martedì 30 aprile 2013

“Le ragioni della poesia” di Flavio Ermini



Note sulla ricerca letteraria di “Anterem”

Terza serie della rivista: 1983-93



L’espressione che definisce la terza serie di “Anterem” (1983-93) è: Le ragioni della poesia. Un passo ancora: per guadagnare quel terreno originario del pensiero che consenta un più radicale domandare; al fine di accedere a una poetica prima della poetica, prima cioè del suo irrigidirsi nelle forme tipiche delle sistemazioni dottrinarie. Dunque una poetica finalmente in armonia con il luogo del soggiornare che le è proprio: la radura aperta al dire ulteriore.
Un passo ancora: verso il respiro dell’essere. Nell’esposizione a un pensiero che, parlando dalla poesia, richieda la responsabilità etica del poeta, chiamato a corrispondere al testo e a condurre il lettore alla convergenza del sapere con l’inconosciuto.
In questa serie viene ricordato che il poeta in fondo ha un solo compito, ma capitale: spingersi fino al limite del dire oltre il quale ha luogo la contesa originaria che nomina l’iniziale differenziarsi del tutto. Ricordando tale compito, “Anterem” registra il movimento in avanti del pensiero poetico e insieme chiede di riflettere sui suoi fondamenti
La poesia e la parola che la costituisce non appartengono dunque al poeta perché non è lui a deciderne il senso, in quanto, come scrive Hugo, il poeta sa soltanto in parte, a volte in minima parte, ciò che la poesia finirà col dire al lettore. Ignora quale dimora prenderanno i suoi versi.
La parola del poeta conduce in realtà all’ascolto di se stessi e non della poesia. Ecco perché la parola che stiamo ascoltando è vicinissima a ciò che siamo. Ecco perché scopriamo che non c’è diversità tra quella parola e il silenzio che porta diritto a noi stessi. La poesia, come suggerisce Paul Celan, è «forse soltanto uno sviamento che porta da te a te». Questo «sviamento» nasce dal desiderio di dare respiro al respiro della parola; scaturisce dalla necessità di far risuonare il silenzio originario, quel silenzio da cui ognuno di noi proviene e nel quale ciascuno di noi, leggendo, torna a dimorare.
Il poeta dunque è colui che chiama dal silenzio. E invita il lettore a testimoniare il limite e a toccare i bordi dell’essere.
Il senso di quanto il poeta sta per dire ancora non c’è in nessun luogo. L’ascolto di quella parola impone davvero di mettersi in viaggio verso se stessi.
Con Le ragioni della poesia “Anterem” torna a sospendere la frontalità tra poesia e pensiero, giungendo a chiedere al poeta di esporsi alla necessità che lo ha fatto pensare; di affidarsi a nomi declinati come elementi naturali, anteriori alle distinzioni fra soggettivo e oggettivo; di aprirsi un varco verso ciò che resta di impensato.
Ci domandiamo: è ancora praticabile un respiro poetico che viva unito alla filosofia e alla scienza in virtù della necessità e, come chiede Zambrano, «in un’unità tanto intima e autentica da risultare invisibile»? È ancora configurabile un nesso tanto preciso tra sentire, parola e pensiero da cogliere in tutta la sua forza la lacerazione tra l’uomo e il mondo?
La possibile definizione di essere pensante è questa: un essere che non si lascia pensare da un altro essere o da una macchina. E la poesia? La possibile definizione di una poesia pensante è questa: una poesia che non si lascia pensare da un’altra istanza.
Chi lo può negare? Il pensiero della poesia non è più il pensiero della filosofia, dell’estetica, della critica letteraria, ma un pensiero che parte dall’opera stessa. Non solo. Il pensiero che parla dalla poesia è un pensiero che non può aver dimenticato di essere originariamente poesia.
Con la terza serie di “Anterem” viene rimessa in circolazione l’idea di una parola che si costituisca nei confronti delle cose come esposizione e ascolto senza mediazioni. E questo perché la parola non abbandoni totalmente l’inquietudine dell’enigma per la quiete del già-pensato.
Per la parola poetica non si tratta di afferrare le cose, come vorrebbe il già-detto, ma di incontrarle. Nominando la cosa, la poesia le rivela il suo destino così come lo assegna a se stessa.

