domenica 29 gennaio 2023

Rudy Toffanetti “La simpatia in poesia. Zebù bambino di Davide Cortese”

 

                        Davide Cortese in una fotografia di Dino Ignani

È uscita nell’autunno passato, 2021, una piccola plaquette di poesia che inaugura la collana  Deserti luoghi diretta da Giovanni Ibello per Terra d’ulivi edizioni. La plaquette ha titolo Zebù bambino, e oltre a essere una raccolta decisamente graziosa e accattivante, offre uno spunto interessante di riflessione sulla poesia e sulle sue varie direzioni, anche quelle più nascoste. 

L’autore, Davide Cortese, nato nel 1974 sull’isola di Lipari e attualmente residente a Roma, mima in piccoli componimenti di una manciata di versi ciascuno l’infanzia di Zebù, un piccolo demone, un diavolo bambino, signore universale del male e allo stesso tempo inconsapevole e ingenuo autore di esso. 

Ciò che colpisce fin da subito sono i toni fanciulleschi e popolari con cui viene descritto questo personaggio: Zebù, più che essere un diavolo biblico, è il trickster della cultura popolare, il folletto che incarna una a-moralità fondamentale in ogni civiltà folclorica. Non serve andare troppo lontano per riscoprire immagini simili a quella che ci offre Cortese, basta ricordare qualcuno degli studi liceali di mitologia. Ermes, che diventerà dio dei commercianti e dei ladri e di ogni area liminale, dimostra nei suoi primi giorni di vita una crudeltà e un’astuzia senza pari fra gli dèi: uccide una tartaruga e dal suo guscio costruisce una lira e ruba la mandria di mucche del fratello Apollo; dopo scambierà con lui la lira per tenersi le mucche. 

Questa ferocia naïf e geniale è quella che Cortese infonde a Zebù, capovolgendo il sacro nel suo contro-canto. È una parodia oscura di contrappunto, che sdegna i toni solenni dell’accusa e instaura con il divino un rapporto dialogico implicito, anche se non privo di violenza: Tatua fiori di melo e serpenti / sul seno di plastica di Maria. / Poi rosicchia quel seno coi denti. / Succhia il latte che finge vi sia. 

È proprio in questa asincronia di linguaggio e contenuto che sta la forza della silloge: mentre intona filastrocche, Cortese è bruciante e violento, ma ciò non ha lo scopo di dare una drammaticità dissonante al testo o di scandalizzare; l’effetto principale che ottiene il suo autore è quello della dolcezza e della compassione per questo demonietto, perché più che come creatura del male, Zebù si presenta come creatura del desiderio: Non vuole saperne d’ a, e, i, o, u. / Ama la ricreazione / il piccolo Zebù.  

Questo è ciò che riconnette di più il lavoro di Cortese con le figure della narrazione popolare: gli esseri a-morali, i folletti, i coboldi o i troll scandinavi, non vivevano di un’esclusione unidirezionale all’interno delle società. Mentre da una parte questi esseri misteriosi venivano allontanati dal consesso civile, dall’altra si rifacevano nelle loro origini antropologiche a dèi del caos, dèi della confusione che tutelavano passaggi di qualunque tipo da uno stadio all’altro. Ermes era tanto messaggero degli dèi e dio dei ladri quanto psicopompo delle anime, e a lui erano associati tanti rituali di passaggio dell’adolescenza, a cui tutti i giovani dovevano sottoporsi.

Ciò rendeva questa schiera di esseri degli operatori culturali: tutelavano con la loro esistenza e con ciò che rappresentavano la possibilità di una diversità, garantivano che questa diversità fosse poi in qualche modo desiderabile e che essa infine fosse sperimentabile come una tappa nella crescita di ciascun individuo. La società non si costruisce sull’esclusione apodittica, ma su una definizione dialogica e in fieri, che nel rapporto fra gli opposti trova un avverarsi ciclico e progressivo. Come dice Cortese: Diventerà un bel giovane / il piccolo Zebù. Presto farà breccia / nel cuore di Gesù

