domenica 27 febbraio 2022

Opera al nero di Fausta Squatriti, mostra/libro a cura di Elisabetta Longari, Magonza, 2021

 



La mostra inafferrabile e affascinante di Fausta Squatriti, Opera al Nero, che si è tenuta a Milano nel 2021, è stata curata da Elisabetta Longari, la quale ha curato anche il pregevole libro edito da Magonza, che vede altresì la presenza dei testi di Luca Bressan e Bertrand Levergeois. Le opere in mostra, presso il Santuario di San Bernardino alle Ossa, colloquiano con le ossa esposte nelle nicchie della chiesa e ne costituiscono l’evento paradossale, in quanto, pur rappresentando teschi e fiori secchi, non si agglutinano all’esposizione dei resti umani, ma rilanciano la loro artificiale natura di simbolo. Le ossa, nei loculi a vista, appartengono a esistenze inconosciute, mentre le ossa rappresentate, in quanto finzioni, appartengono all’arte, che apre spazi di individuata percorrenza.


Un teschio impone sempre il richiamo forzato a un duplice senso: da una parte, non se ne riconosce l’appartenenza a una persona, essendovi troppa distanza tra il volto e la struttura ossea del cranio, dall’altra, richiama il memento mori: il teschio è il simbolo della vanità dell’esistenza umana. Cosicché viene da chiedersi, dov’è la persona, in che modo essa risulta presa da entrambi i concetti: individualità e morte? 

Ogni volta che osserva un teschio, l’individuo non si riconosce né nel teschio né nella morte a cui pure va incontro. Quanto fulgidamente affermava Epicuro diventa inesatto: perché se quando ci siamo noi non c’è la morte e quando c’è la morte noi non siamo più, tuttavia esiste la morte degli altri per i vivi che li amano. Si tratta forse, però, più di un effetto linguistico, analogo a quello per il quale diciamo che il sole sorge e tramonta, mentre è la terra a ruotare. Chi osserva non può sfuggire alla consapevolezza della propria fine. Dunque, la morte irrompe. Straordinaria l’opera di Fausta Squatriti Œuvre au noir: Alter Ego, 2009 (stampa digitale su acciaio, acciaio specchiante, legno, faro con bitume) nella quale due ante dischiuse sono il segno di un’irruzione violenta, sorprendente: fascine di legno di recupero appena cadute da tale armadio, con il loro fragore sinestetico, sono sovrastate da un faro rotto che nega possibilità di far luce. 


Nelle opere di Squatriti emerge quel medesimo ordine simbolico che vige in Melancholia I di Dürer, ivi così potente da tentare di imporsi sull’immagine fino a raggiungere la soglia della prevaricazione. Non sfugge che uno dei simboli amati da Fausta Squatriti sia quel cubo che si colloca fra i solidi di cui la figura melanconica,  nell’incisione düreriana, si circonda. Lo si vede, variamente aggregato, in numerose sue opere: in La Croce (1996-97, in ferro ossidato e patinato) in compagnia di triangoli disposti a raggiera, e in Croce (1997, ferro ossidato e patinato) dove gli assi sbucano da un cubo ruotato a quarantacinque gradi. Nell’installazione Nel regno animale: Ecce Homo (1994, fotografia, acquerello, collage su Kapa-plast, marmo), l’aggregazione è  ottenuta unendo quadrati colorati vivacemente e nasce da un interesse di Squatriti, affondante negli anni precedenti, per la componibilità. A partire da elementi semplici si giunge alla complessità, l’unica pedana dalla quale si abbia accesso a un orizzonte conoscitivo, visto che nessuna astrazione può giungere al suo livello estremo e che le uniche vie alternative di percorrenza si dispiegano nella direzione opposta. Il punto, ad esempio, passando dallo stato di schema mentale alla sua rappresentazione fisica, si ammanta di estensioni che lo allontanano dall’astrazione. Non conosciamo che l’indeterminato variamente concretizzato, mai il puramente astratto.


