sabato 28 aprile 2012

Jean Clair “L’inverno della cultura” Skira, 2011

Nel suo ultimo volume “L’inverno della cultura”, Skira, 2011, Jean Clair riprende, con rinnovato piglio polemico, il tema dell’arte contemporanea sia quando essa utilizza materiali organici sia quando appartiene a un circuito che ha la capacità di creare valore economico utilizzando opere che di artistico non hanno nulla. Nel volume sono descritte in maniera particolareggiata le caratteristiche delle opere a cui egli attribuisce un giudizio negativo (in particolare, opere di  Beuys, Hirst, Koons, Cattelan, ecc.). Posizione che è ancor più dettagliata nel volume “De immundo”, Abscondita, di cui abbiamo già parlato in queste pagine. Ma nel presente testo il vero tema è il museo e il suo ruolo nella società contemporanea, visto che Clair accusa le istituzioni museali di farsi complici di una macchinazione contro l’arte, essendo  il museo parte in causa nel meccanismo di costruzione di opere a cui viene assegnato valore artistico in maniera arbitraria e immotivata. I musei oramai sono parte integrante del circuito finanziario che ne sfrutta l’istituzionalità: essi con il loro tesoro di opere appartenenti a ogni epoca si fanno garanti del valore delle opere contemporanee, partecipando alla creazione del loro valore economico, nel momento in cui le accolgono nelle loro sale. Alle loro spalle i grandi gruppi economici per i quali “il termine ‘valore’ non significherà mai valore estetico, emergente nella lunga durata, ma valore del prodotto come ‘performance economica’, fondata sul breve temine”. “Non è assolutamente il ‘valore’ dell’opera, è soltanto il ‘prezzo’ dell’opera a essere preso in conto”.

Se è facile aderire alla crociata contro un certo tipo di arte contemporanea, molto più problematico diviene seguire Clair nella  sua contrarietà al museo tout-court, in quanto esso viene definito spazio funereo che toglie le opere dal loro luogo originario e le priva del significato che avevano: “I musei funzionano come macchine per trasformare in falsi le opere autentiche che vi sono ammesse”.  Quasi che le opere coincidessero con la funzione per cui sono state create (la Madonna del Parto di Piero della Francesca dinanzi a cui le donne gravide pregavano) e non fosse possibile riconoscere loro autonomo valore. Inevitabile, un senso di ripulsa dinanzi a certe affermazioni di Jean Clair, quando accusa la folla che frequenta questi luoghi di distruggere il patrimonio culturale in quanto con la sua massa organica altererebbe le condizioni climatiche dei musei. Egli considera che “il beneficio intellettuale e spirituale di questi pellegrinaggi è pari quasi a zero: questa agitazione non è che il prodotto di una idolatria ripugnante e, a conti fatti, pericolosa”.  Negare il diritto all’educazione e all’accessibilità agli strumenti per l’arricchimento del bagaglio culturale è un’affermazione inaccettabile. Se dovessimo trarre le logiche conclusioni di questa posizione, dovremmo pensare che anche la basilica di San Francesco ad Assisi dovrebbe essere chiusa al pubblico, ma Clair intende chiudere, invece, solo i musei e neppure si prova a richiedere maggiori misure per la protezione delle opere.

Non si scaglia, Jean Clair, soltanto contro il museo, che “desacralizza per il solo fatto di essere un museo”, ma anche contro il culto della mano incomparabile dell’artista, il culto del creatore ineguagliato, il culto dell’io, il culto dell’originale . E’ del tutto evidente che egli vuole sostituire ad essi un unico culto, ed esplicitamente lo dichiara: il museo è un ospizio generale “dove le opere, soggette alla delocalizzazione, alla laicizzazione forsennata e alle insidie del tempo, finiscono, una volta esposte col morire” proprio perché nate per il culto religioso e ora private della loro funzione originaria. Quando l’estetica sia separata dal sentimento religioso, si riduce, per Clair, a ciò che  Kierkegaard vede nello stadio estetico: l’uomo condannato all’istante, a una banale e monotona ripetizione, sorta di Don Giovanni che corre di conquista in conquista, in una sorta di dominio vago, insignificante, quando non esplicitamente negativo.  Non si tratta che di desiderare “il passaggio dallo stadio estetico allo stadio religioso”. L’inverno della cultura, pertanto, consiste proprio nella sua attuale irrealizzabilità. Clair volge un richiamo allo Stato e alla Chiesa affinché ripristinino il loro ruolo originario, volto al sostegno degli “ordini delle leggi umane e divine”, mentre oggi paiono solo “imporre a tutti, all’élite intellettuale come al popolo disorientato, un’immagine avvilente della creazione artistica e della figura dell’uomo”.  

E’ dunque questo un libro in cui si deve separare pazientemente il grano dal loglio per cogliere indicazioni che possano essere utili a fornire alcuni strumenti per una critica adeguata all’arte contemporanea. Ma riteniamo che i musei siano insostituibili per la nostra formazione culturale, indipendentemente dalle scelte non consone, dai gruppi finanziari che li pilotano, dalle opere false che vi vengono ospitate, poiché è ancora il museo che fornisce l’antidoto alla falsa arte, insieme a tutti gli artisti autentici che lavorano al di fuori dei circuiti privilegiati o falsificanti. Pertanto, non bisogna abbassare la guardia ed è necessario  che il pubblico pretenda un’offerta di qualità da parte delle istituzioni, assieme alla cura e alla preservazione del patrimonio culturale.