                                                  Flavio Ermini


lunedì 29 aprile 2013

Sul web è in linea il n.51 di Testuale




Nota redazionale

Gli affezionati lettori della nostra rivista sanno ormai da tempo che  gravi problemi economici, dopo trent’anni dalla fondazione, ci obbligano a tralasciare la pubblicazione del periodico in forma di volume cartaceo. Una crisi, la nostra, nella crisi generale del nostro paese. Tuttavia, come già abbiamo comunicato, non intendiamo interrompere la nostra ‘testuale’ ricerca. Operiamo perciò in rete e chi desidera ancora leggerci e intrattenersi con noi può farlo gratuitamente visitando (stampando anche, se necessario, i saggi che possono interessare) il sito
www.testualecritica.it
che riporta integralmente numeri attuali e numeri degli anni più recenti, compresi, per il più lontano passato, i sommari generali dei numeri a partire dalla fondazione, anno 1983. Si possono consultare anche le Monografie e i Quaderni che sono stati più volte allegati ai diversi numeri della rivista.

In questo n.51 che, per l’appunto, si può leggere al sito nominato, si pubblicano esperienze di ricerca e analisi di particolare e più raro interesse, quali, per esempio, l’originale rilettura di Pascoli da parte di Giancarlo Buzzi, l’analisi linguistica in Petrolio di Pasolini da parte di Ugo Fracassa, le fascinazioni dell’amore in poesia esemplificate sui testi contemporanei da Rosa Pierno. Le ricognizioni storiche di Arturo Schwarz e di Fausta Squatriti possono sembrare repertori di eventi abbondantemente conosciuti: tuttavia la particolarità anche ‘ideologica’ delle reciproche prese di posizione può sollecitare, soprattutto nei nostri giovanissimi lettori, per generazione ormai lontani dalle esperienze del ‘900, un interesse aperto anche ad innovative discussioni storiche. Letteratura e critica straniere (in questo caso francesi e spagnole) incontrano fascinose proposte in Franco Campegiani per la poesia di Jean Flaminien, e, per vasto impegno, nella ricerca teorica del poeta e critico cileno Miguel Muñoz. Gio Ferri, come di consueto, cura la corrispondenza con gli autori nella rubrica “Letterale”.

SOMMARIO N. 51
Sommario


*La grafica di copertina è di Federico e Massimo Pizzi

venerdì 26 aprile 2013

THOMAS JONES (1742-1803)



Nonostante palazzi di Napoli siano poco più che uno schermo forato,  a volte caseggiati disabitati o facciate scrostate con lenzuola al vento, olii su carta li catturano come fossero vividissimi oggetti e lucenti. Il verdastro tufo, nella parte non soleggiata, rabbocca il verde scuro dei limoni. E cielo, pur implacabilmente azzurro, ne riflette le verdi assonanze. Quando facciate siano direttamente colpite da un cocente sole, il tufo par che si sciolga, liquefacendosi e trascinando la verde muffa delle piante abbarbicate negli anfratti.

In altre carte, facciate intonacate, una a ridosso dell’altra, tracciano un antico affresco di grigie gradazioni, poiché gli intarsi di pietra vulcanica sulle soglie dei balconi, delle finestre e dei terrazzi, connotano la città come un geologico reperto.

Muro di Napoli è muro che non è uguale a nessun altro muro. E’ caldo e freddo insieme. Il suo colore tufaceo è gravido di una sfumatura verdastra per la presenza, nella corte, di alberi di limone e fichi. Ha imposte irrimediabilmente chiuse e panni stesi ad asciugare azzurri e verdi, in studiato accordo al cielo e alle piante.


Golfo quasi non si riconoscerebbe - sebbene l’allampanata sagoma del Vesuvio e i pini e la baia forniscano tangibile riscontro - a causa dello svenevole cielo che stende sull’intero golfo un torpore, il quale ogni altra tinta spegne.  Deve essere per  l’afa che nemmeno se sono immersi nell’ombra consente ai colori di rinvenire.

E’ appena uno scoglio con una sola casa: quella del re. Si trova dopo l’insenatura di Trentaremi, nel golfo di Napoli, ma non sempre è dato d’incontrarla: forse dipende dalla direzione da cui si arriva o dall’ora. Quando il sole è accecante, Gaiola diviene una pellicola lattiginosa che si muove sull’acqua. I colori in primo piano sono quelli fondi e gelati delle cose cadute nell’ombra e anche la barca che solca le acque lascia alle sue spalle una persistente scia nera, a riprova che lì, dove tocca, l’ombra attecchisce come catrame. Il resto della piccola baia, prospiciente l’affiorante roccia, però, è chiara, quasi evanescente, e la minuscola isola non ha nulla di familiare. Nuvole, poi, scorrono dando man forte a una visione refrattaria allo sguardo per sua stessa natura.

