martedì 28 febbraio 2017

Le sculture di Anne-France Aguet






La forma si muove come un arto, con una torsione appena accennata, un movimento che della carne mostra l'aspetto più diaccio.

La piega fa accortamente scivolare l’ombra lungo le pareti per raccoglierla. Poi sembra ruotare, come un meccanismo perenne, eppure è solo la luce a slittare sui bordi.

Forme suadenti e sfuggenti, con la trama delle marmoree venature adescanti l’occhio. Al tocco, è certo, si modificherebbero.

La curva scivola all'indietro, ove lo sguardo non può giungere. È una figura che aggrappa altri spazi, luoghi impervi, ove l’occhio che cerca cade in un abisso luminoso.

Su tali selle, lo spazio viene disarcionato, mentre una tinta perlacea si deposita nelle calcaree pozze.

Le curve hanno l’ambiguità dettata dalla variazione del raggio. Trasla insieme a esso ogni ragionevole possibilità di comprendere, poiché il concavo s'insinua nel convesso.

Par che cavando materia ai volumi si porti alla luce il bianco assoluto del marmo di Carrara. Essi si lasciano avvolgere dal candore gocciando ombra lungo i fianchi.

È una forma che prima non esisteva. È l’abaco delle possibilità a cui un oggetto curvo  può dar luogo, portando a scomparsa il mondo precedente.

Da un’altra angolazione, la forma sospesa sul piedistallo, non la si potrebbe riconoscere: non si hanno punti di riferimento. Il concavo si estroflette verso l'alto e il convesso si adagia senza trovare sostegno.

Nessun punto è uguale a un altro, nessuna regolarità si riscontra nel corpo: le forme tratte da una geometria organica sono fisiche concrezioni della mente.

Il dialogo è del tutto apparente, le due figure sono simili, eppure non confrontabili. Dello spazio saggiano la resistenza, si depositano come sacche di liquido, si espandono col ritmo del respiro, si contraggono se lo sguardo le circuisce.

Le curve si ripetono in un moto colloidale che sempre conserva la forma originaria: la prima curva.

Vorrebbero penetrare nelle zone contigue occupate da altri corpi, solo il nero della base impedisce il loro inabissarsi.

Forme che fanno della contiguità un paradosso. Staccatesi l’una dall’altra come per divisione cellulare, in nessun punto conservano uguale comportamento.

Persino la linea della disgiunzione è cancellata dalla malleabilità della materia lapidea, la quale finge una vaporosa consistenza. Su questa curva scivolando, ci si  ritrova nell’aere spinti.

Il nastro si torce fino a invertire direzione, imprimendo ai sensi un cambio repentino che la mente asseconda con difficoltà.

Persino se in forma di nastro, l’opera non giace mai sul piano, ma rende lo spazio un ammasso di pieghe, volute, corridoi e piste. Spazio esiste realmente solo se intercettato.

Il colore, il rosso di Arzo, conferisce allo spazio la preziosità di una materia che non gli apparterrà mai.

Eliminando tutte le linee rette si ottiene un corpo che si muove sotto una lapidea veste. Vestale di inusitati altari.

Lo spazio viene compresso, stipato e risospinto, respira e si muove solo grazie alle sagome.

Le concrezioni in “macchia vecchia”, coi loro grigi a zolle, captano la luce in modo difforme pur  agendo lungo una medesima linea di flessione.

Le tondeggianti macule possono ingrandirsi, modificando la curva della struttura. Nemmeno è credibile che restino ferme, quando non osservate, né che cessino di muoversi con la medesima forza.

È da credere che la materia compia le sue rotazioni in maniera impercettibile all'occhio. Che si possano vedere soltanto aderendo totalmente alla superficie, azzerando qualsiasi distanza tra l'osservatore e la massa venata.

La loro stasi è legata alla prima percezione, poi lentamente si muovono, i pori si aprono, le membra si sollevano. Marmo è materia vivente.

Mai esse producono vuoto. Spazio è prodotto dal movimento locale, dal moto della pietra. Forme rendono pieno il mondo.

Luce e spazio, per le opere, sono il mito da sfatare.


