martedì 31 gennaio 2012

Maria Zambrano “Frammenti sull’amore” Mimesis, 2011


Maria Zambrano nel suo brevissimo testo “Frammenti sull’amore” Mimesis, 2011, incentrando il suo discorso sulla divinità umana, contro un umanesimo che ha inteso collocare al centro del mondo l’uomo anziché Dio, trae da questa posizione alcune delle massime più drammatiche che sia possibile pronunciare sull’amore. E’ necessario, per meglio comprendere, riportare il contesto in cui queste frasi sono incastonate. La critica all’umanesimo è effettuata come critica alla volontà umana che ha voluto porsi esclusivamente come realtà organica, “come schietta realtà psicologica-biologica; il suo rafforzamento in cosa, una cosa che ha bisogni determinati, “giustificati e giustificabili”. Che ha voluto rifiutare “l’eredità divina credendo in questo modo di liberarsi della sofferenza e della passione che tutte le cose divine comportano tra noi e in noi” e nel fare questo ha segnato negativamente anche l’idealismo che “vuole penetrare dentro l’essenza divina della creazione, togliendola alla storia”. Ma la storia è rivelazione, accettare la storia vuol dire accettare il mistero ultimo. L’uomo invece vuole “credere che la realtà, vita umana compresa, sia  composta di fatti sottomessi a cause che chiamiamo ragioni”, mentre il divino è cosa incalcolabile. Questa volontà umana di ridurre ogni cosa riguarda anche l’amore: anche esso ”tradotto in fatto, decaduto in avvenimento e sottomesso a giudizio, cioè, svuotato nella sua essenza che tutto trascende, diseredato della sua forza e della sua virtù”.

A nulla vale la passione, se essa viene ricondotta a “episodio della necessità e della giustizia”.    “Passione ridotta a fatto, a mero accadere”, svuotata della sua essenza e della sua forza, privata del suo potere di trascendere, invece “L’amore trascende sempre, è l’agente di ogni trascendenza”, apre al futuro, a quell’apertura senza limiti, che ci obbliga a  trascendere ogni realtà in quanto insufficiente. “L’amore è un enorme agente di distruzione” perché scopre” l’inanità del suo oggetto” e apre un vuoto, un “niente terrificante nella percezione” facendoci scoprire quel nulla in cui il Dio creativo creò per amore, e facendoci proprio attraverso l’amore, aspirare a ciò che c’è oltre. E’ un amore che distrugge e perciò dà nascita alla coscienza. “La coscienza s’ingrandisce dietro una delusione d’amore, come l’anima stessa si era dilatata col suo inganno” rivelando all’anima i suoi limiti. L’amore, perciò stesso, non è mai inganno, non è mai illusione “poiché quello che si è amato, quello che si amava in realtà, quando si amava, è verità”. E’ l’amore che prepara il terreno a quell’offerta di sé che è l’atto principe, che ci prepara al sacrificio, che ci insegna a morire: “E’ un vero apprendistato per la morte”, quel vivere fuori di sé, stare oltre se stesso, il quale consente di trascendere vita e morte.

Parole in qualche modo terribili che ci riportano alla mente il testo di Marguerite Duras  Distruggere, ella disse” di cui si è occupato Maurice Blanchot in “L’amicizia”: ma per dirne cose che possono riferirsi a quel versante della filosofia che si occupa di secolarizzare la differenza (nelle due direttrici sviluppate da Heidegger per l’essere e da Blanchot per la letteratura): “se è necessario amare per distruggere, bisogna anche, prima di distruggere, essere affrancati da tutto, da se stessi, dalle possibilità della vita e anche dalle cose morte e mortali, attraverso la morte stessa. Morire, amare: solo allora potremo avvicinarci alla distruzione capitale, quella che ci riserva la verità estranea (tanto neutra quanto desiderabile, tanto violenta quanto lontana da tutte le potenze aggressive)”. Così “la verità della parola estranea” quella che distrugge e si distrugge ciascuno di noi dovrà portarla con sé, affinché essa, parola all’infinito e senza soggetto, non lasci alla nostra conoscenza nulla che possa essere recuperato.  Ed ecco allora che coloro che potrebbero distruggere con un puro movimento d’amore donerebbero l’immensità vuota. Il desiderio neutro.