Sole arroventa le facciate di tufo, le surriscalda fino a renderle fumiganti. Pertugi, luci, finestre, balconi non servono a mitigarne la bollente temperatura. Persino quando l’ombra riesce ad agguantare una facciata, il colore arroventato non si raffredda.


“Il promontorio di Capo Miseno da Monte di Procida”. Pur  pullulante di gente e di animali, di imbarcazioni e di palazzi, di frasche e di cirri, golfo, non accoglie l’azzurro smalto del cielo a causa di una preminente acidula emanazione di giallo paglierino. 

“Veduta di tetti a Napoli”. Ha ritratto la casa intonacata di bianco e cariata da finestre nere. L’intonaco è sporco di muffa e di umido. Dietro si solleva un cielo che è quasi un sipario, privo di profondità, incattivito da sordo, ferragno grigiume e insolentito da protervia. 

“L’entrata della Grotta di Posillipo”. E’ discinto ventre, esposto a ripide lumeggiature, a intemperie e alla tracotante rapina di aridi arbusti che succhiano senza sosta l’umidità dalla pietra. L’antro è mitigato solo da indaco intenso, quando cirri lo coronino di prezioso svolazzo, ma se il sole batte sul tufo, allora vi si riversa oro puro che sguardo rapina.

“La costa vicino Vietri”.  Il paesaggio ha essudato, ha espunto da sé ogni ricordo timbrico, presenta  solo tracce di estenuata vita, dopo una giornata assolata. Nell’istante rappreso sulla tavola, il crespo susseguirsi di chiazze opache e lucide sull’acqua racconta che la barca di pescatori sta tornando a riva sotto la rabbrividente ombra di uno scoglio scuro.

“A Sorrento, le rocce”. Lì dove il cielo è blu cobalto e le grandi masse acquoree, appena segnate nel contorno, sono zavorrate da un cilestre pallidissimo, e la costa priva di vegetazione  si mostra senza pelle, s’intravede il liquido cobalto di un motile mare. Sarà solo l’ombra ad aggredire le rocce, a scurire le onde con riflessi metallici, a renderla un indomabile scriteriato susseguirsi di ocra e di grigi.

                                                                      Rosa Pierno

martedì 23 aprile 2013

IL 5 PER MILLE ALLA POESIA E ALLA FILOSOFIA

IL 5 PER MILLE ALLA POESIA E ALLA FILOSOFIA

A N T E R E M

È sufficiente un gesto per sostenere la poesia e la filosofia:
destinare il 5 per mille dell’IRPEF all’Associazione Anterem
con la dichiarazione dei redditi del 2012 sul CUD 2013.
Va indicato nell’apposito spazio per il sostegno del volontariato
e delle organizzazioni non lucrative della dichiarazione
il codice fiscale di Anterem:
01797120233



La Finanziaria ha riconfermato la possibilità per i singoli contribenti di destinare sul CUD 2013 il 5 per mille della propria IRPEF direttamente all'Associazione Anterem con la dichiarazione dei redditi del 2012.

Tale possibilità ha lo scopo di permettere ad Anterem di ottenere - con la solidarietà diretta di chi è vicino alle forme della bellezza e del pensiero - quei finanziamenti che le Istituzioni pubbliche normalmente non prevedono.
Un'ulteriore opportunità
Destinando ad Anterem il Suo 5 per mille, si contribuirà a realizzare gli obiettivi dell'associazione - promuovere lo sviluppo della ricerca poetica e della riflessione filosofica ed estetica - senza alcun aggravio delle imposte.
Come fare
Si potrà esprimere il sostegno ad Anterem apponendo la firma nell'apposito spazio della dichiarazione dei redditi - là dove si prevede il sostegno delle organizzazioni senza fini di lucro - e indicando nello spazio sottostante il nostro codice fiscale: 01797120233