                                                                                        Rosa Pierno




martedì 21 febbraio 2017

Rosa Pierno su Ida Travi nell’antologia Passione poesia, a cura di Sebastiano Aglieco, Luigi Cannillo e Nino Iacovella, Ed. CFR, 2016




A partire da personaggi, scenografie, tempi e luoghi, oggetti e concetti che si passano la staffetta da un libro all’altro, Ida Travi mostra una capacità straordinaria di innestarvi sfondi filosofici, prospettive di senso e approfondimenti inusuali aventi una fissità che si mostra come varietà e varietà in continua metamorfosi: caratteristiche che rendono la poetessa bresciana una figura cardine nell’arco temporale che la presente antologia esplora.  
Tali elementi sono immersi all’interno di una cornice atemporale, come accade nel suo ultimo libro di poesie Katrin. Saluti dalla casa di nessuno, Moretti & Vitali, Bergamo, 2013. Ciò non vuol dire necessariamente estrarli dalla storia, visto che c’è un’origine, un percorso, un agognato traguardo, anche se, nella scena cinematografica costruita dalla Travi, il paesaggio e gli attanti  hanno consistenza solo mentale: paiono più un simbolo, che un referente concreto. A riscontro, si osservi come il corvo volando percorra una ruota e la neve stia per il nulla. Quest’ultima, convocata assieme alla sua negazione (ciò che è nero), appartiene a un ciclo: diviene acqua e nutre la pianta. Neve personificata, recuperante il suo senso all’interno di una filastrocca, scandita da un tempo ciclico o lineare. La continuità della filastrocca trova una sua ideale rappresentazione nella “continuità” esplicitata tramite l’analogo “divenire” della cultura orientale, ove ogni cosa è plurima, non separabile dalle altre, anche quando è difficilmente riconoscibile e collegabile. Si prenda come esempio la culla da cui tutto origina: punto di passaggio dall’indistinto al differenziato: il passaggio non è occluso, accoglie il moto della spola poetica. Nel tessuto sono comprese le poetiche lacune in cui il silenzio si annida come per sostenere, quasi dare corpo, all’impalcatura del dire poetico. 
Abbiamo incontrato in Poetica del basso continuo, Moretti & Vitali, Bergamo, 2015 il riferimento al cinema di Godard, in particolare ai suoi cartelli scritti al posto delle parole oppure accanto alle parole pronunciate, a cui la poetessa affida lo snodo centrale della sua poetica: la problematicità del linguaggio che si snoda senza mai risolversi tra oralità e scrittura, tra silenzio ed espressione profetica, tra svelamento e nascondimento. Linguaggio, dunque, come cosa da fare e come alter ego del silenzio, come corpo (la scrittura) e come suono.  E questi snodi (che segnano discontinuità che non comporta soluzione di continuità) equivalgono, dal punto di vista testuale, a sequenze filmiche, sia a livello di singola poesia all’interno del libro sia fra i libri tutti della Travi, delineando una serie che può essere permutabile all’infinito e dove la parola letteralmente viene estratta a forza dal silenzio imperante.   
Non bisogna, pertanto, accordare troppo credito al dialogo - quasi un monologo - che la protagonista arma intorno agli altri personaggi: le esortazioni morali, le prescrizioni, i consigli, i divieti, sono quasi una rete che imbriglia i movimenti, che chiude nel bozzolo l’io. Come ho rilevato in una precedente nota critica per Il mio nome è Inna, Moretti & Vitali, 2012, si salta la frattura solo con gli occhi chiusi, solo dimenticando ciò che si sa e persino le profezie di cui il testo è disseminato. A tutto togliendo credito, a ogni cosa credendo.  Ansie, paure, speranze, illusioni sono in tal senso, un puro portato del linguaggio per Ida Travi, la quale ne denuncia i limiti, la forma ineludibile, se non in senso paradossale. Sfuggire è approfondire, ripetere fino allo stremo delle forze, fino al punto in cui l’inanità del dire si salda con il pre-linguistico, quel luogo mentale di cui ella stessa ha parlato così diffusamente nel saggio L’aspetto orale della poesia, Moretti & Vitali, Bergamo, 2000.  D’altra parte, quanto di ciò che è rappresentato sulla pagina è concreto se passa per il linguaggio? O il concreto è solo il luogo delle cose rappresentate? La favola sarebbe per questo il luogo più familiare che possiamo abitare: non tanto la terra, dunque, quanto il mondo ricreato con i frammenti della cultura tutta: l’armamentario è dei più vari: “chi mi aiuterà? Chi / mi assegnerà il perdono? / Quel ciliegio laggiù, lo vedi? / quello è il ciliegio della nostra clausura / Valgono seimila stelle, le mani riposanti / valgono seimila anni luce” (da Katrin. Saluti dalla casa di nessuno, Moretti & Vitali, 2013).
Nessuna soluzione possibile se non la raggiunta consapevolezza dei mezzi. O la favolosa metamorfosi in oggetti:  “Quand’ero un albero / non soffrivo così”. Richiamo alla metempsicosi, ma di stampo occidentale, nel solco di un trasformismo tutto teatrale: ogni cosa non è che rappresentazione, ma convocata nell’accezione del suo valore più pieno, sostanziale, essenziale.  Frutto di quell’immaginazione che, di fatto, replica il mondo, che lo rende usufruibile, una volta che si sia entrati nella sfera dell’uso del linguaggio: “Finiranno nel secchio, puoi giurarci / finiranno nel secchio d’inchiostro / le abitanti della tua volontà”.