Innestando la parola “distruggere”, dunque, in un tessuto diverso, ne vediamo virare il senso, eppure, non lo vediamo tradito del tutto. Per cui resta attribuita all’esperienza dell’amore la capacità di far abituare alla morte, di far uscire da se stessi per incontrare l’altro  e di far conoscere nella passione la presenza del niente che tale passione minaccia.  

                                                                       Rosa Pierno
                                                                                                                                      

domenica 29 gennaio 2012

Marco Furia su “La manomissione delle parole” di Gianrico Carofiglio, Rizzoli, 2010

La costruzione del mondo

Le parole costituiscono il nostro modo di vedere il mondo e, dunque, di entrare in relazione con esso: questa la condivisibile tesi sostenuta da Gianrico Carofiglio nel suo “La manomissione delle parole”.
Un testo chiaro, per nulla ambiguo, ricco di fecondi richiami tratti da autori antichi, moderni e contemporanei, di citazioni da testi filosofici, saggistici, letterari, poetici: per Carofiglio il linguaggio è, assieme alla vita, tutto ciò di cui l’uomo, sulla Terra, può disporre.
Ma non v’è dualismo, perché, con Wittgenstein, la lingua è ritenuta forma di vita: le nostre maniere di prendere in considerazione il mondo (e noi stessi) non si limitano a influire sul nostro modo di vivere, bensì sono il nostro modo di vivere.
Si legge alle pagine 19 e 20:
“Nel tentativo di individuare la ragione dell’altissimo numero di suicidi registrati a Thaiti, Levy scoprì che i thaitiani avevano le parole per indicare il dolore fisico ma non quello psichico. Non possedevano il concetto di dolore spirituale, e pertanto quando lo provavano non erano in grado di identificarlo. La conseguenza di questa incapacità, nei casi di sofferenze intense e (per loro) incomprensibili, era spesso il drammatico cortocircuito che portava al suicidio”.
Ora, ci si può chiedere, era l’assenza di quel concetto a provocare una certa situazione o viceversa?
Evidentemente, il modello causa – effetto, almeno inteso in senso rigido, qui non opera, sicché il fenomeno è leggibile nei due sensi.
Siamo di fronte a una connessione, non a un rapporto di tipo meccanico: non applichiamo l’idioma all’esistenza, ma lo viviamo assieme a essa.
Proprio perché non è morto segno, la lingua può subire modifiche e, in certa misura, risultare flessibile:
“I contrari sono molto meno ovvi, vincolati e meccanici di quanto pensiamo: il contrario di felicità è, certamente, infelicità. Basta aggiungere, come si dice, un prefisso. Per me, però, ad esempio, il contrario di felicità è un altro: è la noia”.
Insomma parlare è costruire il mondo:
“Scrivere è essere qui”.
Le parole, tuttavia (e purtroppo), possono essere manomesse, ossia deviate dal loro significato, come si può riscontrare dalla presenza di espressioni verbali usate non proprio nella maniera più legittima (ad esempio, da certa propaganda politica).
Talvolta, poi, con la scusa di dover rispettare certe esigenze di carattere tecnico, si pongono in essere successioni di vocaboli astruse, oscure, quasi incomprensibili: è il caso, spesso, anche se non sempre, del linguaggio burocratico o di quello giuridico.
Il Nostro, inoltre, tratta, uno per capitolo, cinque specifici argomenti: vergogna, giustizia, ribellione, bellezza, scelta.
In conclusione, mi preme riportare il brano seguente:
“La bellezza non è dunque un ornamento. È una forma di salvezza e insieme una categoria morale. È il sintomo, o forse, più precisamente, il farsi visibile e concreto del bene morale”.
Se il buono è anche bello, anzi, può essere soltanto tale, le parole mai possono coincidere con atteggiamenti inclini all’indifferenza, poiché l’esercizio della lingua implica necessari esiti di una bellezza intesa, in senso etico, quale correttezza, giustizia, onestà.
Il distacco non è aspetto tipico della prassi linguistica, in quanto quest’ultima, vera e propria scelta, è frutto di volontà di comunicare.
George Orwell, perciò, a ragione “mostrava come combattere contro il cattivo linguaggio significhi, anche, opporsi al declino della civiltà”.