domenica 21 aprile 2013

Marco Furia su “Si minore” di Marco Ercolani, Edizioni Smasher


L’aria nelle pietre


“Le pietre
trattengono l’aria, diventano parole”
è pronuncia davvero intensa posta all’inizio della raccolta di Marco Ercolani “Si minore” (opera vincitrice del Premio Letterario “Ulteriora Mirari” 2012).
Se frammenti di crosta terrestre “trattengono l’aria” e si trasformano in linguaggio, viene spontaneo chiedersi quali siano, secondo il poeta, le circostanze di nascita dei vocaboli.
Coincidono con l’atto stesso del dire anche se, miscuglio di aria e pietra, hanno un’origine che si perde nella notte dei tempi?
Rocce e gas, lo sappiamo, erano presenti sulla Terra molto prima della comparsa dell’uomo e della sua lingua: questo, tuttavia, interessa ben poco al Nostro, poiché la sua è aderenza immediata a un’immagine tale da non richiedere alcuna giustificazione.
Siamo al cospetto di un ampio comprendere, coincidente con un vivido desiderio di comunicazione inteso a non escludere, a priori, nessuno.
Il verso
“Le pietre tornano vento, se sono guardate”
mostra come il poeta, anziché addentrarsi velleitariamente nell’enigma, si limiti a rappresentarlo con disinvoltura non sprovvista di un misterioso senso di consapevolezza.
L’attività dell’osservare ritorna nella sequenza
“Aveva guardato il buio così a lungo
che tutte le note della notte vibrarono”.
La vista si fonde con l’udito e il notturno concerto dell’oscurità è ascoltato con lo sguardo.
Il concetto d’immagine e quello di suono sono distinti, ma possiedono tratti comuni: non si dice, forse, che una composizione musicale suggerisce certi lineamenti fantastici e non si parla, talvolta, di sinfonie di forme e di colori?
Leggo a pagina 31:
“Ma preferisco altre visioni:
un continente d’acqua, senza figure,
che comprenda le nostre vite terrene
in una navigazione lentissima”.
È dunque un desiderio di dissoluzione nell’elemento liquido per eccellenza a ispirare “Si minore”?
Non direi, perché le “vite” (che restano, in ogni modo, “terrene”) lungi dall’essere annullate, vengono comprese “in una navigazione lentissima”.
È proprio siffatta navigazione ciò che più conta: attraversare oceani sconfinati con paziente coraggio rivela la presenza di una solida fiducia in se stessi che trae origine da concrete capacità.
Questa, fuor di metafora, è la via non della velleitaria audacia ma dell’affidamento, non del rischio azzardato ma dell’avventura cosciente: le giuste “figure” non mancheranno se sapremo disegnarle.
D’altronde
“La mente capovolge fluida
l’ordine del mondo”.
Il mondo esiste anche in virtù delle maniere in cui la sua presenza viene avvertita e, perciò, il suo “ordine” può subire modifiche e capovolgimenti.
Insomma, siamo dinanzi a una sorta di antropologia cognitiva che Marco presenta in modo diretto, perfino disarmante nel suo offrirsi senza condizioni.
Ma, chi è Marco?
Lo rivela il poeta stesso, con un’efficace pronuncia posta quasi al termine della raccolta:
“Quel lampo disseminato nelle onde
infranto e lucente:
io”.
Ci chiediamo, allora: chi siamo noi?
La risposta non può che consistere nel richiamo volto a promuovere un mettersi all’opera: spetta a ciascuno comporre, in mille e mille modi differenti, la propria poesia.
Sotto questo profilo, “Si minore” è coinvolgente invito a un consapevole fare

                                                                                                         Marco Furia


Marco Ercolani, “Si minore”, Edizioni Smasher, 2012, euro 11,00, pp.90 

giovedì 18 aprile 2013

“Maria und Marie. Io sono un’altra” presso la Galleria La Nube di Oort, Roma

Via Principe Eugenio 60
Vernice: sabato 20 aprile 2013 ore 18:30
Durata della mostra:  fino al 9 maggio 2013