Quello che però è ancora più interessante è il rapporto del piccolo diavolo con l’autore: Nella scatola di bambù / che un giorno gli donai io, oppure proprio nei primi versi Due miei volti si specchiano / nelle ginocchia sbucciate / del demone bambino. Zebù è un riflesso del poeta, qualcosa che ha a che fare con la sua genealogia personale, un figlio o forse un padre inconsapevole: non è soltanto l’esterno, il dannato che ci affascina perché lontano, ciò che è desiderabile, ma è anche la parte che di noi incarna il volere, ciò che in noi è puro desiderio

Non è la blasfemia che interessa a Cortese, né lo scandalo: il punto è sondare la volubilità dell’animo umano, e di questa non vuole analizzare il lato oscuro, ma quello ingenuo. Ecco che allora la crudeltà è più che altro un richiamo al possesso che tutti i bimbi hanno quando dicono “mio”, un’affermazione dell’esistenza di sé contro il mondo e quindi contro dio. 

Questo primigenio tentativo di dire io lo abbiamo tutti, e tutti in pancia ci portiamo il piccolo Zebù

Tutti nasciamo come peccatori ed è proprio questo nostro essere peccatori che alla fine fa innamorare di noi. Il nostro essere difettivi nel nostro volere è ciò che ci caratterizza come esseri umani, come esseri degni di essere amati. 

Cortese, mettendo infine il racconto di tutto questo sotto il segno della filastrocca, ricorda che la poesia ha tante vie: quelle dell’invettiva e quelle dell’accenno discreto. Tutte quante sono foriere di verità e impressioni sconvolgenti. L’attitudine con cui Davide Cortese forma le sue parole, questa dolcezza e quest’ironia sconvolgente, sono ciò che traspare nella sua lingua e ciò che innova i mezzi tecnici con cui lui costruisce il racconto, per dirla con Socrate, del proprio buon demone. 


                                                    Rudy Toffanetti

venerdì 13 gennaio 2023

Appunti sulla pittura di Ruggero Savinio



 

In occasione della presentazione di Ruggero Savinio, per i Martedí Critici, di Alberto Dambruoso, sono stati presentati sedici quadri che segnano alcune tappe della sua splendida carriera artistica. Se corre l’obbligo di riferirsi ai soggetti dei quadri che si rincorrono negli anni, pur nella mutazione delle tecniche pittoriche: la nostalgia, le rovine, la famiglia, la conversazione, i ritratti, il paesaggio, il giorno e la notte, resta che qualsiasi sia il soggetto, la qualità della pittura è da ritenersi centrale: modalità ineludibile di restituzione del reale. Inoltre, superando le etichette, non si tratta di sola pittura naturalista o materica, poiché dialogante con quanto c’è di diafano, luminoso, smaterializzato. Si tratta, quindi, per Ruggero Savinio, di un dialogo tra poli antitetici e complementari.

Quello che mi sta a cuore, nel presentare le sue opere, è tentare di definire alcuni concetti chiave della sua poetica. Vorrei partire da un’idea emersa in varie conversazioni avute con il pittore: la pittura è, per lui, una “cosa fisica”, tattile, concreta, corporea. L’immagine è certamente un corpo vivo e concreto al pari di persone e cose. La sensibilità è la porta di accesso al mondo: pertanto, l’essere umano non può e non deve perdere il rapporto sensoriale con se stesso e con quanto lo circonda. Certi quadri portano lo stigma di questa concretezza: presentano una maggiore accensione materica. Si pensi ai primi quadri (La veglia del 1959) nei quali al pigmento l’artista mescola il gesso, quasi per restituire loro la consistenza dell’affresco. Si osservino la giubba e i bottoni di Hölderlin in viaggio, olio su tela del 1972, dove il pigmento con i suoi strati costruisce il volume del tessuto, lo spessore dei bottoni. Apparentemente la vera realtà è la pittura, mentre l’ombra e la luce sono mezzi pittorici attraverso cui restituire la propria visione, ma in realtà la materia è un fatto pittorico al pari dell’ombra e della luce.