                                                                                   Marco Furia

giovedì 26 gennaio 2012

Gabriella Drudi “…Lo smarrimento dell’altro” Anterem n. 56, 1998




I frammenti di Gabriella Drudi, pubblicati dalla rivista Anterem n.56, I semestre 1998, sono tratti da Senza titolo, edito dallo Studio Durante nell’autunno del 1989 in occasione della mostra - dedicata a Samuel Beckett  - di Claudio Adami, Luisa Gardini, Nunzio, Pizzi Cannella, Marco Tirelli, Toti Scialoja.  Artisti diversissimi fra loro, dunque, ma nei quali la Drudi riconosce un comune atteggiamento nei confronti dell’arte: essi, infatti, guardano alla tela:


   “come al luogo dove può accadere di tutto e persino uno scambio di residui umani non meno persuasivi di tanti eccessi

    e non sostegno di vaste ideologie, estetiche salvifiche, o raffigurazioni di una cascata spumeggiante per depressione del letto vuoi esterno vuoi interno

   il preteso silenzio è brulicante di parole, la pittura cosiddetta astratta ci ossessiona di figure, così come la nostra supposta vita interiore che si dà in un video di voci fugaci e scorie di apparenze”.


Importante adesione al carattere non figurativo dell’arte, dunque, su cui invece Cesare Brandi aveva gettato discredito, cambiando solo successivamente atteggiamento (e divenendo il più importante sostenitore di Alberto Burri in Italia). La Drudi che sarà fra i primi ad avere importanti contatti con l’arte americana diviene importante messaggera della nuova arte in Italia.


Tuttavia, insistendo sulla medesima difficoltà che presiede alla formalizzazione sia di un’arte figurativa che non figurativa, poiché comunque immane è lo sforzo di fissare l’immagine intuita attraverso la forma, Gabriella Drudi annulla la loro distanza:


“L’ansia di fare arte non è che l’attesa di un incontro

    procedono cessando di narrarsi, narrando l’inseguito

    procedono verso questa umana speranza di figura, tergiversando, sperperando talento, braccando relitti di forme, sul chi vive al balenare dell’immagine, finché si avveri un’identità sconosciuta che si offrirà reale allo stesso titolo di una bocca, di un grido”


Resta inequivocabilmente in auge il rapporto con la forma che seppur astratta tiene stretta a braccetto la figura analogica. Proprio per questa via, Brandi aveva recuperato il giusto ruolo all’arte astratta. L’astrazione non trancia la nostra capacità di riconoscere un oggetto, un paesaggio, una figura, anzi in qualche modo la esalta.

Sarà proprio la discontinuità insita nel passaggio dall’intuito alla forma reale ad avvicinare le opere di tutti questi artisti alla prosa beckettiana:


      “gemiti, brancolamenti, lumini accesi, spenti, parole tronche, arti sconclusionati, ma anche qualche spalancar di braccia e grida di gioia”


Nessuna differenza per la Drudi tra testi e opere (pur totalmente distinti) se si prende in considerazione il comune “buio terminale nel loro diverso codice” da cui si scambiano la medesima “speranza di figura”. Naturalmente ciò comporta la necessità di un linguaggio (testuale o artistico) che si franga e si riformi per consentire una narrazione che rifugga dalla finitezza, alfine di afferrare con le mani il divenire, lasciandolo scorrere in molteplici rivoli fra le dita.


Drudi strenuamente difende la specificità delle diverse forme espressive, rinvenendo proprio nelle analogie avvistate le radici della diversità: “ la parola è un vero gesto e contiene il suo senso come l’agire visuale il proprio”, e mantenendo aperta la faglia sui cui versanti si rinvengono insieme ciò che è diverso e solo analogicamente uguale, e ciò che in base a somiglianze si rivela, al termine del percorso, separato. Allo stesso modo, tra figura e non-figura non si distingueranno concetti fissi e concetti mobili, pensieri completi o pensieri indefiniti. Considerazioni che non possono non concludersi che con una valutazione dell’importanza del valore esperienziale dell’arte: “Sarebbe lettera morta l’arte del passato se non continuasse a mutare entro l’atto creativo di ogni nuovo artista”. 


Vogliamo concludere con una preziosa frase di Gabriella, la quale sapeva donare splendore alle zolle della lingua:


“Tenersi in bilico sul ciglio di terra smossa. In ascolto della lieve frana nella fossa”.