Il ruolo del simbolo merita un discorso a parte, è qualcosa che sta fra immagine e concetto, territorio intermedio, arbitrario, del tutto dipendente dai sistemi culturali che attraversiamo. Non c’è una verità fissa, immobile, fondata. Ci sono, però, oggetti speciali, fondamentali per la macchina testuale di Ida Travi, fabbricatrice di mondi dismessi. Anzi il vero pericolo, sempre in agguato, è la possibilità che anche questa creazione si fratturi e il vero invada come pece nera la teatrale scena, il mondo così faticosamente costruito e innalzato: meravigliosa torre di Babele,  mistero privo di fondo, apparizione enigmatica solo per chi ignori i meccanismi tutti umani della sua istituzione. 
Anche per la Travi, si configura la preminenza del valore della poesia di marca aristotelica, la sua preponderante capacità catartica e, diremmo, salvifica: che faremmo, infatti, in un mondo privo di linguaggio? Persino il balbettio originario perirebbe se fosse inficiato dalla perdita del linguaggio articolato. Così non bisogna credere che la preferenza della poetessa per l’oralità sia una preferenza a spese del linguaggio (oltretutto lei del linguaggio ordinario fa un tale uso che ordinario più non appare, parendo anzi quasi una fola l’asserire che l’ordinario esista). Ne L’aspetto orale della poesia, infatti, è più volte specificata la separazione che l’introduzione della scrittura ha creato nell’antica cultura greca, ma, appunto, per ribadire la superiorità poetica rispetto a una differenziazione che tocca la aree del giuridico, dello scientifico, del filosofico.
Parrebbe sussistere lo scarto, quasi un mondo perso, da riattivare, fra attuale e remoto: quella fra la meravigliosa infanzia e la condizione adulta: “l’antica melodia / adesso non canta più / Come saranno i meli in fiore, adesso / chi lo solleva il cesto delle rose?” (Da Katrin. Saluti dalla casa di nessuno, Moretti & Vitali,  2013), ma non bisogna cadere nella proiettata frattura, partecipando senza remore al gioco che tutto riattiva e rinvia: il linguaggio medesimo. Se le cose tacciono, se non riescono a essere più simbolo di alcuna cosa, il linguaggio s’incarica, comunque, di inserirle nella scena e di segnare con le parole gli oggetti, di tracciare il posto che le presenze occupavano, di essere il cartellino con cui segnalare l’assenza e non è cosa da poco. Si accetti, dunque, il valore di una poesia che si vuole simulacro di ex-entità. Di sperimentate presenze, di tempi fluenti, di metamorfosi continue. Il linguaggio non è travestimento, è qualcosa che sta per qualcos’altro, quando questo qualcos’altro non è ricreabile che, appunto, col linguaggio, come avevo già segnalato per Tà. Poesie dello spiraglio e della neve” Moretti & Vitali, 2011: non sarà infatti proprio la capacità della poesia a donare la possibilità di non essere banali, di  non abituarsi a nulla, di non accettare niente come dato e tutto ricreare? Non è che retorica domanda. Parola è trappola e liberazione insieme.
I versi risentono di una difficoltà emotiva, di un disagio. La perdita è cocente e in qualche modo non colmabile. Non c’è felicità, ma è presente il gesto che cura. L’attenzione è alla memoria, al culto, a una sacralità che si serve per essere esercitata di secchi e catini, grembiuli e fiori di ciliegio, pettini e colonne, rastrelli e cancelli, mentre nuvole scorrono come un nastro nel cielo, convocando in scena anche la meraviglia. E’ un mondo non privo di squarci, aperture improvvise come l’al di là dello specchio di Alice. Certo, un conflitto tra atemporale e storia sussiste, ma è come il cambio di una lente focale, si mette a fuoco un diverso livello per volta, mentre il resto è sfocato. E, allo stesso modo, il mondo intatto, senza colpa e senza macchia, sussiste accanto a quello tarlato, minato dal male. Anche se a volte vacilla la fede in ciò che è fermo e immacolato e pare di essere intrappolati soltanto nel mondo dell’angoscia: “Qui nessuno rende conto a Dio? / Ci dev’essere un vasetto, una pomata / Ci dev’essere una pianta curativa / da qualche parte”. (Da Katrin. Saluti dalla casa di nessuno, Moretti &Vitali,  2013).  La mancanza di senso non è solo in agguato, è nell’arena: bisogna fronteggiarla. La foglia verde è il contrario della polvere. 
Nel testo è anche la consapevolezza di passare per la strada già esplorata da Beckett: l’attesa determinata dall’illusione, qui oramai svelata, sorta di ferro vecchio (rimarcato da” Quel che ha pensato il filosofo posso pensarlo anch’io”.)  Né i rimedi messi in atto nel testo dalla Travi subiranno miglior destino (anche se persino passare in rassegna le illusioni, le favole ha in sé qualcosa di salvifico). Le cose di allora non sono le medesime di oggi: e solo il pettine starà per la casa, sito che si è perduto.  La strada sarà stata, intanto, percorsa. E’ solo questione di tempo e non importa di quale tipo di tempo si tratti. Ci sarà in ogni caso continuità tra il tempo prima della nascita e quella dopo la morte: sorta di torsione, non d’interruzione. Il tutto comprende la casa e la mancanza della casa. Ma, a tratti, sembra essere solo un’interruzione visiva, un pallore delle cose, uno schermo che si frappone tra noi, la nostra interiorità e gli oggetti con i quali questa interiorità abbiamo costruito.