Ma c’è un altro aspetto della materia da considerare: essa riporta agli oggetti e ben abbiamo in mente la loro profusione attorno alla figura assisa nell’incisione Melancholia I di Dürer. Infatti il carattere malinconico è un topos ineludibile. La conoscenza amplia il mondo, lo arricchisce, anche con elementi preziosi fino all’inverosimile e, tuttavia, determina l’estensione di questa condizione dell’animo, che come un manto ricopre ogni cosa. Si potrebbe affermare che essa è il segnale dell’insoddisfazione prodotta dai limiti della ragione. La ragione non è sufficiente; spesso ostacola l’intuizione, la quale invece sarebbe più adatta a produrre una visione maggiormente complessa, ossia capace di tenere insieme la diversità delle cose. Senza dimenticare che esiste, in aggiunta, una relazione fra malinconia e idea della totalità.


Da ciò, per naturale movimento, la ricerca viene estesa all’ombra. Non solo per una maggiore sensibilità di Ruggero Savinio per le cose più oscure, sporche, nascoste, ma soprattutto perché nulla riluce mai per intero sotto il sole. È ne La veglia, del 1959, che si individua il rapporto attraverso il quale il bianco e il nero consentono di leggere nitidamente i corpi sagomati dalle ombre con i contorni aperti dalla luce. C’è una continua osmosi tra ombra e luminosità, tra presenze umbratili e profili. Da che cosa nascerebbe, infatti, l’esigenza di non chiudere la figura, ad esempio, se non dal fatto che essa s’incista proprio in seno al dialogo tra luce e ombra? Io, parlerei, più che di matrice indistinta originaria, dove tutto ha scaturigine, di inversione: è la matrice spazio-temporale a essere determinata dalle presenze. Nulla è interamente conoscibile; le cose hanno sempre un lato opaco, enigmatico e occorre uno strenuo lavoro per elaborare su un piano di visione analitica (coincidente con la superficie dell’opera) un oggetto, una figura, un paesaggio. L’ombra non appare come una risultante della luce, quando essa intercetta un oggetto, ma come elemento che ne prescinde totalmente. Gli oggetti/figure di Ruggero non producono ombre, sono tratti dall’ombra. L’artista ne ha d’altronde parlato nel suo scritto Dalla parte dell’ombra. L’oscurità è considerata dall’artista come racchiudente in sé la luce. Vi è una compromissione delle due: non vi è una lotta dei contrari. Tale relazione è equivalente a quella tra parola/silenzio. Ma ombra significa anche anima (ciò che è incorporeo). D’altra parte, l’immagine è stata definita illusoria, da Platone, al pari dell’ombra. In tale continuo basculamento, esiste però, e lo sappiamo dalle stesse parole di Savinio, una ricerca metaforica che si traduce in un cammino che va dall’oscurità al chiarore. La pittura sembra promettere una pienezza luminosa, dunque, ma si tratta piuttosto di un cammino verso di essa. Anzi, se ne potrebbe tessere la storia attraverso la pittura del maestro. Così come accade nell’olio su tela La Colomba minacciata dall’Uomo d’ombra, del 1967, che Luca Pietro Nicoletti definisce, nel catalogo per la bellissima mostra a Palazzo Reale, tenutasi a Milano nel 2022, “raggiante e oscura”. Tale quadro presenta una griglia compositiva basata sulle ortogonali, la quale consente alla figura di essere decentrata rispetto alle vaste campiture incontaminate, a ribadire che il vero soggetto del quadro è la ricerca di una luminosità sovrastante. Ma ricordiamo anche alcuni stupefacenti quadri che si potrebbero definire notturni: la luce vi sorge come dall’interno.

Se dalle superfici musive dorate dei bizantini alle tenebre caravaggesche, la pittura sembra essersi spogliata, attraverso i secoli e fino ai nostri giorni, di ogni valore ultramondano, divenendo autolegittimante, nella pittura di Ruggero tale valore risorge e proprio attraverso la relazione ombra/luce.