                                                                                          Rosa Pierno 

mercoledì 25 aprile 2012

Flavio Ermini "La parola rizomatica" I serie, Anterem

NOTE SULLA RICERCA LETTERARIA DI “ANTEREM”

PRIMA SERIE DELLA RIVISTA: 1976-78



Il nome “Anterem”
Il nome “Anterem” nasce porgendo attenzione al valore originario della parola, chiamata a essere il luogo di raccordo tra sensibilità e percezione. Questa espressione fa cenno all’«= 0» hölderliniano (Il significato delle tragedie e Mnemosyne) che – evocando l’«uguale a zero» di Sofocle (Edipo re) – richiama quel «procedimento dello spirito poetico» che impone all’essere e all’esistere di presentarsi privi di separazione, indivisi, e tuttavia reciprocamente distinti.
Altri riferimenti si trovano nelle «archai» che Nietzsche colloca nel «sottosuolo della storia» (Umano, troppo umano) e che Deleuze e Guattari affidano a quella parola rizomatica (Rizoma) a cui è dedicata la prima serie della rivista (1976-78).
Ma l’opera su cui esplicitamente fa presa il nome “Anterem” è la Scienza nuova di Vico, dove leggiamo: «Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso, ed è propietà de’ fanciulli di prendere cose inanimate tra mani e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive. Questa degnità filologico-filosofica ne appruova che gli uomini del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti».
Sarà lo stesso Vico a citare a questo proposito una riflessione di Spinoza: «La fantasia tanto è più robusta quanto è più debole il raziocinio».

La parola rizomatica
La prima serie (1976-78) nasce per una letteratura senza generale, senza gerarchie di senso, e all’insegna del comandamento di Kant: «Sapere aude», osa servirti del tuo intelletto.
La serie ha per nome La parola rizomatica. Aperti in squarci. Evidente il riferimento a Rizoma di Deleuze e Guattari, volume pubblicato proprio l’anno della fondazione della rivista: 1976.
Vanno a questo proposito ricordate le parole di Silvano Martini (poeta, tra fondatori di “Anterem”) sul concetto di letteratura rizomatica, perché costituiscono un vero e proprio programma per la prima serie.
«L’albero e il rizoma sono strutture che stanno a indicare due tipi opposti di letteratura. Cos’è un rizoma? Un fusto sotterraneo di piante erbacee perenni, simile a una radice. L’albero, invece, possiede un fusto esterno al terreno, che poggia su radici e si espande in rami. La letteratura arborea è centrica. Quella rizomatica è acentrica. Nella prima tutto si svolge tra vertice e base, in rapporto di chiara concatenazione e di rigida dipendenza. Nell’altra, ogni svolgimento è base e vertice insieme, e tutti gli svolgimenti hanno la medesima importanza. La letteratura rizomatica permette qualcosa di specifico che normalmente non si dà: il collegamento di un punto qualsiasi con un altro punto qualsiasi della sfera vitale. La cultura, così considerata, è una cultura “senza generale”. Questo significa che la circolazione del senso ha una libertà illimitata. La possibilità di generare innumerevoli centri di discorso sopprime la possibilità contraria dell’instaurazione di un centro egemone. Il policentrismo è la moltiplicazione insopprimibile dell’unicentrismo. Siamo in una specie di presente immobile. Il tempo vissuto non si palesa più come distacco da un passato e scorrimento verso un avvenire. Ma come in uno stato di indistinzione. Una sospensione piuttosto che un fluire. Che cosa si propone una letteratura di questo genere? La distruzione di qualsiasi tabella assiologica immutabile. O la rinascita senza interruzione, sotto altra specie, di queste stesse tabelle. La difesa di questa strenua e cosciente anarchia dei sentimenti e delle sensazioni vorrebbe preservarci dal consolidamento dell’innaturale. Uno stato esistenziale come libera pulsione è uno stato di sempre rinnovata scoperta. È l’occhio non appannato davanti alla scena del mondo. O l’occhio che muta direzione prima dell’intervento mortificante dell’assuefazione. Una letteratura fondamentalmente anarchizzata, ma non priva di controlli, dovrebbe garantirci quella costante possibilità di fuga dall’artiglio delle cose, che consenta alla nostra esperienza di mantenersi cangiante. La perdita della centralizzazione burocratica di una letteratura a congegni unidirezionali  e inalterabili dovrebbe farci recuperare tutti gli strati dell’essere: da quello ideativo a quello subcoscienziale.»
Queste riflessioni – pubblicate sul n. 7 (aprile 1978) della rivista – rivelano che è svanita l’idea di un centro unitario che rappresenti un riferimento sicuro per la nostra esperienza. Precisano che nel corso di ogni nostro atto siamo davanti a un insieme di pulsazioni luminose che generano costellazioni variabili sia per forma sia per intensità. Osservate dal poeta, tali costellazioni compongono disegni che un altro occhio determinerebbe in modo diverso. Sono le figure sotterranee della nostra anima: quasi un olimpo rovesciato che ha più familiarità con i demoni che con gli dei.
Ebbene, il lettore di poesia deve riuscire ad accogliere il presupposto che a lui solo e a nessun altro in sua vece spetta il compito di mettere a fuoco queste costellazioni del senso. Egli deve sottrarsi a un potere che lo vuole docile a un senso precostituito – ovvero indaffarato, tra il tintinnio delle monete e l’apatia del pensiero – e conferirsi in assoluta autonomia un potere che lo assegni a un’ulteriorità sempre da pensare.
Accade così che all’«osa sapere» di Kant si venga a sommare alfine il «sapere a ogni costo» di Nietzsche.

                                                                                 Flavio Ermini

domenica 22 aprile 2012

William Turner a Venezia


L’artista sfuma i toni, creando relazioni inusitate fra i colori, i quali si mischiano come salive nel bacio di due amanti poiché è, appunto, atto d’amore che, qui, s’inscena.