                                                                           Rosa Pierno



mercoledì 15 febbraio 2017

Libro d’artista “Condotta forzata” con testo di Marino Cattaneo e disegni di Loredana Müller





All’apertura del libro, esemplare unico, si precipita lungo la dimensione verticale, esattamente come sarebbe accaduto alla Alice che avesse sconsideratamente aperto la botola. In realtà, il libro Condotta forzata, con i testi di Marino Cattaneo e i disegni di Loredana Müller, più che un libro si presenta come un corridoio che immetta in una dimensione in cui le parole sono oggetti e i segni bianchi cordoli da afferrare per la risalita. Per la condotta, che fa precipitare l’acqua e allo stesso modo i vocaboli,  si veda la splendida pagina costruita col lemma “giù”, intervallato da vacuoli che valgono come intermittenze, consentendo all’occhio di cogliere le immagini volatili della discesa come accade nella ruota conservata al Museo della Cinematografia di Parigi, ove le fessure fanno percepire l’altrimenti invisibile volo dell’uccello.

La contiguità delle parole, deprivate da sintassi, veicola e inscena, assembla il paesaggio, accostando elementi concreti e astratti, intessendo fra i materiali che andranno a costituire il nido-testo, anche i rumori e le percezioni spazio-temporali, le variazioni meteorologiche. L’immagine-collage, costruita con i procedimenti dell’omofonia  e dell’analogia, utilizzando assonanze e allitterazioni, si rapprende, diventa trama fittissima, facendo scorrere dinanzi a noi, il tessuto filmico del paesaggio. La percezione è essa stessa coatta, non solo perché è quella che si subisce nei pressi dell‘impianto idroelettrico, situato fisicamente tra Giubiasco e Camorino, quanto perché è la mente a dispiegare il fonico contrappunto, a disporre la visione nella struttura testuale, quasi che il soggetto subisse entrambi, facendoli accavallare fino all’intrusione, nella caduta percepita, diremmo.

Tuttavia,  il testo finisce col prevalere, si libera dalle strettoie del visto, prosegue sui propri reticoli, s’allarga a macchia d’olio, riconquista brandelli di sintassi, s’apre a considerazioni umane e sociali (la fatica degli operai, quella dei progettisti, la sfida disumana portata dagli umani alla natura e la prova sostenuta,  ma anche il contraltare di tale fatica che ha un riscontro nel sogno e nella realizzazione, nello scopo  dell'impianto  di cui beneficia la comunità).