Quel brillio, sfarfallamento del colore, che in molte opere dell’artista denuncia l’impossibilità di separare tenebre e lucore, è stata vista come tecnica imparentata con l’impressionismo. In realtà, la sua tecnica è distante dal movimento artistico in questione, in quanto vuole cogliere ben altre valenze, non certo il colore locale soggetto a una variazione cronologica! La sua pittura intende evidenziare ciò che è distante e ciò che è vicino, ponendoli sullo stesso piano (stessi dettagli, stesso trattamento cromatico); ciò che attiene al sentimento o alla ragione, ma, sopra ogni cosa, il mistero della mente che distingue tramite forme e colori ciò che è esterno e ciò che è interiore. Considerando che l’oggetto/figura viene a trovarsi in un tempo non più mutevole, ne deriva che anche lo spazio diviene ricettacolo dei corpi; materia emanata da essi e assumente le loro estensioni. Si veda I fiori e le montagne, olio su tela, 1980, dove ciò che è distante e ciò che è vicino condividono le medesime caratteristiche di illuminazione e di dettaglio. Spettacolari anche alcuni quadri ad olio in cui i corpi paiono scavati nella pietra: ottenuti per levare, quasi in una sorta di bassorilievo. Penso, in particolare, a Giochi d’acqua, olio su tela del 1975, con l’assimilazione del paesaggio con i corpi umani, ottenuti con una stratificazione spessa e scrostata che ricorda un muro pompeiano. Penso anche a Roma, del 1987, un olio su tela ove la figura e il paesaggio appaiono privi di profondità, fusi insieme.

Da tutto ciò si potrebbe trarre che la figura, il suo mistero e la sua carnalità, la sua incompletezza e il suo fulgore, sono non funzioni dello spazio/tempo, ma lo caratterizzano. 

È il caso di quei ritratti di letterati, artisti, pensatori a cui appartengono il ritratto di Hölderlin in viaggio, 1972, olio su tavola, emblema del viandante inquieto, o Artaud impazzisce in Irlanda, 2022, olio su tela, che lo rappresenta in preda alla follia. Sono ritratti che, prima ancora dell’uomo, ritraggono una condizione mentale in cui Savinio, in qualche modo, si riconosce o che ammira.

Un carattere delle figure rappresentate nei suoi quadri, i critici hanno creduto di ravvisarlo nell’isolamento e nella incomunicabilità; altre volte, però, hanno dovuto attenersi alla forte dialogicità indicata dai titoli delle sue opere, in relazione alle coppie rappresentate nella serie che ha per tema la conversazione. Serie a cui appartiene La conversazione di Cetona, 1989, olio su tela, che, con le figure di schiena, implica la negazione stessa di qualsiasi conversazione, o meglio, l’amplificazione del silenzio. A ogni modo, sarebbe più opportuno riferirsi alle risoluzioni sempre parziali tra tendenze oppositive inestricabili. 

Ricapitolando, nei suoi quadri, la figura non perde mai il suo rapporto con la materia, ma già prefigura un altrove (un invisibile). Essa sembra essere al contempo ciò che è provvisorio e transitorio e ciò che è permanente e stabile. Nel libro Percorsi della figura, l’artista scrive che la figura non esiste se non in un itinerario: essa è eterna e caduca, memoria e presagio. Tuttavia, fra il formarsi e il dissolversi delle presenze (siano esse ritratti della moglie, dei figli, di se stesso, o figure di muse, ninfe, e altri personaggi della mitologia) vi è sempre la lucida conoscenza della loro posizione. Della freccia scagliata o si vede la velocità o si vede la posizione. È una posizione nitida, ineludibile, a cui nulla toglie la mancanza di dettagli. È la presenza del mondo.


Dopo aver sviluppato la sua ricerca sul dialogo tra ombra e luce, Ruggero Savinio giunge a una salda posizione: a quella condizione luminosa che è un concetto di tempo non declinabile, fermo, più che sospeso, fra notte e giorno. Un tempo che non può più scorrere, perché è stato valutato in tutte le sue declinazioni e ne è stata tratta la vera essenza. Il tempo è solo una condizione dell’anima. E un’anima che non sente più lo scorrere cronologico è maggiormente vicina al vero immutabile. Il mito diventa, nell’artista, oggetto di pittura, come se da esso si avviasse un naturale procedimento di astrazione simbolica. Il mito è di per sé un paradigma, un caso emblematico, che in Ruggero si libera di tutti i suoi connotati esistenziali e diventa immagine eterna, valida ovunque. 

L’oltre della pittura, e ci si può riferire a Il sogno di Psiche, 1963, tempera su tela, risiederebbe in tutto ciò da cui l’esperienza sarebbe stata filtrata, espunta (non più tempo, se non perenne; non più spazio, se non quello prodotto da una consustanzialità; non più colore locale, ma colore simbolico). Penso allo splendido Musa, 1984, olio su velluto, immagine vivissima e atemporale, mobilissima e scolpita. 