Ogni oggetto può fungere da simbolo del melanconico stato, che è uno stato dimidiato tra consapevolezza della brevità dell’esistere e inutilità dell’esistere. Circondarsi di utensili e strumenti operativi, concettuali, spendersi nella produttività artistica, possono essere controbilanciati, sull’altro piatto, dalla loro mancanza di senso. Non è perché si fa riferimento al nulla dopo la morte, ma perché è ancora nella vita che si deve guadagnare quel senso ultimo che faccia rilucere come oro persino la perdita più grave. Solo cercando contemporaneamente fra le coppie antinomiche si può essere certi che si siano percorse tutte le strade e che dunque nulla sia stato dissipato. Così l’irruzione della morte nella vita è piuttosto l’evento dal quale tutto comincia o si equilibra. Avvicinandosi sempre di più a qualcosa che sia colto nel suo disfacimento, quei fiori secchi, amatissimi da Squatriti, che sono per lei messaggeri di una bellezza più completa, poiché maggiormente articolata, si trova la bellezza che fu, mentre è ancora; bisogna cercare quel che è fuggevole mentre permane; sebbene in una scala relativa, poiché è la scala dalla quale osserviamo e che non possiamo buttare via. Dunque, da questa dimensione limitata e potente insieme, si possono traguardare orizzonti imprevisti; con  ragguagli ed equivalenze, tracciare rotte e ritorni: azione differenziale, avvicinamento perenne al perduto.


Naturalia: giardino malato coi rami d’ulivo (2018, stampa digitale su carta Hahnemühle, grafite, matita, pigmenti, legno, rami d’ulivo) accosta dolorosamente il reale, i secchi ramoscelli, all’arte, i fiori nella pienezza della loro fioritura, ma disegnati. Fiori che, come annota Levergeois, <<fioriscono appassiti>>. Entrambi anneriti, naturale e artificiale, smorti: il colore è rifuggito dalle corolle al modo in cui si è prosciugata la linfa dai racemi. 

Stessa sorte tocca anche al ritratto della morte. Autoritratto davanti allo specchio, (2013, alluminio, specchio, matita, oggetto) è un’opera che si colloca all’incrocio fra due pareti: presenta un apparecchio fotografico a soffietto applicato su alluminio, dove è disegnato un teschio. L’opera rammenta un libro aperto, di cui l’altra pagina è uno specchio sul quale vi è la foto di un teschio; <<... a questa moltiplicazione iconografica vertiginosa va ad assommarsi il riflesso di chi sta guardando l’opera>> scrive Longari. La morte di tutti non è assimilabile a quella di un individuo. Il ritratto non può sortire alcun effetto, né compiersi. Se non é il ritratto di un individuo conosciuto, amato, la morte sembra essere un concetto generale e pur tuttavia vuoto. Ciò che manca, come è anche nel caso dei fiori, mai vivi, mai veri, è proprio quel che costituisce la perdita. E, nondimeno, quei fiori che penzolano, rasciugati che siano tutti i succhi vitali, restano fiori, non disgiungibili da quell’idea perenne del fiore, senza la quale anche l’idea della morte non è nulla.


Rosa Pierno

domenica 13 febbraio 2022

Tre manoscritti di Giulia Napoleone presentati alla GNAM


 

Presentati alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, i tre manoscritti realizzati da Giulia Napoleone, con tre diverse tecniche, acquarello, inchiostro, pastello,  (pretesto per un ciclo di tre d’incontri coordinato da Nunzia Fatone), sono nati di volta in volta dall’incontro di Giulia con le parole di tre poeti, Tito Balestra, Rosa Pierno e Luigia Sorrentino. I tre manoscritti mettono in evidenza il suo interesse per la supposta vicinanza tra testo e immagine, quando innescata da un’equivalenza di forze che apra alla concordanza dei due mezzi espressivi. Non, di conseguenza, un’illustrazione del testo, ma una corrispondenza tra intimi rimandi, tra associazioni più ampie, le quali sono in grado di far risuonare in armonia le diverse specificità delle arti coinvolte.


Napoleone ha tratto tre poesie dal libro antologico di Tito Balestra Se hai una montagna di neve tienila all’ombra, Garzanti, 1979, e precisamente: Una voragine il tempo, Mio nonno Eusebio, La via Emilia, realizzando un manoscritto con tavole ad acquarello su carta Esportazione, Fabriano (30 x 20 cm.). Sebbene siano molto diverse tra di loro per i temi trattati, Giulia ha scelto le tre poesie di Balestra, pensando alle sensazioni astratte e raggelate, quasi avvolte in un distanza emotiva, che non abbatte però un sentire di estrema sensibilità; atmosfera che, d’altronde, si effonde da tutto il libro antologico di Tito Balestra e che per l’artista pesarese risulta un’efficace fucina. Tale condivisione, tutta interna a un modo di osservare le cose come attraverso una diafana lente, testimonia, invero, di uno strabiliante trait d’union esistente fra il poeta e l’artista.