L’acqua stessa è un sogno: nelle sue profondità blu elettrico, nelle sue riflettanze chiare, ove sgorgano altre identità, l’artista Loredana Müller segue a sua volta la condotta idrica immergendovisi, percorrendone le cavità, grotte che si specchiano l’una nell’altra e che, come nell’antro di Circe, fanno smarrire la memoria, ma  ove sono anche i cordoli bianchi che affiancano il percorso, procurando la possibilità della risalita. Il libro è ideato con una geniale sezione tra testo e immagine - i quali restano separati da un taglio della carta - raddoppiando e amplificandolo la discesa: si scivola nel libro fino all’epilogo ove, magnificamente, si rimane nelle profondità intestine di un testo invaso dall’intensità del blu.

                                                                                                  Rosa Pierno







sì tutto                                                            
anche il nulla
refolo d’ombra o
soffio
quel fruscio anche
tutto tutto
 finire nell’inghiot-
        titoio ti dico
      la geometrale del
         tempo il corso
           dello spazio
     per forza di legge
   per rinascere esatta
     più sublime natura
          sublime merce
                  tutto

          nubi nubi nu-
bi albe albere ramaglie
scaglie rami le più mi-
nime lune le più minime
trasudazioni trame tane
neve livree livori cro-
ste radici tracimazioni
le più minime rocciosi-
tà accidia squame nembi
nuvolinembi di novembre
d’ottobre buriane burìe
tormente Carena Carmena
Verona di bestie Verona
affilata tritume d’ope-
rai operai operai grumi
muri musi fumi fumigno-
li ombre di sfuggiaschi
(giù giù) foschie Costa
Schena creste Canaa ce-
mento teste diga bitume
armeggiamento (in curva
d’aria) malora gallerie
gallerie di galera mor-
morio acredine torrenti
sommovimenti di baracca
lavorio di trame faglie
fame lame ale unghiasse
settembre le più minime
traversagne poi anche e
bocche (fauci) ferrigne
ferrai carrai laminatoi
colatoi caprai minatori
sassaie sassaie sassaie
volpi

(estratto dal testo Condotta forzata, 2016)


www.areapangeart.ch

giovedì 9 febbraio 2017

Intervista a Claudia Zironi




Il tema dell’amore, che nei tuoi testi è indissolubilmente intrecciato con il tema erotico, è sempre presente nelle tue poesie, ma visti nel doppio versante della pienezza e dello scacco: è una visione complessa e irresolubile, di cui vorremmo ci parlassi… 

L’amore non lo definirei un “tema” ma un “tramite”: spesso uso l’amore per parlare d’altro arrivando a toccare nel lettore corde diverse da quelle della razionalità. L’eros - o carica erotica - che si percepisce in alcuni testi credo che derivi da una mia caratteristica carnalità che diventa elemento imprescindibile di scrittura: una rivelazione dell’autore nell’opera. Dunque, certo, pienezza e scacco nella complessità di un impianto narrativo e nell’irresolubilità di un anelito comunicativo. Ma tornando all’amore come tramite: non è sempre stato così. Nel mio primo libro “Il tempo dell’esistenza” l’amore fa capolino, e fine a se stesso, solo in pochissime poesie. All’epoca non lo consideravo un portale di accesso alle emozioni del destinatario finale, avevo con lui un rapporto dialogico più diretto. Il progetto del mio secondo “Eros e polis” nacque invece con intenti cronachistici: in esso l’amore e l’eros tinteggiano un’epoca femminile. Dunque l’amore funge da filo conduttore per illustrare frammenti di vita di donne.
Nel terzo libro “Fantasmi, spettri, schermi, avatar e altri sogni” è avvenuta una svolta stilistica e una presa di consapevolezza nei riguardi della parola, di ogni parola. L’amore qui ha pieno senso evocativo al di là di significato e significante, introduce il lettore in un contesto emotivo. A titolo esemplificativo cito alcuni versi:

l’acqua cade sempre su altra 
acqua, seppure in altra forma 
e non si chiede il tempo. 

sarò prima di te ombra, quando
starai seduto davanti a casa

in attesa del tramonto. ti coprirò
i piedi come capelli, le ginocchia 
come accucciandomi. porterò
una nuvola di pioggia dall’oriente 
umida e calda di monsone, profumata 
di zenzero e vaniglia. risalirò 
le cosce tue

alle venti e trenta della sera.

saprà poi l’acqua come amarti. 

In questo che si può considerare un testo erotico, c’è una concentrazione di tematiche filosofiche e scientifico-naturalistiche. L’interlocutore, che potrebbe parere a prima vista un amante, è in realtà un’entità naturale e semidivina umanizzata, è la vita stessa alla quale l’io lirico ricorda la propria discendenza dall’acqua e nei confronti della quale si pone come essere caduco che tornerà in pace al proprio stato naturale. Le suggestioni bibliche dei capelli (di Maddalena) che coprono (asciugano) i piedi e quelle orientali delle spezie (zenzero e vaniglia), enfatizzano la carica erotico-materna dell’acqua, elemento primigenio, tema pregnante della poesia.


