniere di quel pellicolare elemento. Ciascuna al  suo posto, come se qualcuno le avesse sistemate nella platea di  uno spettrale teatro idrico. Dove si sono cacciati gli arti, dove pulsa il cuore? Come sono entrate, ce la faranno a uscire? Paiono foruncoli d’acqua, bolle di una statica emulsione.   Cupolette della morte.   E se l’acqua si mutasse in ghiaccio, contro ogni logica climatica? Mi viene in mente il nono cerchio dell’Inferno, il dantesco Cocìto, i traditori conficcati nell’eterno  ghiaccio metafisico.  Mi figuro il male condannato al suo definitivo, inamovibile algoritmo, allorché rien va plus. Ma di fronte a questa cefalocommedia, nell’era emancipata del post-tradimento, Giuda e tutta la catena dei suoi discepoli suonano come anacronismi.  Oggetti, semmai,  di un’estenuante  ermeneutica senza sbocco, come Oz lascia intendere. Forse il mal di vivere risiede proprio nella domanda “Chi siamo, da dove veniamo?”. Siamo tutti quanti teste blindate in quella obesa domanda, teste discese in una radura salinizzata dell’essere…
   “Muoviti, scendi con me a fare il bagno, ammesso che quell’acqua sia reale”. Desideriamo uno schianto qualsiasi, sbattiamo la porta uscendo.

   Ed ecco lo squarcio di mare  facciuto. È vero: adesso che le osserviamo da vicino, le teste galleggiano e sembrano perfino distribuire protuberanze intorno, parvenze medusee di gambe e braccia tese in anelito. L’essere con l’e maiuscola in aspettativa,  le sue questioni vicarie negli spogliatoi.  Non sono certo filosofi le persone in posa ironicamente ek-statica che punteggiano questo spazio-tempo murato, soltanto borghesi venuti qui per purgare il corpo. Sbarazzarsi di psoriasi, acni, cicatrici, rughe devastanti. Contrappunti cosmetici al mal di vivere. Impiastricciarsi di sale e asfalto, vagheggiando stupende architetture del sé. Qualcuno si è portato in acqua l’ombrellone, qualcun altro giornale e telecamera, consapevole che qui ogni cosa sta su. E i movimenti? Bracciate-boomerang. Sporgersi un po’ a destra un po’ a sinistra dal proprio loculo, ripiombare di nuovo al centro. Emilia, ottima nuotatrice in circostanze migliori, se la cava con capriole moderate e cantabili. Spingere acqua come fosse montagna, questo compete a me.
   Forse quell’affiorante immobilità è glossa postrema appesa al Vecchio  Testamento, allegoria vivente della statuificazione data in sorte fin dai primordi all’uomo-imago Dei. Yoram ci aveva avvertiti: “Ci troviamo nella regione di Sedom-Sodoma, ma della città distrutta dalla collera di Elohim non resta più nulla, a parte le concrezioni di sale e fosforo”.  Enigmatico, da non venirci a capo, l’episodio della moglie di Lot, che infranse il divieto dell’angelo di voltarsi verso la catastrofe della città maledetta, verso il cerchio di fuoco delle domande insostenibili: “Ma la moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale” (Gen.19, 24-26).  Non voltarti, Lot, non voltarti, Orfeo! Questo divieto infranto, replicato nei millenni, forse è il solo contrassegno d’esistere. L’esistere del girarsi verso l’improbabilità d’esistere.
   Per qualche lunghissimo minuto associati all’anonimo gruppo, passivi in sospensione sull’acqua plastica, piovuta da altro pianeta. Ci viene a noia presto. Tornati a proda, il nostro corpo odora di balsamo.  Bisogna però scongiurare corrosioni cellulari in agguato, rompere oscuri determinismi chimici, correre alle docce. Rapido eppur tenero declinare del sole, i villeggianti riprendono a sciamare.  Ci aspettano pastrami, falafel e focaccette al coriandolo, nella piccola trattoria con la sua passerella che entra in mare e scompare. Occorre mettere in conto un long drink.  Prima di coricarci, festeggiando il quarto di luna calante, giochiamo a tirarci addosso i cuscini.