Le tre artiste tedesche Sandra Heinz,  Edith Urban  e Cora Volz elaborano insieme, anche se su registri diversi, i due ruoli femminili contrapposti, spesso degenerati in cliché: Maria l'innocenza, la santa, la spirituale e Marie la sensuale, la voluttuosa, la seduttrice. In questa prospettiva l’uso della frammentarietà nelle loro opere gioca un ruolo importante. In Sandra Heinz i vestiti rappresentano frammenti di una vita, in Edith Urban i testi emergono solo in quanto frammenti e in Cora Volz la frammentazione della figura modellata è presupposto per una nuova ricomposizione delle parti. Il frammento allude a un ‘tutto’ non più presente. Cora Volz sviluppa nelle sue sculture una nuova interezza che rimane però distante, inaccessibile. Comune a Sandra Heinz e Edith Urban è l’assenza della persona, solo i frammenti sono presenti. Edith Urban si affida alla forza evocativa dei frammenti di testo sovrastanti l’immagine astratta, mentre Sandra Heinz evoca con i vestiti stampati o ispessiti questa strana presenza/assenza della persona.
Maria e Marie rappresentano esempi di un immaginario differenziato della donna, così come si è andato formando attraverso i secoli sia sul piano sociale che storico. Nei dipinti, nella letteratura religiosa e laica, nella drammaturgia, nei libretti operistici e nei mass media di oggi, emergono figure di donna che incarnano ruoli femminili condensando in sé caratteristiche e comportamenti che da una parte sono diventate modelli guida, dall’altra sono degenerate in cliché. Maria e Marie rappresentano quindi solo simbolicamente due ruoli femminili contrapposti: Maria l'innocenza, la santa, la spirituale e Marie la sensuale, la voluttuosa, la seduttrice: io sono un'altra.
Cora Volz è scultrice. L'oggetto principale del suo lavoro è la testa.  In una prima fase l'artista crea figure femminili in terracotta - busti, ritratti, bassorilievi - molto vicini al modello vivo. I calchi di gesso ottenuti vengono poi ridotti in frammenti e lavorati singolarmente in modo molto specifico con aggiunte di altri materiali. La cosa nuova che ne risulta, grazie ai materiali inseriti, ha un effetto fortemente tattile. Il legame con il ritratto originale della giovane donna persiste ancora, ma l’insieme della scultura o del bassorilievo, con i materiali estranei, crea qualcosa di sovra-individuale.
Sandra Heinz invece sceglie raramente la rappresentazione della persona, attinge piuttosto a quello che le persone si lasciano dietro, come vestiti, scarpe, panni, coperte. Nel caso dei vestiti abbandonati l'artista si fa prendere dalla materialità e matericità delle cose: le stampe ottenute da vestiti e biancheria immersi nel colore o evidenziano nelle strutture a filigrana. Nello stesso tempo sono un ricordo della persona che li indossava.  Nel caso dei tessuti colorati e ispessiti dal colore diventati  cosi sculture, le persone assenti appaiono in qualche modo ancora presenti.
Nella pittura di Edith Urban scopriamo il ruolo particolare della parola, del testo,  dei frammenti di testo. Riflessioni, dialoghi, dichiarazioni provocatorie ma anche descrittive prese soprattutto da testi letterari vengono iscritti nello strato di colore ancora fluido. In passato l’artista prediligeva uno sfondo monocromatico, mentre adesso lo divide in strisce di colore in cui le parole vengono scritte, ricoperte di colore, lavate via e ancora riscritte. Vengono ripresi pensieri e sentimenti emblematici sempre attuali: il lutto, la speranza, il dolore, la disperazione, l'odio e il desiderio. Spesso sono leggibili solo singole parti del testo, ma  proprio tale frammentarietà nella sua indefinitezza lascia allo osservatore lo spazio per una interpretazione personale.
Tutte e tre le artiste riflettono ruoli femminili ben lontane dagli stereotipo diffusi  dai mass media. In questa prospettiva la frammentarietà nelle loro opere gioca un ruolo importante. In Sandra Heinz i vestiti rappresentano frammenti di una vita, in Edith Urban i testi emergono solo in quanto frammenti e in Cora Volz  la frammentazione della figura modellata è presupposto per una nuova ricomposizione delle parti.
Il frammento allude in modo nascosto o evidente a un ‘tutto’ non piu presente. Solo una, Cora Volz, rappresenta le donne in modo diretto sviluppando una nuova interezza che tuttavia rimane a noi inaccessibile: è la prospettiva di spalle che crea una distanza e quindi rende le figure inavvicinabili. Comune a Sandra Heinz e Edith Urban è l’assenza della persona , solo i frammenti sono presenti. Edith Urban si affida alla forza evocativa dei frammenti  di testo con il loro riferimento esistenziale, mentre Sandra Heinz crea con i vestiti stampati e ispessiti questa presenza stranamente assente delle persone.
                                                            Ulrich Meyer-Husmann


martedì 16 aprile 2013

Mostra di Gina Hoover “Silent Interactions” presso la Eco gallery

Inaugurazione 17 aprile 2013 ore 19.00
presso la Ecos Gallery in Via Giulia 81/a, Roma
a cura di Pia Candinas