Un tema, altrettanto dominante, è quello della morte, ma dell’altro, non è la paura della propria morte. Che tipo di indagine ti consente la poesia, essendo uno strumento conoscitivo diverso dalla filosofia?

La mia poesia nasce da suggestioni che ricerco leggendo testi di tipo filosofico, scientifico e fantascientifico o contemplando opere d’arte. Ho sempre considerato la poesia parente stretta della filosofia per la sua capacità e connotazione di indurre nel destinatario “consapevole e attrezzato” spunti di riflessione e di fecondare la ponderazione. La morte, intesa come ritorno a uno stato naturale di inesistenza, è un tema caro della mia poesia da sempre: il mio primo “Il tempo dell’esistenza” è largamente dedicato a riflessioni in tal senso che tornano, rinnovate nella forma e negli interrogativi che pongono, nell’ultimo “Fantasmi…”. “Fantasmi…” però è una miscela di elaborazioni in vario ambito – con il filo conduttore della caverna platonica e dello schermo inteso come artificio del sistema socio-politico per il controllo della coscienza collettiva, nonchè modus vivendi della contemporaneità -  e la morte, a volte, è utilizzata, in modo analogo all’amore, per creare stati immaginifici atti ad accasare germi di pensiero.
Vari sono i riferimenti, piccoli gioielli incastonati, all’interno dei versi, nei miei libri. Dell’ultimo, ricordo quanto Simone Weil, Platone, Socrate, Martin Heidegger e Friedrich Nietzsche mi hanno portato a scrivere e quali risonanze mi hanno donato Emilio Villa, Alejandra Pizarnik, Idea Vilarino, Giorgio Caproni, Giorgio Manganelli e Dino Campana.
Tra tutti, amerei citare alcuni versi, certo tendenzialmente nichilisti, che mi sono stati ispirati dalla lettura di una descrizione scientifica dell’osservazione di un buco nero, in occasione dell’attentato di Parigi del novembre 2015:

mentre mi lavavo le mani dal sangue
– così, per distrarmi dallo schermo -
ho pensato un po’ oltre l’orizzonte
degli eventi a uno spruzzo di materia
nel lavabo galattico. ruotiamo verso il gorgo 
il nulla ha la massa di quattro milioni di stelle 
la tour Eiffel starà in un cucchiaino 
da caffè in argento, tutto il dolore
in una piccola tazza di ceramica bianca 
non avrà colore il sangue. 


In quale direzione sta procedendo la tua ricerca?

La mia “ricerca”, che preferisco definire “studio” per non creare attribuzioni ambigue di “genere poetico”, si rivolge e avviene per varie strade, personali  e collettive. 
Credo che sia fondamentale per il poeta, come per ogni artista, confrontarsi con gli strumenti del mestiere e affinarne sempre di nuovi. Dunque lo studio linguistico, che mi ha sempre appassionato - con attenzione per i componenti fondamentali della lingua che sono le parole e la sintassi, attingendo a confronto a strutture lontane (lingue antiche e lingue orientali) o adiacenti (i dialetti) per arricchire la visione della loro efficacia e sonorità, con attenzione per il mutare delle espressioni in base ai tempi e ai riti sociali, con attenzione per tutti i discorsi attorno alla traduzione e la sua pratica - è certamente basilare. Ma da tempo anche la resa grafica e quella vocale della poesia mi appassiona. Di recente, ad esempio, è partito un laboratorio con 24 amici poeti in cui l’interpretazione orale del testo ci sta aprendo a nuove visioni della nostra scrittura. La sintesi del lavoro è consultabile alla pagina: http://www.versanteripido.it/newsletters/la-traduzione-della-interpretazione-laboratorio-di-versante-ripido/
Per me ha molta importanza anche l’ambiente in cui avviene l’atto artistico: comprenderlo e coltivarlo. Dunque mi dedico, per trarne stimolo intellettuale, alla conoscenza del lavoro altrui, e al confronto, anche diretto, sui grandi temi della letteratura contemporanea.
Versante ripido, la fanzine da me fondata con Polvani e Rambaldi nel 2012, seppur nata con scopi non individualistici, mi ha dato molte opportunità in tal senso. E IgiovedìDiVersi, il ciclo di incontri settimanali che dall’ottobre 2016 porto avanti con Roversi, Secco e altri poeti della zona di Bologna è un naturale complemento di un percorso di crescita. Aggiungo che, poiché la grande arte ha spesso attecchito in terreni fertili, dove esistevano veri e propri circoli di artisti che teorizzavano le nuove “correnti”, la mia ambizione per IgiovedìDiVersi è che si sviluppi attorno a loro proprio questo: un grande fermento.