Braccio superiore del Canal Grande con San Simeone Piccolo” al crepuscolo è una lingua di verde-acqua che penetra tra due ali avorio-grigio e sbatte contro un viola cielo che non s’accorderà mai con nulla al mondo. Colori disfano la città, mentre la città non sembra prendere forma se non attraverso i colori.

Presso la Dogana, costruzioni sono sospese tra cielo e acqua. Appesantite dai candidi marmi stazionano a mezz’aria, già erose alla base dai riflessi oleosi del mare. Gondola s’appresta a traversare siffatta ambigua materia: la sua aerea posizione non le procurerà rimprovero d’irrealtà.


“Venezia con la Salute. Acida luce intacca la materia corrodendola. Lo sfrigolio che ne consegue è viscoso, s’attacca al piano della visione senza scivolare e ricostruisce, con la sua densità colloidale, la forma appena dissolta. Sicché, i volumi delle case e la cupola paiono incancellabili e i colori sembra portino impressi in sé anche la forma.

“Venezia: una tempesta”. La luce intercetta le più sottili polveri, le brume, le nebbie, i vapori e vi proietta all’impazzata una cascata di madreperlacei violetti, di indaco volatili, di ocra purpurei. Sull’acqua scossa dalle raffiche di vento, lume depone lacune di colore, lacerti di vuoto: come accade a volte sulla spuma marina di un oltremare intenso. Abbaglia sulle cortine rosate delle case, trattenendone solo una trama di lesene e cornici, e s’astiene dallo sfiorare oggetti abbruniti nemmeno fossero un anatema ordito contro di lei.

“Sorgere del sole su Venezia visto dalla Giudecca”. Sul foglio avorio si palesa con avara evidenza il digradante svolgersi del rosario di case affacciate sulla laguna. Al di sotto della linea d’orizzonte, vi è una sbiadita distesa, che appare indebolita già prima di toccare il bordo inferiore del foglio e, al di sopra, una flottiglia di nuvole acrobatiche che si torcono sprizzando coriandoli di pigmento sul paesaggio intero.


“Il Canale della Giudecca, in direzione di Fusina”. Riflessi sull’acqua più che baluginare, grattano la superficie essendo state prodotte da un pennello quasi asciutto, il quale raspando ha ottenuto riflessi che hanno consunte iridescenze, bronzei lampi, ramate ondulazioni, tali che  la laguna tutta scintilla con metallica apparenza.

“Veduta dal canale che porta al Lido: la Riva degli Schiavoni”. L’aria si tinge di dislavato oro e di svanito blu-ftalo. Una sola nuvola porpora, poggiata sul foglio come pietra, lo trattiene e gli impedisce di sparire completamente. Dei palazzi infilati dalla riva si vedono soltanto le cornici. La sommità dei tetti potrebbe servire da falsariga su cui impostare un ultimo tentativo di ordinamento.

“Allontanandosi dalla Riva degli Schiavoni, all’altezza del Ponte dell’Arsenale”.  Di una così labile immagine, poiché colta in uno sfavillante meriggio, si percepiscono appena  profili e tinte. Il disegno restituisce il ricordo d’imbarcazioni oramai ridotte a costoloni arrugginiti, le parvenze di edifici ricoperti di marmo sfavillante e un verde-rame che, nel suo momento più vivido, colloca il mare al centro della laguna attraverso una piccola riassunta macchia.

                                                                               Rosa Pierno

giovedì 19 aprile 2012

Gio Ferri su Giovanni Fontana


Giovanni Fontana
Mostra alla Galleria Marcantoni di Pedaso Aprile 2012
“…che digerisce l’anima”
Catalogo, Ed. Il Lampadiere Galleria Marcantoni



Lesa sul Lago Maggiore, 19 aprile 2012
Caro Giovanni,
sto sfogliando il catalogo (o libro, o antologia poetica e visuale, o documentata e collettiva testimonianza) della tua mostra di Pedaso “… che digerisce l’anima” e come sempre davanti alla tua poliedrica e raffinata ricerca non posso far altro – e ciò assai mi coinvolge – che rimanere sorpreso e incantato. Non ho visto la mostra, e mi dispiace, e probabilmente purtroppo non potrò essere a Pedaso entro fine mese. Tuttavia il pregevole volume mi fornisce gran parte delle suggestioni che, presumo, mi sarebbero donate dal percorso della mostra medesima: non nascondo in proposito la mia propensione a ritenere la scrittura verbo-visuale, per struttura e finalità formali sulla pagina, poesia a tutti gli effetti (compresi, a prima vista, gli stessi della poesia tradizionale, vale a dire poesia da leggere). Perciò sfoglio le pagine nella scansione e nel solitario godimento della lettura comunque libresca. Anche se i tuoi libri, valgono sempre proprio, paradossalmente, per il loro poetico disincanto, per la loro prolifica disarmonia: qui, in questo libro (come in altri tuoi), per quanto attiene segni, immagini, frammenti, scritture asintattiche eppure arditamente composite, ritrovo come lettore, solo per fare il più facile e banale esempio e senza compromettere la tua assoluta originalità, le avventure linguistiche, e in quanto linguistiche di senso altro, di un Joyce… e perché no, di una antologia neo-dada (direi meglio dada + pop art).

Ė un libro da leggere anche con felice riferimento alle consistenti e pregevoli note critiche e amicali dei prefatori. Cosicché è difficile, tanto sono esaustive, dire molto di più (sebbene l’opera tua sia sempre apertissima e poeticamente ambigua) dal punto di vista critico e anche biografico. Vengono messe puntualmente in evidenza le caratteristiche basilari di questo e del tuo lavoro in generale.