  
La forte e radicale espressività della pittura di questa giovane artista colpisce all'istante. In Facebook Series vediamo ritratti e paesaggi improntati da pennellate veloci, determinate e sicure, così come i colori che emanano una forza visionaria; lo si vede nei rossi, bordeaux, gialli, verdi e blu, nel nero quasi minaccioso, e nelle sfumature cromatiche che ricordano Goya,  Manet o Marlene Dumas. L'artista raccoglie in questi piccoli spazi i lunghi passaggi della pittura dell'Otto e Novecento, come se in particolare il mondo della ritrattistica le fosse appartenuto da sempre. La serie dei 150 ritratti (formato cartolina postale) della Facebook Series sembrano accostarsi al mondo di Manet, uno dei grandi padri del modernismo, che nei suoi ritratti (in questo momento esposti a Londra in occasione della bellissima mostra Portraying Life), mostra quell'incisività delle pennellate sullo sfondo astratto della tela (non più decorativo e non più rappresentativo), dei paesaggi e dei volti che inaugurano la pittura contemporanea. Gina Hoover, come Manet, concepisce lo sfondo della tela come astrazione,  i suoi ritratti ricordano inevitabilmente Berthe Morisot en chapeau de deuil a long voile, George Moore dans le jardin  o Mallarmé, ritratti che hanno segnato la tradizione pittorica sempre più impegnata al limite tra l'astratto e il figurativo, e caratterizzata da un'impressionante visione psichica pre-Freudiana dell'essere umano.
 Con i suoi facebook-ritratti Gina Hoover ha cercato a modo suo di raccontare le vicende umane del mondo di oggi, inventando una sua "galleria dei personaggi" che talvolta ci risultano vagamente comici: misteriosi e un pò disturbati, questi personaggi sembrano voler uscire dalla tela per venirci incontro. Siamo colpiti da dettagli e da particolari che raffigurano cose strane, selvagge ciocche di capelli, delle labbra grosse con trucchi pesanti, occhiali da noioso intellettuale, etc. L'insieme è una grande famiglia di  ritratti di giovani, divertenti, teneri, angosciati, perplessi:  figli del XXI secolo che a volte sembrano già vecchi e crudeli testimoni del nostro tempo. Se l'intento di Gina Hoover era di dare un volto umano al popolo del Facebook, ci è riuscita meravigliosamente.
Lo stesso vale per le tele di formato più grande: figure umane misteriose, spesso familiari o parenti presi da vecchie fotografie, con uno sfondo visionario di paesaggi che assomigliano a immagini rurali della Depressione statunitense.  Il ritratto Jacob C. Willems (2011) si collega alla tradizione pittorica e ritrattistica del Novecento, a cui Gina Hoover aggiunge la sua elaborazione di un debito al codice fotografico, che fa da transfert per le sue numerose composizioni. Siamo quasi invitati a chiudere gli occhi e a percorrere insieme alla nostra visione ricordi,  facce, sguardi e gesti inafferrabili che la tecnica di questa giovane artista  rende astrattamente visibili.
                                                                                                    Pia Candinas


Intervista di Pia Candinas con Gina Hoover
  
PC: La maggior parte dei tuoi quadri sono di persone  ritratte da fotografie. Mi puoi dire qualcosa a riguardo?
GH: Non ho mai usato una foto scattata da me per  farne un dipinto. Ciò che mi attira di piu' dei ritratti fotografici è che non devo incontrare la persona che ho scelto come soggetto della pittura. Piuttosto, mi capita di conoscerle e capirle mentre le dipingo e ne studio l’immagine. Così, tendo a scegliere le mie immagini in base a questa  riflessione: " con chi  in una stanza avrei più probabilità di comunicare."
 
 PC: Sei attratta dalle  fotografie che sembrano incomplete, misteriose, o che in qualche modo non forniscano informazioni chiare, oppure preferisci fotografie che documentano ciò che già sai e che si sta  rafforzando nella tua memoria?
GH: Il” mistero” nelle fotografie è la parte più allettante. Il mistero permette una certa libertà di prospettiva. Il mistero si  può  manifestare in vari modi, se la storia precedente è nota, posso risalire a ciò che è vero e a ciò che è rimasto nell’ombra, mentre se la storia precedente è sconosciuta diventa ancora  più  una sfida a cambiare  ciò che è vero e ciò che si realizza attraverso l’interesse dell'immagine.