Sei attivissima con importanti quanto numerose iniziative volte a far conoscere autori e produzioni. Lo spazio dedicato a queste attività è segno della tua passione, ma anche del sostegno che ritieni si debba assicurare alla poesia in questo frangente storico. Parlacene.

Inutile ricordare che in questo frangente storico e culturale, in Italia, la poesia è diventata la Cenerentola della letteratura. Viva, vivissima per i poeti, è corpomorto per i grandi attori dell’editoria e ignorata dalla maggior parte dei lettori. Io amo la poesia, mi piace scriverla ma soprattutto leggerla. Vorrei condividere con quante più persone possibile questo amore e risvegliare interesse attorno alla fruizione della nostra arte. Essendo di carattere “fattivo” sto collaborando con altri poeti che hanno con me una comunanza di visione e insieme attuiamo tutte le idee di diffusione che ci sovvengono. Così è nato Versante ripido http://www.versanteripido.it, così sono nati IgiovedìDiVersi http://www.versanteripido.it/newsletters/17042/ e coerentemente con questa idea vengono studiati i recital personali e collettivi.


Dal particolare osservatorio che è Versante ripido, che tipo di poetiche individui? che tipo di tendenze si concretizzano? quali prevalgono nell’ampio scandaglio che la rivista effettua?

Versante ripido ha l’ambizione di diventare nel tempo il più possibile rappresentativo del panorama poetico dunque apre la braccia a ogni genere e a chiunque abbia qualcosa di pregio artistico da trasmettere. Essendo poi a carattere tematico, la fanzine ha affrontato finora in modo approfondito importanti ambiti come quello della poesia civile, della poesia femminile, della poesia del disagio, di quella sociale, di quella dialettale. Presto avremo un numero dedicato alla poesia per ragazzi. Abbiamo dato spazi ampi alla poesia erotica, a quella di viaggio, alla poesia orale, a quella ironica…
Se devo dare una valutazione di “tendenza” la cosa mi risulta assai difficile. Mi ha colpito però quanto sia vario e frequentato il sommerso mondo, nicchia nella nicchia, della poesia dialettale. Inoltre noto che lo slam - la gara poetica, la poesia fatta per la performatività orale e lo spoken word / spoken music – soprattutto tra i giovani – stanno letteralmente spopolando.
La prosa poetica, pure, intesa come prosa ritmica, con un impianto sonoro ben definito, che gioca di allitterazioni e assonanze, ricca nell’uso di figure retoriche, spesso surrealistica, è un genere frequentato da tanti scrittori.
Infine ricordo, in termini di tecnica, l’allontanamento dalla lirica e la precisa ricerca linguistica in atto da parte di autori che vogliono tentare, ognuno per la propria strada, un radicale allontanamento dal novecento.

Ma la maggioranza dei poeti, indipendentemente dalla tecnica utilizzata, noto che predilige la via della comprensibilità del verso e intenta un rapporto aperto con il fruitore finale.

giovedì 2 febbraio 2017

Gilberto Isella su "Il veliero capovolto" di Massimo Rizza


Massimo Rizza, Il veliero capovolto (con una riflessione critica di Carla De Bellis e un’immagine di Giulia Napoleone), Opera Prima, Anterem Edizioni, Verona 2016