Lamberto Pignottti, con la sua ben nota acribia storico-critica sottolinea, quasi drammaticamente rispetto all’attuale condizione umana e sociale, la tua già pubblicata «paura di naufragare [senza leopardiane dolcezze, aggiungo io] sulla barriera degli scogli», rifacendosi alla crudeltà fascinosa del canto delle Sirene (le Sirene della nostra odierna con-fusione mediatica). Ma ricordando anche che tutto infine è «un gran bel gioco».

Mauro Carrera  ti dedica addirittura un’Ode:  «Quando la testa comanda… / i corpi seguono in grovigli indistintamente sensuali / e le parole cadono ai piedi, deboli e supplici…».

Il gallerista Claudio Marcantoni sottolinea che il corpo i corpi (protagonisti dei tuoi raffinati collage) vengono ‘descritti’ con linguaggio insieme passionale e ironicamente critico, se non cinico, dettato dalle «vicissitudini dei nostri giorni».

Marzio Pieri  rimanda alla sua eccezionale natura barocca (?!) la lettura delle tue biologie segniche; e Marzio Dall’Acqua rammenta (anche con amichevole nostalgia) le vostre avventure da “TAM TAM” alla rivista “Dismisura”.  Infine, per ognuno, un  tuo ritratto a tutto tondo non solo critico, ma anche affettuoso… al quale naturalmente mi associo! Un ritratto che non trascura affatto (anzi!) l’importante capitolo delle tue ‘teatrali’ proposte in perfomances vocali, foniche e musicali (ma il libro, ovviamente, non può dare testimonianza di quel tuo importantissimo lavoro espressivo!).

Ma lasciami finalmente venire alla irragione del Corpo, dei tuoi Corpi: alla ventura di questo straordinario (sebbene strettamente coerente con il tuo lavoro di sempre) viaggio segnico e immaginifico. E tout court poetico, ancorché, anzi proprio per questo, destrutturato e infine abilmente e sensualmente ricostruito. Tuttavia mai definito o definibile.

C’è innanzitutto la scoperta di un personalissimo linguaggio.  La conoscenza del linguaggio come oggetto di ricerca” fu una delle ossessioni di Noam Chomsky (tr.it., Il Saggiatore, 1989): «Da molti anni sono affascinato da due problemi che riguardano la conoscenza umana. Il primo è il problema di spiegare come mai possiamo sapere tanto avendo a disposizione dei dati così limitati. Il secondo è il problema di spiegare com’è che riusciamo a sapere così poco pur avendo tanti dati…». Ciò può valere fra l’altro per la tua ricerca sul Corpo, qui per lo più femminile, nell’ambito di una conoscenza del soggetto in fondo limitata e - perché no? – tradizionalmente offerta,  sulla quale tuttavia influisce con una certa violenza segnica e di senso il complesso rumore della realtà, e soprattutto della condizione umana odierna tormentata (ma anche sensualmente e felicemente polimorfica) da una infinita congerie di dati fondativi di una vitalità, con-fusa appunto. Che gioca con crudele malizia, o incosciente accettazione, con la nostra irragione d’essere. Tanto sapienti e tanto innocenti (falsamente o no!). Dalle passioni tanto coinvolgenti e talvolta drammatiche, dalla volontà (impotente?) di coordinare in proposito un linguaggio che, comunque, non tanto spieghi o comunichi (in senso utilitaristico), bensì ci aiuti a tracciare l’esistenza e la sua oggettualità attraverso una profonda, originaria, fondativa struttura linguistica.  Dopo l’azzeramento, umano e artistico, portato avanti con rivoluzionaria o addirittura ‘rabbiosa’ (?) tenacia, ora, come l’uomo della caverna, ci troviamo a dover inventare il linguaggio di segni e di suoni che ci permetta di affrontare quella latente e disordinata energia che ancora una volta ci offre la natura, comunque. Questa illusione, che in te si offre tuttavia come progetto, è propriamente quella necessità di digerire l’anima. Digerire l’essenza malgrado tutto ancora sconosciuta, sebbene i mezzi a disposizione siano infiniti (ma troppo spesso indefiniti), della conoscenza del Corpo.  Pur sempre presente (come pur sempre siamo presenti noi!), come Anima (da anim-azione…), vale a dire, laicamente, come Mente sensitiva e sensuale. E… luogo delle probabilità di conoscenza.

Dovrei, per confermarmi in questi modesti ‘pensierini’, analizzare i testi esposti alla tua mostra e riprodotti con indubbia chiarezza grafica in questo tuo catalogo. Non è possibile ovviamente: perciò devo limitarmi, mentre sto sfogliando, alla superficiale analisi di una pagina, sulla quale soffermarmi a caso. O forse non tanto a caso poiché, per una certa ricerca strutturale più volte reiterata, mi sembra interessante ‘leggere’, per esempio, una delle poesie verbo- visuali, della serie nominata con il pronome “che…”.  Mi soffermo su quella che porta la didascalia “che l’orrore catodico appassisce”.  Didascalia in qualche modo, a prima vista, chiaramente rimandata alla crudele assurdità delle immagini offerte dai media visuali elettronici e filmici: guerra, sesso (ammiccante…), violenza… Lo dico, ovviamente non per te, né per chi ha il catalogo sottomano: si sovrappongono abilmente, dal punto di vista formale, l’immagine di un combattente che porta sulla spalla una mitragliatrice, e una attraente donnina (privata del viso, perciò anonima, generica) che porta una provocante guepierre.  Possediamo bastanti e sfaccettati elementi segnici per cogliere l’orrore di cui dice la didascalia, ma siamo purtuttavia confusi fra l’irragione degli “eventi” (scritta del collage tolta da un quotidiano) e le “idee” (altro collage) che vorremmo riordinare per giustificare la situazione. Ecco che si fa strada il tuo tentativo di riorganizzare, o addirittura fondare, un nuovo strumento linguistico che ricostruisca una parvenza di unità, pur sempre, ripeto, ambigua e polivalente. Meccanismo assolutamente poetico anche secondo la tradizione poetico-scritturale. Non si tratta di fornire risposte, ma piuttosto di ingabbiare in un discorso dinamico le domande che (come avviene oggi quotidianamente per tutti quelli che abbiano… un’anima) ossessionano la nostra incapacità di gestire i tanti dati (non solo tangibili ma anche, qui nel collage, infinitamente allusivi) che possediamo e che ci coinvolgono spesso, quasi sempre, anche o soprattutto inconsciamente. La gabbia è una sorta di puzzle a scacchiera geometrizzante che ritma, secondo una precisa mappatura tuttavia errante,  il confondersi della immagini, visibili e psichiche. Posso dire che ciò denota la tua propensione musicale alla voce, insieme alla tua visione architettonica (professionale!) della realtà?