                                                                 

                                                                            Rosa Pierno

domenica 22 gennaio 2012

Frank Lloyd Wright “Le stampe giapponesi. Una interpretazione” Electa, 2008

Inauguriamo, con il testo di  Frank Lloyd Wright una nuova rubrica sull’arte e la cultura orientale.   


In una splendida edizione, l’Electa propone il testo di Frank Lloyd Wright “Le stampe giapponesi. Una interpretazione” che le postfazioni di Francesco Dal Co e di Margo Stipe s’incaricano di collocare storicamente. Accertati contatti con l’architettura giapponese grazie all’Esposizione Colombiana di Chicago del 1893  e con alcuni studiosi (tra cui Fenellosa) che lo iniziano allo studio dell’arte giapponese e i ripetuti viaggi in Giappone sulle tracce delle xilografie, irrorati anche finanziariamente dai collezionisti di Boston, scandiranno i rapporti di Wright con un serbatoio di ispirazione che alimenterà l’intera esistenza del geniale architetto.

Il testo scritto nel 1913, in occasione di una conferenza, tenta di discernere i punti focali dell’interesse – vera e propria ossessione, come lui stesso afferma – che le stampe giapponesi rivestono ai suoi occhi. E’ una razionalizzazione con intenti pedagogici e siamo certi che non testimonia nemmeno la punta dell’iceberg dell’influsso che ha ricevuto e restituito attraverso le sue opere architettoniche.

Dapprima Wright effettua alcune considerazioni generali relative all’arte riguardanti il legame fra bellezza e morale (“Per esperienza sappiamo che la bellezza è il più elevato insegnamento morale”) e quello fra l’arte e il simbolo (“il valore simbolico della forma”). Ma, qualche pagina dopo, l’architetto restituisce alla bellezza valore autonomo e indipendente: “La vera essenza dell’opera d’arte risiede nella bellezza essenziale e assoluta presente nel risultato creativo dell’artista, più che in qualsiasi altro significato materiale o senso estrinseco essa possa avere”.

Egli tenta di  trovare l’idea soggiacente dell’arte giapponese, “ciò che Platone chiamava idea eterna” e la ravvisa nella “‘struttura’, la quale è in primo luogo la forma pura, organizzata, modellata e composta per ‘costruire’ l’idea, mentre la geometria è “la grammatica della forma”. Ma per Wright “le idee esistono in virtù della forma. La forma non può essere mai disgiunta dall’idea; i mezzi devono adattarsi perfettamente al fine”, finendo col riconoscervi un’idea di armonia che diviene sinonimo di organico (“proprio come ogni cosa che cresce in natura") e di verità: “troveremo sempre e soltanto quella linea o quella scelta compositiva che sono assolutamente necessarie”. Risuonano in queste parole, sia la posizione di Goethe sia quella successiva di Cassirer, il quale, appunto, non separa forma da materia, operando questa diversione anch’egli a partire da Platone.

Tuttavia, il motore propulsivo del testo, il corpo a corpo che Wright affronta con le stampe giapponesi si può individuare nel tentativo di scoprire le specificità di un’arte di estrema eleganza per cavarne il segreto della sua peculiare bellezza. Non è un tentativo esente da cadute poiché la comparazione che egli effettua con l’arte occidentale viene fatta a scapito di quest’ultima, in maniera faziosa e irricevibile: “Mentre l’arte giapponese è poeticamente simbolica, quella occidentale tende a un realismo che finisce per essere pateticamente letterale”.

In conclusione, sebbene Wright cerchi di leggere l’arte giapponese con le categorie del pensiero occidentale, egli di fatto  rintraccia le regole che innervano l’arte giapponese: l’uso del piano, senza chiaroscuro, il colore che ha valore strutturale, le delicatezze indicibili delle tonalità cromatiche, la preziosa qualità decorativa. E queste sono anche alcune delle qualità che ritroviamo plasticamente trasposte nei suoi capolavori architettonici, in particolare si veda il suo  straordinario Imperial Hotel a Tokyo.