 PC: Sei interessata a come le fotografie sembrino rappresentare una verità e invece traggano in inganno lo spettatore o addirittura mentano?
GH: Le fotografie possono produrre un'immagine“artigianale”di stile di vita che è specificamente adatta all’ immagine di una persona. Questo è il caso nella mia serie Facebook. Facebook ha creato la capacità di mettere a fuoco un secondo io e questo fatto è la specificità del mio lavoro.

PC: I soggetti sono sempre membri della tua famiglia? E  li hai incontrati di persona? Come li scegli ?
GH: Prima del  2010 il mio lavoro aveva a che fare quasi esclusivamente con la mia famiglia. L’attenzione era sul conflitto tra l’immagine e l’attualità. La mia famiglia aveva problemi di fondo  di cui ero consapevole, che si combinavano  con la storia della parentela dando  un’ idea della realtà dell’immagine.

 PC: Ogni fotografia è stata scattata in un momento specifico del passato,   in modo da fermare  il tempo, o almeno ci fa pensare a come  il tempo scorre  lasciando una realtà decadente. Che relazione c’è fra la pittura  e il passare del tempo?
 G.H. Vi è un ampio margine di tempo nelle mie immagini, dal principio del 900  alle più recenti immagini con tag Facebook. E’ l'atemporalità e i fili conduttori  tra le diverse epoche che sono affascinanti. La capacità di riconoscere lo stesso sguardo cento anni dopo crea un “sublime statico”.

PC: Puoi descrivere la differenza tra ciò che una foto racconta e ciò che la pittura esprime in alcune istantanee?
GH: Nel dipinto Giacobbe (Jacob) C. Willems mi sono concentrata sulla differenza di come la figura è stata ritratta. La fotografia era in un baule militare tra migliaia di altre quando è stata trovata. Al momento della sua scoperta era un segreto con cui ora avevo un rapporto intimo. Il potere del segreto è quello che volevo trasferire in un dipinto. E' la sensazione di scoperta e di connessione personale che volevo ricreare. Nel dipinto, sono stata in grado di dare a Jacob la forza richiesta dalla sua immagine originale 

PC: I sentimenti evocati in una fotografia sono diversi da quelli evocati in   un dipinto? C'è una differenza tra "emozioni e foto" "Emozioni e  pittura"?
 GH: Ci sono forti differenze tra le emozioni delle foto e le  emozioni della pittura. Un'emozione in una  foto è istantanea, una sensazione automatica di empatia con l'immagine. In pittura questa empatia esiste, ma a causa di altri fattori di (come): mano, pennello e colore, c'è un ritardo che produce un diverso tipo di rapporto, non  verso un essere umano, ma verso una sensazione.

PC: Quando si inizia con una fotografia, si   decide  subito, e deliberatamente, quali elementi eliminare e quali   sottolineare? O è il processo della pittura  a  condurre naturalmente a cambiamenti  rispetto alla fonte?
GH: Dipingere per me è una conversazione. Ci sono alcuni aspetti che si tradurranno,mentre la conversazione continua questi aspetti potrebbero dimostrarsi più o meno rilevanti  e altri elementi di minore importanza    potrebbero  diventare i più determinanti  alla fine.

PC: Qual è il tuo rapporto speciale con i ritratti? Sei interessato a  qualche ritrattista particolare nella storia dell'arte? Oppure a quegli artisti che fanno uso diretto delle fotografie…?
GH: Ritengo che i ritratti siano un modo privato di guardare le persone Questa è la ragione per la quale il lavoro di Sophie Calle mi incanta. E' il modo in cui interagisce con i suoi soggetti. Anche il  lavoro di Marlene Dumas ha avuto un impatto su di me. È lo sguardo che dà le sue figure, una immediatezza di empatia, nonostante possano essere differenti da te.

PC: Che cosa vuoi fare nel tuo lavoro che non hai mai visto fare da un altro artista?
GH:  Mi  sembra che il mio lavoro si allontani dalla pittura nel senso tradizionale. Mi piace il colore, ma voglio lavorarci in modo più mirato. Sono molto interessata alla luce come mezzo per creare l’immagine. Ha l’abilità di illuminare e nascondere qualsiasi cosa, caratteristiche intimamente collegate alla mia materia.. Ho iniziato con un lavoro su tela non stirata che credo sarà il percorso su cui continuare.

venerdì 12 aprile 2013

Gilberto Isella traduce Cédric Demangeot


“Il verso, questo piccolo braccio”.