E a proposito di spartito errante va segnalato che il volume si conclude con un tuo dinamico e plurilinguistico poemetto dal titolo appunto “Erranze”, che giustifichi in nota: “La pagina non è un semplice spazio d’accoglienza di materiali verbali e visuali, non è un dock. Ė un campo di relazione, dove frammenti dell’immaginario contemporaneo si ricompongono in forme nuove…”. Mi accorgo d’aver fatto troppi discorsi che potrebbero assai più facilmente sintetizzarsi in questa tua dichiarazione! Cito in breve da un passo tuttavia ancora problematico dell’ultima strofe del poemetto: “… si trasforma e si trasforma il senso / in prospettiva di corporeità… //
… la mappatura del genoma svuota la speranza”.  Quindi, è la tua firma, ancora e sempre è tutto da rifare…

Un caro saluto.

Gio Ferri

lunedì 16 aprile 2012

Ezio Raimondi “Ombre e figure. Longhi, Arcangeli e la critica d’arte” Il Mulino, 2010

Che il mondo della critica artistica venga indagato da un critico letterario non è accadimento raro, ma in “Ombre e figure. Longhi, Arcangeli e la critica d’arte” Il Mulino, 2010, risulta come elevato all’ennesima potenza il rapporto tra critica artistica  e critica letteraria, in quanto Raimondi, isolando l’attività critica di Roberto Longhi, e dei critici che ne hanno seguito la lezione, vi lavora su una critica di frontiera, in cui ciò che conta non sono le metodologie, le classificazioni,  le scuole, la storiografia critica, ma un particolare rapporto che viene istituito con le opere d’arte e che corre parallelo con l’opera letteraria vera e propria.

Ma nel libro di Ezio Raimondi c’è molto in più, e non solo per i personali rapporti di amicizia che lo legano ai critici che costituiscono l’oggetto dell’analisi. Colpisce, infatti, il profondo amore, la partecipazione con cui egli cerca di accostarsi e di comprendere il mondo artistico, i problemi non solo critici che pone, ma quelli psicologici e morali. Il critico, dunque, visto come persona, attraverso le relazioni che istituisce con gli altri e soprattutto con quelli che egli riconosce come suoi maestri, anche in senso negativo, come esempi di posizioni critiche da non seguire. Ad esempio, seguendo il percorso della vicenda di Francesco Arcangeli, Raimondi individua le modalità del rapporto con Longhi, seguendone passo passo sia i prestiti, sia le distanze maturate, in una mai passiva sudditanza.

Ma certamente è alla linea longhiana che Raimondi riserva il suo interesse predominante: indubbiamente interrogare Longhi “significa misurarsi con uno scrittore, convinto dell’irriducibile specificità dei diversi linguaggi artistici”, dove le “equivalenze verbali”, le “trascritture di opere d’arte” non intendono sostituirsi all’opera d’arte, ma cercano di coglierle nella loro singolarità percettiva, senza mai trasferirle su linee generali. E siano le medesime parole del Longhi ad affermarlo: “nella ripresa parlata del fatto più profondo e in apparenza meno motivabile dell’uomo, com’è il produrre artistico, composto non già di azioni e reazioni palmari, ma di sempre diverse “condizioni libere”, di occasioni imprevedibili e velate, non è alla fine pretendere  più che a un verosimiglianza non contraddicevole, mai ad una certezza spietata e documentata che, del resto, è dubbio se abbia veramente luogo in alcuna storia e persino in quella della scienza”.

Di conseguenza, puntualizza, Raimondi, “la relazione diretta col quadro diventa il vero momento interpretativo, la circostanza in cui l’”illuminazione” dell’opera si “storicizza” attraverso un’immediatezza piena di ragioni culturali. Raimondi pone in risalto il modo in cui Longhi riporta l’attenzione sui valori formali dell’opera, “espressività della forma per sé”, e contemporaneamente sul suo non cercare nel quadro ideali, letteratura, interpretazioni già stratificate, poiché per Longhi, appunto, “il giudizio estetico si differenzia secondo i diversi materiali e le diverse forme artistiche”. E in questo è dispiegata anche la distanza dalla lettura iconologica dell’opera d’arte: “Le forme figurative sono altra cosa da quelle verbali e letterarie e dunque richiedono un proprio codice interpretativo”. O ancora riportando le parole di Longhi: la critica deve proporsi “come valutazione di valori puramente formali e come narrazione storica di tali valori”.  

Dopo avere con grandissima chiarezza e padronanza esposto la lezione traibile dal Longhi,  Raimondi analizza il lavoro dei “primi scolari”: Arcangeli, Graziani, Gnudi seguendone il percorso con un’attenzione certosina e sottilissima fin nelle più riposte pieghe, per sviscerare quanto della lezione longhiana, messa alla prova da nuove contingenze storiche e dai nuovi apporti agli studi sulla materia, abbia resistito o sia stato riposto per la diversa indole o le nuove necessità critiche degli studiosi che gli sono succeduti.