Dal tempo, dai piantati olmi e ciliegi a centinaia, dai dettagli disseminati sulla via Emilia (riverberi di vetri, ombre, colline e galline, un velo di nafta, orti con insalata), Giulia Napoleone sa trarre immagini di stillanti traiettorie, di tragitti lucidissimi che diradano la foschia albuminosa delle nebbie; sa far coagulare configurazioni nettissime dal caos degli elementi, ove pure si avverte il formicolio dei moti umani, osservati a leghe di distanza, mentre il tempo scorre depositando i suoi pulviscoli e le sue grumosità. La tecnica dell’acquarello le consente di distinguere ogni luminosissima stilla, ogni rifrangenza del colore, in una ricchezza che non si risolve nemmeno in uno sguardo che si voglia totalizzante. Splendido libro in cui le due sensibilità artistiche, di Napoleone e di Balestra, si uniscono senza residui.


Come tutti i manoscritti di Giulia Napoleone, anche Icaro (su carta Duchène, 34 x25 cm.), costruito intorno a una poesia di Rosa Pierno, è un antro delle meraviglie: un tesoro si svela al nostro sguardo e ciò accade fin dalla copertina, che, realizzata con l’antica tecnica della marmorizzazione, presenta meandri, rigagnoli e fratture, vuoti e sacche di un materiale plasmatico, aventi forme pensate dall’inchiostro stesso. Non è che l’incipit del rapimento dello sguardo, sorta di sireneo avviso che ci mette in guarda dal totale ammaliamento di cui saremo preda addentrandoci nelle pagine del libro. La poesia Icaro, nata dall’interesse per il vocabolario astronomico del Cinquecento, descrive il volo e la caduta del mitologico sognatore di spazi iperurani, i quali sono magistralmente resi in senso iconico dalla Napoleone.


Il primo pastello, Ascesa, tratteggia un disporsi ordinato del cosmo, allineato all’umano disegno di Icaro di volersi uomo privo di limiti fisici (fosse puro con l’ausilio di ali realizzate con piume e cera d’api). Il manoscritto è una conflagrazione di punti di luce e di costellazioni, colta da uno sguardo che s’allinea col veduto, mentre sullo sfondo rotea una galassia fitta di lucori e di ombre oscure. Volo, il secondo pastello, scorge figure all’interno della caotica disposizione delle stelle. Una serpentina, un cerchio valgono, in questo caso, come proiezione esclusivamente umana, che da sola sancisce il proprio ruolo nell’universo. Il terzo pastello, Caduta, vede le stelle configurarsi in un allineamento verticale, la cui base e la cui sommità sono tagliate dal bordo della carta. Protagonista assoluto, in codesta tavola, sullo sfondo di un folto tappeto di luminarie e di energia oscura, è il destino di un uomo che si è spinto, di fatto, con la sua immaginazione, a vertiginose altezze.



Il terzo manoscritto (su carta Roma, Fabriano, 24 x 24 cm.) si ispira alla poesia di Luigia Sorrentino Début et fin / Inizio e fine, tratta da Début et fin, edizioni Al Manar, Francia, 2018. Contenente temi assai cari alla Napoleone, quali quelli veicolati dalla coppia inizio e fine, la quale ha il potere di unire diversi insiemi semantici (morte e nascita, silenzio e parola, certezza e incertezza), la poesia della Sorrentino tira a sé le fila di contraddizioni irrisolvibili e il manoscritto assume questa volta i caratteri dialettici del bianco e del nero. I molteplici sensi che scaturiscono da queste coppie dialettiche attraggono nel loro insieme cose differenti, ma condividenti una luminosa pulsione attrattiva. 


Una costellazione di significati, i quali, a tratti, nuovamente separati dal buio della nostra mancata conoscenza dei meccanismi fisici e mentali, con un cosmo rappresentato da un tratteggio minutissimo, che dichiara la mai sopita umana disposizione alla conoscenza  e, ogni volta, il suo inevitabile scacco assieme all’incentivo di un nuovo inizio, si dipanano nel disegno in una spirale continua, ove il moto generale degli eventi e degli elementi è preso in innumerevoli spire. Il manoscritto è realizzato con pennino e inchiostro di china. Il nero assorbente e profondo, formato dall’intrusione dell’inchiostro nella carta, acquista una dimensione morbida e lo sguardo vi si perde come in una foresta che si richiuda su se stessa o come in una notte profondissima e buia.


                                                                                  Rosa Pierno