Altrettanto sorprendente è “la distanza” dalla natura, (si veda il quadro Distanza dal paesaggio II, 1972, tecnica mista su carta intelata) espressa in molti dei titoli delle sue opere: essa presuppone che la natura, di cui siamo parte, è anche vissuta con un senso di estraneità, che non bisogna censurare, ma che è necessario affrontare. Ancora una volta si potrebbe applicare la categoria della dialogicità per esporre il rapporto con l’ambiente in cui viviamo: intimità/estraneità. Il pensiero corre a Primavera del 1975, con la figura femminile che volta le spalle al paesaggio o a Pini, del 1977, olio su tavola, in cui una nevicata di lumi traccia altre forme, con le piccole pennellate, sprigionantesi dalla superficie pittorica, diverse da quelle indicate dai contorni delle cose. O, ancora a Brighton Beach, del 2010, acrilico su tela, nel quale il corpo maschile e la sua ombra si materializzano nel solo colore del mare (la figura estranea che poi s’impasta nel paesaggio). E, tuttavia, non bisogna credere che non ci sia unità: in Età dell’oro, del 1977, olio su carta intelata, vi è una perfetta assimilazione tra persona e lontano che si esplica nella materia del pigmento, nelle medesime tonalità. 


Scrittore riconosciuto, Ruggero Savinio ha al suo attivo la pubblicazione di numerosissimi testi con importanti editori. Ne ricordiamo solo qualcuno: Didascalie, Percorsi della figura, Ombra portata, Tra casa e bottega, Il cortile del Tasso, Passaggio della Colomba, Cartavoce e il poemetto La Galleria d’Arte Moderna. Quella della scrittura è un’attività del tutto parallela e non strumentale all’attività pittorica: è un’attività pienamente autonoma. Mezzo diversissimo con cui probabilmente giungere a diverse conclusioni, essendo la scrittura, diversamente dalla pittura, mezzo astratto per antonomasia (si pensi alla distanza tra la parola albero e l’albero reale). 

La scrittura di Ruggero assume spesso una forma diaristica non limitata ai semplici dati esistenziali. In un certo senso, si rinnova lo spoglio del particolare e la tornitura che vuol giungere all’essenziale. Anche quando la scrittura ha tratti ecfrastici, il valore letterario sormonta il movente che vorrebbe iscrivere il testo come ancella della pittura.

Ancora più interessanti, in questo senso, sono quei libri come Cartavoce o Didascalie, dove i suoi testi affiancano i disegni e dove si può rintracciare la pienezza della distanza tra le due forme di autonomo valore espressivo e artistico. Il lettore si divide tra il segno avvolgente e ciclico del disegno, dove il fluire delle linee è non ordinato in un percorso, e la scrittura caratterizzata da un andamento lucido e tagliente. Tutto vi appare disposto per “un’apertura, una disposizione all’avventura” da Didascalie). Per una mirabile costruzione che appartiene all’artista, si attua uno scambio, invero paradossale, tra le due attività, in ragione della loro distanza, appunto.


Inevitabilmente, la pittura porta nel suo grembo riferimenti alla memoria, al mito, alle altre opere d’arte. Anche qui si potrebbe rilevare una intranciabilità tra codesti materiali, perché ciò che importa non è un riferimento a qualcosa di concreto e di esterno, ma l’elaborazione che questi portati hanno consentito. Si pensi non solo a tutta la storia della pittura, rivisitata da Ruggero Savinio con estrema oculatezza e sempre in riferimento alle sue necessità espressive, ma al mito del mediterraneo, della famiglia, del dialogo, in vista di un’unità superiore, com’è in Stanze 1, olio su tela del 1996 o nel Doppio ritratto del 1992, dove vediamo i coniugi Ruggero e Annelisa Alleva inquadrati all’interno di un riquadro murario. Sempre, i volti sfuggono all’identificazione, mentre sono le pose, i gesti e gli ambienti a delineare l’intima prossimità. Che è, contemporaneamente, intimità con il tutto.

Da tutto ciò deriva l’inattualità della pittura di Ruggero Savinio, che è attualissima per un altro verso: “tutta la pittura abita in una contemporaneità”: è il presente della coscienza.


                                                        Rosa Pierno