                                                                                       Rosa Pierno

venerdì 13 aprile 2012

Giorgio Bonacini, poesie inedite dalla raccolta “Stelle inseguitrici”

Riconosciamo nelle tre poesie che seguono, prelevate dalla silloge inedita di Giorgio Bonacini “Stelle inseguitrici”, la descrizione della caduta di Icaro, colta proprio mentre sta accadendo, mentre l’alato uomo è preso dal vortice dell’aria che rimescola la visione, che sostituisce il cielo con la terra, scomponendo l’ordine e la musica al cosmo associata, in una dissolvenza che tutto fonde. Ma non si creda che gli avverbi avversativi e causativi espongano tesi di logica contrapposizione o spiegazione causale. Il nodo se non si scioglie, neppure si dipana. Il logos non ha ragione in un siffatto conglomerato testuale  ed esperienziale. Ove moto e calma, ingegno e spavento sembrano sgorgare per subito rituffarsi nel nodo che diviene più stretto, man mano che si procede nella lettura. D’altra parte, a portare a soluzione l’enigma, ci si imbatte in un  “ricombina i movimenti / e sottomette nel dilemma le sciagure”, che mostra la non divisibilità tra dato materiale e costrutto intellettuale.
Le stelle stesse non sono che il tramite di “nomi” e di “distanze incompiute”, di “noi“ e di “inganni”: a dire che va preso tutto in blocco, che separare e distinguere è atto che introduce errori. Il magma, la massa incandescente in cui, peraltro, persino inarcature e inversioni hanno minor peso della struttura sintattica che presiede alla logica delle strofe,  pretende che la sua indissolubile compattezza non sia intaccata. Non è il gioco delle tre carte, anche se tutto si sovrappone e si sottrae al nostro sguardo mentale: la paura e lo sgomento non sono sostituibili con l’ingegno che rimarrà imperituro nei secoli. Senza che nessun elemento prevalga sull’altro, il viaggio di Icaro diviene la cifra del nostro vivere quotidiano. 




E’ la superficie gelata a trattenere il corpo
furto del mare farfalla stremata




Misera caduta un volo molle e squilibrato
attorcigliato ai tendini e a un lamento – quasi
che la terra fosse d’acqua e l’acqua in terra non
avesse risonanza, intonazione, codici di musica
già avviati a una natura senza pari, in dissolvenza.
       

Ma l’aria, corruttibile e lunare, lascia segni
che disperdono e deflagrano, e sfilacciano in un moto
così ingenuo da portare che l’ingegno sembra
coglierli per noi come dal fondo di un ondata
di spavento – e qui  li calma e li dissuade.
                                                 

Perché nel sottoterra di una terra disturbata
e resa un brivido dal suo sfarfallamento a scomparire
l’ombra inanime riappare – si sfilaccia poi
in un gelo di espulsione, ricombina i movimenti 
e sottomette nel dilemma le sciagure.



                                     Cede nel tramonto
l’intuizione di vocali e firmamenti



Il dito ricorda un assunto lampeggiare di sensi
un flusso indistinto di moti a indicare le stelle
e chi guarda, e l’istinto dei nomi e le luci che
splendono e affogano e lì mi appartengono – 
in stanze incompiute, una folla di noi e di inganni.
                      

Un marasma di accenti, una calca bruciante
li raschia e li  accende, e orchestrandoli in tondo
li guarda finire in un fuoco e sparire – spenti
in attesa di ciò che li affanna, qualcuno li svuota
dispone per sé di rumori impassibili e ardori.


Ma tu, se il paesaggio non gira e si gonfia
pensi che esistere sia fare un cerchio col dito
uno sguardo mancato da qui al firmamento e poi
via – dire sì al panorama, alla forma del mondo
a una sfera esaltata di vera e decisa anarchia. 



Nemmeno il biancazzurro delle cose
o il gialloverde scombinato di un sorriso




Per un’immagine felice una parabola      
ha intrapreso il suo cammino – volerà, dilagherà
riproducendo il mare in musica e la quiete
guarirà l’intonazione oltrepassando il tentativo
di assorbire tutto l’impeto nell’aria.

             
Ma una specie di parola se n’è andata –
il limite dell’ombra nella guancia spezza
il sole, disillude uno sgomento inafferrabile
una fionda in congiunzione sui lillà, dove
l’incanto prende il senso di un evento innaturale.


Ma in un buio così buio e ripetuto, il genio
delle luci perde i suoni, le onde bianche
e il codice del tutto in cui ripara anche il fragore
degli uccelli – tu li vedi, e dal profilo sottilissimo
che assalta, innalzi la paura e viaggi intatto.   