                                                                                        Rosa Pierno 

giovedì 19 gennaio 2012

da Fiorangela Oneroso “Intus” Anterem edizioni, 2011


Se fosse possibile ordinare in prefissate caselle ciò che ha caratteristiche così indeterminate: “Incomprimibili fluidi / polveri e vapori” sapremmo di trovarci in un ambito paradossale, in cui due logiche differenti si sfiorano in maniera incompossibile. Non a caso Ignacio Matte Blanco individua  l’infinito come punto di incontro con l’impensabile, non certo con le categorie della logica classica. Su questo crinale lavora Fiorangela Oneroso, col suo “Intus” Anterem edizioni, 2011, la quale rintraccia nella poesia ”L’infinito“ di Leopardi un antecedente importante, poiché egli tra il visibile e l’invisibile individua ciò che è da dirsi, ma che non può dirsi che intuitivamente e mostrato solo nella loro relazione. Fiorangela Oneroso pone in rilievo la inanità dello sforzo del separare, recidere, recintare, di contro alla multiforme varietà del transuente e transitante, in una parole del divenire, le cui forme risiedono nell’inconscio, nella penombra, nelle forme indistinte. Esse, invece vengono costrette in assiomi da opinioni che erano, con un gioco logico che lascia irrisolto il rapporto con l’illogico, mentre è soltanto attraverso la loro connessione che si può sperare di ravvisare, pur sempre parzialmente, ciò che non si lascia afferrare, appunto, che con autoillusione nel conosciuto.  La scrittura presente in “Intus”, la quale ama attardarsi nella descrizione dei due distinti ambiti, ci indica che la Oneroso appare quasi riluttante a costringerli  insieme, poiché naturalmente il quid non risiede nel loro semplice rapporto, fosse pure non definito. La difficoltà dà  appunto, diremmo, la misura, ma questo termine implica anche il suo contrario: la dismisura della relazione e dunque ci indica la titanica impresa di cui tale scrittura si fa carico.
*

Incomprimibili fluidi
polveri e vapori accesi
deflettono vettori in movimento
nel seriale moto
alto e illuminato
lungo la traiettoria
bene infiocchettata
di tensori imperlati.
Qui le masse semoventi
vagano ordinate
nei sentieri tracciati
da fiaccole di ioni
rossi e neri

*

E’ il solito oblungo a dilungarsi
in belle forme e abusa
nella penombra lontana
d’ogni ovale chiaro
che la luce eloquente riflette
in essenza stravanti sparse,
in svariati in sagomati spazi
che in conformati contorni
l’orizzonte recludono

*

Disorienta
il sistema di ritorno dal distante
dei tramortiti ritorti.
Ancora bruciano
nelle cinture recinte
coloro,
gli avvertiti del versante avvampato,
i riluttanti rassegnati
votati
al non compimento del transitante

*

Imprecise congetture
trascinano il corpo letterale
in simboli ancestrali
in controsensi laterali
in fluttuazioni ondeggianti
che con un colpo d’inversione
ricusano i perturbati
tramutando in assiomi
le supponenti opinioni.



Bografia

Fiorangela Oneroso è Ordinario di Psicologia Generale nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Salerno. Si è da sempre occupata di questioni teoriche ed epistemologiche riguardanti il rapporto tra il campo della scienza e quello della creatività artistica. Fra i suoi lavori più recenti: Mente e pensiero (2004), premio Gradiva; Le emozioni tra cognitivismo e psicanalisi (2004); Emozioni e reversibilità: l’origine e la coscienza del tempo (2007); Il tempo e l’estasi (2009); Nei giardini della letteratura (2009). Nel 2010 ha pubblicato con Anterem Edizioni il volume di poesie Inoltre. E’ in corso di stampa con Liguori il suo saggio La ragione alata. Bi-logica e arte nel pensiero di Ignacio Matte Blanco. 

martedì 17 gennaio 2012

Ian Stewart “Com’è bella la matematica” Bollati Boringhieri, 2006

Il libro di Ian Stewart “Com’è bella la matematica” Bollati Boringhieri, 2006, tesse un elogio della matematica, ma non solo: è anche un’appassionata difesa della stessa. Evidentemente è una materia su cui si sono stratificati pregiudizi, incomprensioni, ingiuste critiche. Ecco perché Stewart ha avvertito la necessità di collezionare sotto forma di lettere - che l’autore scrive a una giovane amica indecisa se scegliere il corso di studi in matematica -  testi che cercano di affrontare tutti i temi relativi a questa disciplina, ma anche contemporaneamente di motivare allo studio di tale materia, di farla conoscere non solo attraverso le più intriganti storie o enigmi, ma soprattutto di istruirci sul modo in cui la matematica partecipa al nostro benessere.  Le lettere hanno ciascuna un argomento specifico: come s’impara la matematica, perché dedicarsi alla matematica, come pensano i matematici, fino ad affrontare i problemi impossibili, non esclusa  la domanda “Dio è un matematico?”. 