Non c’è forse veliero, nell’immaginario poetico tardomoderno, che non possa dirsi capovolto. E difatti così si presenta in Massimo Rizza. Sagoma a rovescio di un natante corporeo e mentale, ogni cui frammento somiglia a “una parola capovolta/ liberata dall’umore che la copriva”. Veliero-testo: il succedersi di parole e frasi in continua tensione verso una X incognita. Tramontato per sempre il modello odisseico,  lungo i bordi invalicabili della signifiance opera un soggetto “mutante nell’immobilità”. Sa che quella incognita, nel suo darsi, custodisce il doppio registro, perfidamente oppositivo, di un viaggio interrotto o irretito nella stasi (“la strada giaceva ferma nel mezzo”), e di un veicolo desiderante.  Ed è appunto quest’ultimo, “sgretolando lento sulla cerniera di vento”, a lasciar transitare pulsioni scrittorie sul fecondo mare dell’intransività (“la parola che non nomina le cose” dice De Bellis in postfazione), al riparo da ogni tentazione di resa mimetica.
   Perché qui le cose reali, i referenti, sono sommersi ad libitum in una zona grigia dell’essere dove gli elementi si scambiano gli attributi – per rifrazioni e dissolvenze incrociate-  e la fantasmatica caravella, di fronte all’inarrestabile disperdersi della luce, è spinta ad agire nell’ordine della catabasi, proiettando le sue vele-lingue a rovescio su oscuri fondali marini (“rasenti gli abissi”), seppur nel vaghissimo presentimento di un riscatto. Che s’indovina là dove qualche parvenza di forma si lascia intuire e le parole-gusci alludono, con cadenze di pathos miniaturizzato, a presenze al di là del tempo  (“la schiena dell’orizzonte trattiene l’attesa/ della dolcezza assecondi la forma”).
   Un’isola si staglia in lontananza (Thule, estrema utopia di un senso-a-venire?), monade plurivalente la cui carne spettrale ma incredibilmente intrisa di Eros-Thanatos (“macerie del ventre”, “natiche di muschio”)  è chiamata a proteggere le precarie certezze della dizione, tra i chiaroscuri del continuo emergere e occultarsi della filigrana testuale. Ne nascerà presto, a ridosso di ossimori e distopie verbali  riconducibili alla cupiditas estraniata del naufrago, un “poema amoroso” (v. la sezione Sequenze per una storia d’amore) da intendere come simulacro narrativo concepito sulle derive spaziotemporali di una rotta frantumata.

Frughi la rotta tra le macerie del ventre
ossa scalcinate e nudità morte
tra le gambe del troncamento cicatrizzi la farsa
frusti il cielo prima dell’assalto alle stelle
il sogno in calzamaglia si offre alla notte
del fragore trattieni miniature nell’occhio

   Calzamaglia cosmico-erotica, guida velante e rivelatrice a un tempo, misura per una “voliera celeste dorata”, l’indumento testuale si dispiega e slitta “nella trama appena tessuta” come un rimbaudiano bateau ivre (a che punto psichicamente ferito?), declinando per instancabili condensazioni e spostamenti di significanti verbali e/o figurali, il tema – teatrale per vocazione, per lo meno in  un orizzonte beckettiano – dell’attesa e dell’assenza. Un binomio che potrebbe rimandare anche ai due volti speculari di tanta poesia novecentesca, a partire (è solo un’ipotesi) dai cortocircuiti e dalle prodigiose impasses di certo ermetismo italiano. Sennonché in Rizza ogni supponibile fonte viene profondamente rielaborata, per dare vita a un codice stilistico inedito, supportato da singolari giochi combinatori morfemici e sintagmatici, parallelamente al riverberarsi di incalcolabili eventi di un pathos indotto per fictio dall’anima attoriale. Fosse anche un lungamente covato esercizio metamorfico, mentre “si sta appesi alla pagine bianca” ma già l’”acqua di luce” sfiora una guancia:

(…) caduta dalla mano si fa goccia silenziosa
scolpita nella pietra, cedendo all’incanto giace
sul foglio a forma di farfalla, si apre purpurea e
attende che il protagonista la lasci sicura, di aver
interpretato la parte in una storia d’amore.

   Ecco allora squadernarsi,  sotto lo sguardo del corpo-veliero desiderante e “in attesa”, un paesaggio caleidoscopico pervaso di demoni onirici, attratto per ‘scatti rabdomantici’ dall’inconfondibile continuum garantito dal registro narrativo-teatrale, dal suo simulato ma spendibile capitale di durée, entro un dispositivo sintattico ampio e ondoso. Uno scenario, oseremmo dire, di resistenza ai moti del dissolversi, che sembra far da contrappeso alle inevitabili ricadute retoriche della distruzione. Almeno fino a quando scenario e corpo formeranno un tutt’uno, benché capovolto e imbevuto d’assenza, per “l’ultima visione alla fine”.

di quell’ultimo paesaggio lì quello addormentato nel colore
della terra, tra una collana di lanterne e il penero del cielo
di quel paesaggio attorto tra le pieghe del ventre, di quel
paesaggio lì, che si ripete negli occhi di ogni incontro e di
ogni assenza, dove le rughe incipriate portano al cuore
dell’attesa, e passando lo bevi e lo porti dentro, di quello
che basta capovolgere ogni volta perché regali l’ultima visione
alla fine.