domenica 27 dicembre 2020

“Not bad (2019-2020)” di Claudia Zironi, Arcipelago Itaca, 2020

 


Una riflessione sul tempo, nell’ultima prova di Claudia Zironi, “Not bad (2019-2020)” Arcipelago Itaca, 2020, sui valori che non tramontano è necessariamente un’analisi effettuata sulla storia, nel racconto che si stila, non perché essa, sviluppandosi nelle sue determinazioni passate, presenti e future, colga sincronicamente il loro intreccio, quanto, piuttosto, per il motivo che è nella storia che s’intravede ciò che non trascorre, il quale fisso e benevolo se ne sta dietro ogni cosa, atto, sorriso o insulto. E così dagli infimi e insensati particolari si risale al senso, a qualcosa di solido, di durevole, la cui fondazione risiede nella coscienza.

 

se tu fossi il vento io

starei ferma

tra le lavande di giugno, immobile

con abiti ampi, bianchi di bucati antichi

ti lascerei passare, aperta e sorridente

come scampata

alla storia, agli anni, alla fossilizzazione 

degli ammoniti, ti lascerei entrare

sotto i cotoni nascosti, tra le pieghe della gonna 

ti lascerei rubare ogni profumo – terra della terra

fiore di ogni fiore – vento mio, mio sole – ti donerei

questo nostro nuovo tempo passato.


E non vi è altra via per risalire a un siffatto senso che quella di indugiare sui particolari, l’erba, le formiche alle quali sentirsi solidali, riconoscendo in essi la medesima materia e volizione, scopo e morale che albergano nell’animo umano. È la sostanza tutta che viene coinvolta in questo afflato, anche, dunque, la bufera, il giallo, la tana. È un passaggio continuo, effettuato per via d’osmosi, di letterale incarnazione, dove le premonizioni avvengono attraverso la materia o i ricordi della stessa: “un viaggio estivo di cicogne barocche e luci impermanenti’. È ciò che, al tempo stesso, viene frapposto, quasi una diga, a un prossimo sgomentevole tempo degli automi.


Il mondo è convocato, con le sue innumerevoli forme e materie, tra le quali si attua una metamorfosi senza soluzione di continuità, e Claudia Zironi vi partecipa quasi cosa fra cose, nel tentativo di dismettere la propria individualità. È lampante il pericolo che corre chi voglia donarsi al mondo contro ogni barriera, negando persino la più ovvia valutazione di sopravvivenza, ma è la necessità del sincero donatore. In fondo, la volontà di mettersi a nudo sulla pagina è azione contrastata da tutta una serie di impedimenti stratificati, anche linguistici, dai quali è necessario liberarsi, e che richiedono sforzi notevoli e lunghi. A questo si deve la versificazione costantemente variata, a tratti tendente alla prosa, sebbene resti intatta la cesura di fine verso. Vi si individua anche una non estromissione della logica dal discorso poetico, pur di affrontare le questioni da ogni lato, in ogni modo. Così che tutto il libro può considerarsi un esercizio per adattare il mondo al proprio desiderio, poiché si tenta di nulla escludere. L’inane compito assunto non teme di presentare i suoi fallimenti e le sue lacune e così la credibilità dell’esperienza poetica diviene la porta di accesso per la condivisibilità del lettore. 


non saprei dire esattamente 

cosa manca ancora, forse 

il tuo essere corallo 

vivido e in estinzione, il mio

sedimentarmi in te, renderti opaco

roccia anelastica, prossima 

alla disgregazione, paziente calcare, rifugio 

di perfetti animali elementari.

ci veglieranno insieme, nelle notti

già stellate e silenziose, dai calanchi

del nostro nuovo mondo 

in formazione – in absentia.