Il nodo matematica/estetica è quello che incontriamo per primo. Stewart lo lega alla sua necessità di trovare le spiegazioni dei fenomeni che osserva: l’arcobaleno, ad esempio. E naturalmente la spiegazione dei fenomeni non può giustamente rovinare la contemplazione estetica. Anzi, la componente conoscitiva, sappiamo bene, è sempre presente, a vari livelli, nella percezione. Stewart rileva che la matematica è una straordinaria opportunità per rendersi conto della complessità dei fenomeni naturali, letteralmente per conoscerli: “Io credo che la geometria dell’arcobaleno aggiunga una nuova dimensione alla bellezza del fenomeno, senza sottrarre niente all’emotività dell’esperienza”.  Ed è attento a inglobare anche la componente emotiva: “Gli psicologi dicono che, senza un supporto emotivo, la nostra mente razionale non funziona. A quanto pare possiamo essere razionali solo sulle cose che ci coinvolgono emotivamente”. Ma esiste anche la bellezza intrinseca della matematica: “La matematica fine a se stessa può essere di un’eleganza assoluta”. Una bellezza relativa alle idee.

L’altro polo di riferimento è costituito dalla verità, il che ha a che fare con il problema fondazionale: “Io credo che la matematica umana sia strettamente connessa, più di quanto immaginiamo, alla nostra fisiologia, alle nostre esperienze e alle nostre caratteristiche psicologiche. E’ una matematica locale, non universale”. E le dimostrazioni sono una “garanzia inossidabile della validità di un’idea. Non c’è massa di prove sperimentali che potrebbe sostituirla”.

Pare innanzitutto importante per il matematico distinguere fra l’aritmetica di cui si fa esperienza a scuola e la vera e propria matematica insegnata a livello universitario che necessita di una grande quantità di nozioni e di tecniche. Anche se nemmeno della matematica è possibile dare una definizione e Stewart rammenta che “le nostre menti non si limitano a lavorare in modo logico e sistematico, ma fabbricano metafore, saltano creativamente alle conclusioni e solo in un secondo tempo le cuciono con un filo logico”. Riportando il pensiero di J. Hadamard, Stewart scrive che “gran parte del pensiero matematico  nasce con delle sfocate immagini visive e solo in un secondo tempo viene formalizzato con simboli”.

D’altronde, “nessuna teoria formale in grado di esprimere l’intera aritmetica può dimostrare una coerenza logica con i propri strumenti ” (vedi la dimostrazione di Godel). Ci saranno sempre enunciati matematici che non sono dimostrabili né indimostrabili senza peraltro che ciò comprometta le regole del gioco matematico, mentre ”è invece falsa, in particolare, l’idea che le basi dell’aritmetica siano così fondamentali e naturali da renderla l’unica aritmetica possibile”.  Sebbene, Stewart, riporti una risposta di R. Hersh, il quale afferma che anche la matematica “è un’attività umana, che si svolge all’interno di una società e che si sviluppa storicamente”, tiene a precisare che tale attività è soggetta anche a forti restrizioni non sociali  e che un cerchio matematico è molto più di una opinione condivisa: dalle sue caratteristiche due menti umane non possono giungere a conclusioni diverse.