  

martedì 10 aprile 2012

Theodor W. Adorno “Teoria della Halbbildung” il melangolo, 2010

Il disfacimento storico della cultura (Bildung) tedesca è descritto da Adorno nel brevissimo saggio “Teoria della Halbbildung”, il melangolo, 2010. L’idea di una degenerazione storica della cultura ha un ruolo di primo piano nell’opera di Nietzsche e anche per Adorno la necessità di intervenire è imprescindibile. Se l’individuo moderno occidentale vive la sua formazione in modo dimidiato, incompleto e condizionato (Halbbildung), compito di una critica della formazione sarà allora quello di restituire alla coscienza la sua determinazione affinché essa non si aggrappi a “elementi culturali approvati”.  Il concetto di formazione critica non coincide con quello di cultura, anzi, deve necessariamente distaccarsene, in quanto se uomini colti “poterono tranquillamente   votarsi alla pratica omicida del nazismo” diviene fondamentale che il senso dei beni culturali non debba essere ”separato dall’organizzazione delle cose umane”.  La definizione di una cultura non separata dalla vita reale  porta gli uomini ad adattarsi gli uni agli altri. Essa non deve irrigidirsi in categorie fisse: spirito, natura, sovranità, le quali si prestano a regressioni ideologiche. Una cultura che derivasse da un inconciliato antagonismo sociale riuscirebbe a raggiungere una falsa libertà, una falsa coscienza. Adorno, ancora come Nietzsche, critica in Kant la credenza di poter raggiungere la condizione di una società autonoma attraverso il postulato della finalità senza scopo a causa di una razionalità o di una purezza che dovrebbe essere mezzo e fine. La cultura da sola non garantisce la società razionale: la cultura non può “dare agli uomini ciò che la realtà loro rifiuta. Durante l’ascesa della borghesia, l’istruzione popolare soffriva dell’illusione di poter revocare l’esclusione del proletariato dalla cultura, imposta dalla società, mediante la cultura stessa.  Tale integrazione non è che un’ideologia, ma anche la cultura stessa presenta “datità reificate e mercificate” le quali “sopravvivono a spese del suo contenuto  di verità e del suo rapporto vivente coi soggetti viventi”. Adorno però non perita di criticare anche Nietzsche, il quale, pur rifiutando l’esigenza  di un cosmo vincolante per l’individuo in modo indiscutibile, di un tutto giusto, conciliato con i singoli, pure tenta di creare arbitrariamente questo tutto con le sue nuove tavole. Per Adorno, una cultura che raggiungesse l’autonomia e la libertà, avrebbe le caratteristiche di caducità e di eteronomia e dunque conterrebbe la sua dissoluzione.   Né, d’altronde, il contenuto di verità dei beni culturali è invariabile ed eterno, non ha un’origine, ma è derivato.  Inoltre, “la cultura non si può accompagnare  a una libertà meramente soggettiva, finché permangono, oggettivamente, le condizioni dell’illibertà”.    Ma una sua liquidazione farebbe ricadere nella barbarie, farebbe sottoscrivere volontariamente ciò che è invece inaccettabile. L’appercezione critica e senza illusioni si accompagna alla perdita della cultura: “spassionata obiettività e cultura tradizionale sono fra loro incompatibili”. Ma è in questa non risolvibile divaricazione, tra i rapporti reali della vita e l’autonomia da tali rapporti,  che Adorno situa la possibilità di pervenire a un’attività critica che si può realizzare grazie all’integrità della propria forma spirituale. Essa retroagisce sulla società solo mediatamente,  non attraverso un adattamento ai suoi ordini. E “non ha altra possibilità di sopravvivenza  fuorché quella che consiste nell’autoriflessione critica sulla Halbbildung che essa è necessariamente diventata”.

Rosa Pierno

giovedì 5 aprile 2012

Claude Monet “Mon histoire. Pensieri e testimonianze” Abscondita, 2009

Emerge dalle pagine di Claude Monet “Mon histoire. Pensieri e testimonianze” Abscondita, 2009, l’ossessione, potente e inesauribile, che ha attanagliato la sua vita: rendere le cose non come sarebbero nella loro essenza o fissità, ma immerse nel divenire, mai separabili dalle condizioni attraverso cui ci appaiono: gli effetti metereologici, le condizioni della luce, la presenza della riflessione (pioggia o specchio d’acqua) e tutta la sequela di velature di cui l’atmosfera sa ammantare gli elementi in essa dislocati (dalla nebbia all’aria limpida). In una sola espressione, indicata dalle parole stesse di Monet: “Il motivo è per me insignificante; quel che voglio riprodurre è quanto c’è tra il motivo e me”. Ove, però, non si fa alcun riferimento alla soggettività, se non quella rappresentata dall’abnegazione all’attività pittorica che fa scegliere il colore in base all’etichetta o alla caparbietà di restare sotto le peggiori condizioni climatiche (persino semisepolto dalla neve) al fine di catturare l’impalpabile differenza luminosa, la trasformazione della materia, a causa degli attacchi della luce, colta nello stadio della sua dissolvenza.  

Monet cerca di divenire sensibilissimo strumento di ricezione e restituzione degli aspetti variabilissimi e temporanei della realtà, poiché le sue apparenze sono così mutevolmente veloci da richiedere un occhio espertissimo e una mano rapidissima. La capacità di isolare e individuare - nella sequela in cui si può suddividere il flusso temporale scandito dalle condizioni atmosferiche - alcune immagini, quasi fossero vere e proprie sezioni, pari a quelle che si possono ottenere dal taglio di una pietra che ne sveli le altrimenti impensate venature interne, richiede l’esercizio di una vita intera, l’allenamento ininterrotto, lo sforzo al limite delle umane possibilità.

Anche l’implacabilità con se stesso è un elemento che caratterizza l’artista francese, poiché niente sarebbe più facile per colui che voglia realizzare una tale opera, la quale cattura la sorprendente mutevolezza delle cose, che chiedere comprensione per la maggiore difficoltà di restituzione e il suo incerto esito. Monet accenna allo sforzo sovraumano “per arrivare a rendere quel che cerca: ”l’istantaneità”, soprattutto l’involucro, la stessa luce sparsa su tutto”  e al contempo esprime “disgusto delle cose facili che vengono di getto”. E, parlando delle sue tele: “ne ho appena distrutte almeno trenta, e con mia grande soddisfazione”.