 
  Enjambement, inarcatura. Non è la semplice interruzione di un’unità sintattica. È qualcosa (un evento) che trascende le mere tecniche del versificare, poiché tocca nell’intimo l’ontologia del linguaggio poetico e dunque la significazione come tale. La rottura del verso, questa lacerazione dal profumo drammatico ed erotico, ci dice che la poesia stessa – in quanto corpo - è il luogo dell’ictus e della scissione. Ci fa anche pensare all’imene e al diaframma, altrettanti mediatori di coniunctio e disiunctio. La poesia, col suo piccolo braccio “malato”, addita il mistero beante del corpo.
  Andare a capo, inoltre, è come doppiare il caput del verso, “scomparire senza morire” dopo aver percepito il silenzio mortale del  bianco.
   Su questi temi s’interroga Cédric Demangeot, poeta francese emergente, nato nel 1974 e autore di una dozzina di opere pubblicate da Fata Morgana, Flammarion e altre prestigiose case editrici. Da ultimo Une inquiétude (Flammarion, 2013).
 


Cédric Demangeot
À propos du vers


1. Le vers, ce petit bras. Ce petit bras cassé.


2. Je
vais à la
ligne parce que l’
Histoire a séparé
mon corps.


3. Le vers est une maladie. Un dysfonctionnement du corps – qui ne peut pas ne pas intervenir dans la production du sens – intervenir par interruption. Le vers est ce qui se produit à chaque fois que le corps entrave le trajet de la langue – à chaque fois que la langue trébuche sur le corps – et le poème est le son de la chute ensemble de ces deux morceaux que l’Histoire a séparés.


4. Avoir le sens du vers: savoir (sentir) à quel endroit la langue doit (se) rompre – afin que plus (ou  moins) de sens qu’elle n’en peut physiquement supporter passe.


5. Le
vers veut
vivre il veut
disparaître sans mourir: veut
reparaître au même & premier
point zéro de sa
disparition – d’où
relance & cela
le rend – au nécessaire comme
au possible: à la vie.

(avec J.T.)


6. La partie
du corps de la langue faite pour
l’amour est: l’endroit
où du blanc
la rompt: c’est
par là qu’elle
jouit, par là
qu’elle enfante et pisse de
bonheur d’avoir été re-
tournée sur son envers et re-
prise et mise à nu sur la corde
tendue – cela
la rend folle et la force à
bégayer, grincer, japper: à
se tordre de vrai contre le mur de neige.


7. Un vers n’a jamais sauvé la vie de personne. Et c’est pour cette raison qu’un vers en appelle forcément un autre. Même le dernier vers du poème, il se peut qu’on l’entende encore appeler, longtemps après avoir refermé le livre.





Cédric Demangeot
A proposito del verso



1 . Il verso,  questo piccolo braccio. Questo piccolo braccio spezzato.


2. Io
vado a
capo perché la
Storia ha separato
il mio corpo.


3.  Il verso è una malattia. Una disfunzione del corpo – che non può non intervenire nella produzione del senso – intervenire per interruzione. Il verso è ciò che si produce ogni volta che il corpo ostacola il percorso della lingua – ogni volta che la lingua inciampa nel corpo – e la poesia è il suono della caduta simultanea di questi due pezzi che la Storia ha separato.


4. Avere il senso del verso: sapere (sentire) in quale punto la lingua deve romper(si) – perché passi almeno qualcosa del senso ch’essa non può fisicamente sopportare.


5. Il
verso vuole
vivere vuole
scomparire senza morire: vuole
riemergere nel medesimo & primo
punto zero della sua
scomparsa –  dove
rilancia & ciò
lo restituisce – al necessario come
al possibile: alla vita.

(con J.T.)


6. La parte
del corpo della lingua fatta per
l’amore è: il punto
dove il bianco
la spezza: è
lì ch’essa
gode, lì
che partorisce e piscia per
la gioia d’esser stata ri-
voltata sul suo rovescio e ri-
presa e denudata sulla corda
tesa – ciò
la rende folle e la costringe a
balbettare, stridere, guaire: a
torcersi davvero contro il muro di neve.


7. Un verso non ha mai salvato la vita di nessuno. Ecco perché un verso ne chiama necessariamente un altro. Capita perfino, molto tempo dopo aver chiuso il libro, di sentire il richiamo dell’ultimo verso di una poesia.  

(da Une inquiétude/ Un’inquietudine, Flammarion 2013).

(© trad. Gilberto Isella)