Rosa Pierno

sabato 14 gennaio 2012

Gilberto Isella “Nominare il caos” Armando Dadò editore, Locarno, 2001


La posta in gioco non è “Nominare il caos” che pure è il titolo della raccolta di Gilberto Isella, edita da Armando Dadò, Locarno, 2001, ma descriverlo. Individuarne le fattezze, il profilo, scorgerne la presenza anche in oggetti finiti, discernere gli elementi che a esso appartengono e quelli che analogicamente gli sono accostabili, forgiare metafore e verificare la loro efficacia, descrivere qualcosa che ha attinenza con l’infinito. Ad esempio, l’infinito è contenuto dal caos o il caos è una sua porzione? Non stiamo ovviamente parlando di definizioni messe a punto in ambito scientifico, come avverte lo stesso autore, che peraltro il mondo scientifico ha sempre frequentato con assidua passione, ma di concetti intuiti, di quelle idee che sembrano formarsi come panna sul latte in ebollizione: concetti che affiorano sulla superficie della mente, mentre si è immersi nel mondo. L’impatto con i versi di Gilberto Isella  è spiazzante (d’altronde che cosa si deve chiedere alla poesia - retorica domanda): egli ci consegna immediatamente un paradossale problema: descrivere il caos con il suono tramite parole: “Due segnali di corno / incalzano / la sordina di un esterno naturale, / le onde si dividono sui fiori e al gioco degli stami / perde peso ogni polline, si scompagina / l’etere frattale”. I segnali di corno che simboleggiano l’inizio di qualcosa, una rappresentazione, una messa in opera, un artefatto, quegli stessi suoni che penseremmo presenti nella creazione dell’universo, sentiti in tanti film, sanciscono contemporaneamente il concetto di finito (dotato di inizio e fine), preannunciano una cosmogonia situata a metà strada tra lo scientificamente provato, l’immaginato, il percepito e il pensato.

E a questo aurorale stato, Isella  presenzia, ma senza imporre nulla, se non la sua voce poetica: “questo imprendere non è che mescolanza / di nascimenti ingrati nella materia vasta, / l’impalpabile che sfionda, la somma carica e vuota / di elementi a venire, forse di sensi” L’impalpabile senso che si forma alla lettura di questi versi non è alieno da un amaro sapore alla lettura. Un viraggio morale dell’occhio che scorrendo dal caos naturale all’ordine imposto dall’uomo non perita di considerarne la misera misura rispetto  alla scala dell’universo. Come pure la definizione “padrone insidiato dell’essere” getta sinistra luce sulla incommensurabilità tra il nostro sentire e la realtà del cosmo, di cui crediamo boriosamente di poter scoprire le leggi, mentre ci proiettiamo con la nostra umana storia contro il nulla inderogabile: “è il nulla – fratelli – che in punta di cicuta / svoltando nel suo nulla / non indulge al patire e non conosce clamore”. D’altronde, non è forse  l’astro che “inventa / tutto ciò che disamora”?

E non sfugga lo slalom fra le teorie platoniche dell’essere e del divenire che restano contrapposti solo nell’arte, e fra quell’analogia  - che invece Platone stabilisce solo nella sua ultima fase filosofica  -  tra essere e divenire nel campo della scienza.  Poiché Gilberto Isella è proprio in questa forcella che s’inserisce e risolutamente si posiziona: la poesia è forma di conoscenza valida quanto quella delle pure idee, solo diversa, ma le determinazioni che essa possiede non devono essere svalutate.    Insieme alle caratteristiche che rendono preziosa la poesia, viene così a essere ripristinato quel contatto con l’etica, oltre che col conoscere,  che altrimenti andrebbe perso. Le valenze morali e conoscitive, che disegnano la nostra presenza nel mondo,  quando siano così indissolubilmente legate alla forma poetica, ottengono di risuonare in noi con la massima amplificazione, diletto e riflessione.

La poesia dà luogo alla verità poiché la riconosciamo, appunto, nella forma poetica, come risiedente in noi: “ristagna il vuoto, malmostoso / mille soffietti lo diradano ancora / (pur così fermo), / mille passioni e affetti in quegli slarghi / compongono il perno / del suo impassibile respiro”. A questo universo che disamora, Isella dà voce amante. Ineliminabile tendenza a sentire e a proiettare amore in ogni dove. Sempre in agguato è la metamorfosi, l’immedesimazione, la sostituzione, il gioco, l’esperimento. Se all’uomo “non gli è dato mentire o dire il vero” pure, egli partecipa dell’universo, vi vive, lo ricrea, vi si proietta, vi si riconosce, gli dà ordine e lo scompagina. In un mirabolante mutare di scenografie e livree luccicanti o squamose si assiste in diretta alla creazione del testo-mondo, ove la parola è sovrana: “Il seme più sensato / del non venire in mente niente / sta come il pelo del gatto / nel fosco logorio di una cimasa / dove sverni un tetto intonso o mal sospeso / allo spazio, firmamento impostore”. Il passaggio dalla materia organica o inorganica che sia al pensiero è arduo sia da individuare che da precisare, eppure esiste, si attua continuamente, come pure il passaggio tra l’eternità e il tempo esistenziale, tra l’indifferenza della natura e il nostro sistema morale, tra la scienza che rende monosemico ogni segno e la poesia che erutta sensi a profusione. Tra questi mondi, senza alcuna presunzione di costruire rigidi sistemi o visioni-spiegazioni, il poeta risiede stabilmente e gusta il frutto di siffatta oscillazione. E non è atto meno divino.