Il volume, corredato da numerose foto dell’artista all’aperto e nel suo studio, è arricchito da alcuni testi critici coevi che testimoniano dell’iniziale difficile accoglienza che i suoi quadri hanno ricevuto. Difficoltà che accomunavano tutte le opere degli impressionisti a cui non si perdonava la pittura en plein air, poiché erano ancora in vigore le regole accademiche. Ma come lo stesso Monet stigmatizza: “Se le mie cattedrali, le mie Londra e altre tele sono state fatte dal vero oppure no non riguarda nessuno e non ha alcuna importanza. Conosco tanti pittori che dipingono dal vero e fanno solo cose orribili. Il risultato è tutto”.   I testi di Zola, Proust, Mirbeau, De Maupassant, de Goncourt ci comunicano, dunque, come la dissoluzione dell’oggetto, quale si configura sulle tele di Monet  (si pensi alle vedute di Venezia, alle cattedrali, ai covoni di paglia) insieme alla sua volontà di lavorare sugli effetti dell’atmosfera, sia stato recepito come atto di assoluta novità, e paradigmatico, del tutto immediatamente, almeno, dagli scrittori più rappresentativi dell’epoca.

                                                                                  Rosa Pierno

lunedì 2 aprile 2012

Alcune poesie di Mario Socrate

Mario Quattrucci a Mario Socrate

Punti di vista
Ed io così, dal tuo punto di vista
(ma forse un punto nostro, un punto
da cui acquista ragione la visione
di ciò che non vedrò)
se il mio tempo è lo stesso e se perfino
il nome al tuo cammino m’apre.

Ma gli occhi dei poeti hanno dolore
(e un po’ d’amore, anche, se ne resta)
ancora da imparare: e dove gli altri
più non odono nulla una tastiera
di parole trascorrono perché
qualche suono ci sia fra gli altri e te.

                                   [Da: Oblò appannato; ora in: Da una lingua marginale]


In apertura una poesia di Mario Quattrucci in ricordo dell’amico Mario Socrate, la cui scomparsa risale a pochi giorni fa. Pubblichiamo  alcune poesie del poeta scomparso in cui emerge un tono leggero, foriero di un gusto a tratti scanzonato, a tratti paradossale, ove rime e assonanze concorrono a dare la chiave di volta di una lettura in cui definizioni manichee vengono sollevate da un  impegno classificatorio gravoso, il quale spesso non è esente dal procurare danni più che vantaggi, determinando esclusioni rigide, cesure non rispettose della complessità del reale. Un antidoto alle assolutizzazioni, questo sì marcato, un partito preso per il pluralismo e la divergenza. Per l’aleatorio, per l’occasionalità, per i frammenti. E anche un gusto per le semplici cose, le cose che si dispongono ai lati della storia o del futuro: poiché storia e futuro risultano essere concetti onnicomprensivi quanto vuoti. Il recupero allora sarà rivolto al caso singolo, al caso esistenziale, al confronto con fatti concreti, non astratti. Non disgiunto nemmeno dal procurare avvisi sull’apparenza ingannevole delle cose, né alieno da una sorta di nostalgico ricordo di un “prima” migliore. In ogni caso sempre attento a risistemare il giusto metro di un confronto tra cose incongruenti, non integrabili eppure necessarie. Il tono leggero si salda pertanto con un tono pacato, fermo, che richiama l’attenzione alla cura e alla riflessione.

       

Desistito
Il futuro se ne sta tutto solo.
Se ne sta, sembra, per i fatti suoi,
senza speranza di riaversi nei ricordi,
già suoi, ormai esausti e orfani,
eppure un tempo ancora in corsa,
e lui se ne sta ora in disparte,
fermo sul ciglio della strada, appiedato,
come un ciclista in testa che ha bucato.
                                               [Da: Rotulus pugillaris]

La Pagina
Bella è la pagina bianca
così inattingibile e nuda,
pure qualcosa le manca
perché non resti muta.
E basterebbe una parola,
anche una, una sola,
ma distintiva, tale
da poterla chiamare come,
appunto, un nome
lanciato lì a sonda
in attesa pungente
che risponda.
                                   [Da: Rotulus pugillaris]

D’inverno
La fronte fredda sul vetro
guarda tra bianchi e neri,
domani rimossi dai ieri,
pagine abrase dal retro.

Non va né avanti né indietro
persa tra gli uni e gli zeri,
i falsi son così veri
che un metro è misura d’un metro.

Un tempo il tempo era in corsa
in una rosa d’eventi,
ora in preda a un grigio furore

lo guarda nella gran morsa
sfiatare i suoi gridi spenti
la fronte a un opaco tepore.
[Da: Il punto di vista]

Favola ottimista
Una summa presumi.
Quare?
Qui siamo sempre ai frammenti.

Ma i frammenti non sono frantumi.
Esemplare,
come in una favola
di Fedro o Esopo
e con l’evidenza della rima:
i frantumi è dopo,
i frammenti è prima.
                                   [Da: Allegorie quotidiane]


Mario Socrate (Roma, 1920Roma, 27 marzo 2012) è stato un poeta e scrittore italiano. Professore emerito alla Terza Università di Roma, è stato tra i fondatori della rivista “Città aperta”. Oltre a una notevole produzione come ispanista (Il linguaggio filosofico della poesia di Antonio Machado, presentazione di Cesare Segre, Padova, Marsilio, 1972; Il Riso Maggiore di Miguel de Cervantes, La Nuova Italia, 1997) e traduttore (Luis de Góngora, Poesie, Modena, Guanda, 1942; Federico Garcia Lorca, Sonetti dell'amore oscuro: e altre poesie inedite, Milano, Garzanti, 1985) vanta un’intensa attività come poeta e romanziere. Con la raccolta Punto di Vista (Milano, Garzanti, 1985) ha vinto il Premio Viareggio per la poesia.