L’oscillante moto fra tutto ciò che si ricorda, spesso montagne di inutili detriti, e ciò che è essenziale è il medesimo che traccia il percorso perenne del desiderio che corre finché c’è vita; in tal guisa, la morte traluce tra questi estremi come un trasalimento o un fondale inabbattibile. Non c’è qualcosa che prevale sull’altra, in tale inesausto andare, ma indomita è la posizione di colei che tutto vuole tenere a bada e spingere in una diversa direzione. Soprattutto, risulta ammirevole la posizione di Zironi nel mostrarsi capace di godere di ciò che sopravviene del tutto inaspettatamente e di accoglierlo come provvidenziale:


# you are here 


quando nessuno ti aspetta, puoi fermarti

in un giardino, di notte, a guardare le stelle,

e ti consola, questa bizzarra primavera

di gennaio.


                                                                                 Rosa Pierno


lunedì 14 dicembre 2020

Marco Furia su “Un tuffo più grande” di David Hockney, 1967


 David Hockney, “Un tuffo più grande”, 1967, acrilico su tela, Collezione privata


Nel 1967, David Hockney dipinse “Un tuffo più grande”.

Ci troviamo al cospetto della statica rappresentazione di una villetta con piscina e di un tuffo in quest’ultima.

Nessuna figura umana è ritratta (sono visibili soltanto spruzzi).

L’evidente piattezza dell’immagine non è inespressiva.

Il trasversale trampolino giallo indica, quasi fosse una freccia, la moderna costruzione, bassa e rettangolare, sulle cui vetrate si riflettono scure sagome di altri fabbricati.

Davanti agli ampi vetri si trova, solitaria, una sedia pieghevole e, sulla destra, svettano due alte palme dai tronchi sottili.

Il cielo è di un azzurro simile a quello dell’acqua.

La palese propensione per la pop art assume qui aspetti metafisici: vi è ben poco di realistico in un quadro in cui abbondano campiture di colore uniforme.

Dove si trova quella villa? Chi si è tuffato?

Domande senza risposta.

I ciuffi delle palme di certo vedono e sanno, ma non parlano, mentre la sedia pieghevole, forse in attesa del tuffatore, custodisce in silenzio i suoi segreti.

Eppure l’espressività non manca.

Sceglie la via di una rarefatta eleganza e si modula secondo una sorta d’enigmatico pentagramma, costituito da linee orizzontali e verticali, la cui raffinata (muta) musica è interrotta dagli spruzzi sollevati dal tuffo. 

Senza quei fiotti, l’opera sarebbe in equilibrio e potrebbe intitolarsi, ad esempio, “Villa con piscina”.

Ma, non a caso, il suo titolo è “Un tuffo più grande”.

Più grande di cosa?

Più grande di quell’assetto lineare che, altrimenti, regnerebbe incontrastato con la sua monotona uniformità.

Siffatto assetto, nondimeno, mostra di reagire: l’immagine bloccata dello spruzzo è poco consona, ma non è in grado di opporsi più di tanto alla diffusa fissità che la circonda.

Rapido movimento e metafisico immobilismo si confrontano: nessuno dei due contendenti sconfigge l’altro, sicché non si giunge a una composizione, bensì, come dicevo, a una, forse ironica, mancanza di equilibrio.

Ho detto “forse ironica”, perché mi pare di avvertire la presenza di un giudizio non proprio del tutto benevolo nei riguardi della cosiddetta società del benessere che, durante gli anni sessanta del secolo scorso, in particolare negli Stati Uniti d’America, a tutti prometteva confortevole agiatezza.

Vengono alla mente certe sequenze di un celebre film di quell’epoca riguardanti le vicende di un giovane laureato, appartenente alla classe medio – alta, che entra in conflitto con modelli di comportamento sociale tutt’altro che privi di opprimente ipocrisia.

La felicità, insomma, non può consistere nel semplice possesso di una villetta con piscina: tuttavia loro, la villetta e la piscina, non lo sanno.

Il tutto secondo tocchi precisi, sobri e davvero eleganti.


                                                                                                 Marco Furia