                                                                                                                     Rosa Pierno

mercoledì 11 gennaio 2012

Jean Clair ”De Immundo” Abscondita, 2005

Imprescindibile libro, “De immundo” Abscondita, 2005, di Jean Clair: vi si affronta l’immondo, il degradato, l’abietto, il rifiutato: l’”arte di ciò che resta  dopo che tutto è stato rigettato”. Con una modalità più radicale di quella della tabula rasa utilizzata dall’avanguardia, “che pretendeva di sparecchiare il festino dei secoli”, quest’arte si occupa di tutto ciò che ha a che fare con il campo della degradazione. Può esistere un’arte che mette dinanzi al pubblico i propri sfinteri? Ciò che Clair rileva è addirittura che un’arte simile, la quale sfiora la lordura e l’oscenità, è prediletta dalle istituzioni, quasi come nei tempi dell’arte di regime. Nasce il sospetto che la coesione sociale, una volta assicurata dalla politica e dalla religione, abbia ora trovato nell’arte dell’abiezione la sua necessità. Clair non manca di riferirsi direttamente a “Homo sacer”di Agamben: il potere sovrano e la “nuda vita”: quel concetto di biopolitica che stabilisce l’autorità di un potere  su individui ridotti a corpi nudi.

Ricchissima è la messe di opere nelle quali sono stati utilizzati capelli, unghie, sangue, saliva, escrementi, così come lunghissimo è l’elenco di opere che vertono sulla confusione tra sfera anale e sfera sessuale, tra secrezioni viventi e secrezioni morte (Dalì, Manzoni, Picasso, Duchamp, Pane, Beuys). Sarà Duchamp ad assumere il ruolo egemone nella creazione di un’estetica dello stercorario: “Quello sforzo che ha fondato la cultura – quella lenta e difficile educazione delle pulsioni libidinali – Duchamp lo nega a vantaggio delle soddisfazioni immediate della nuda vita”.  Ma vogliamo citare per intero un passo che ci sembra particolarmente interessante:  “l’orinatoio inverte nello stesso tempo il significato del museo. Se il museo, seconda la tesi di Walter Benjamin, è quella istituzione che trasforma il cultuale in culturale – l’oggetto di culto arcaico diventato opera d’arte –, presentare di rimando un orinatoio nelle sale di un museo significa avvalersi della potenza profanatrice dell’istituzione per fare, di un oggetto d’uso se non di decenza, un’opera d’arte; e fare di quel luogo, un tempo consacrato alle muse, uno spazio affine ai gabinetti pubblici”. Questo svilimento dell’opera d’arte, ““nichilismo” di un disgusto per cui tutte le forme, secondo l’espressione popolare, “sono nella natura”” è di fatto uno “Spurgo generalizzato dei valori. Il getto d’urina spegne l’aura”.

Clair, risalendo alla filosofia dei Lumi, individua in tale epoca il respingimento del senso dell’odorato, come il più animale dei sensi. Ma rileva che dopo duecentocinquanta anni si giunge a un altro sconvolgimento della sfera olfattiva e toccherà proprio all’arte “rituffare l’individuo nel bagno fecale da cui si era liberato”. Qui Clair osserva una scissione: da una  parte, nel sociale, nella moda, nella pubblicità, l’ostentazione di un corpo liberato da se stesso (diete, esercizi fisici spossanti, odio delle funzioni naturali in un avvicinamento a una mistica religiosa che pretende di negare la realtà fisica del corpo) e dall’altra un’arte che reintroduce “le funzioni primarie del corpo e, se possibile, le più primitive”.  Un’arte dunque che pare avere declinato la funzione della vista e della riflessione a favore dell’odorare, del toccare: “Conseguiremmo, nell’arte attuale, non più l’apprendimento del gusto, ma il disapprendimento” del disgusto.  Tale tendenza Clair rintraccia anche nella letteratura. In particolare a partire dal concetto delineato da Rudolf Otto per cui vi è l’impossibilità di separare il sacro, il santo dall’impuro, dal maledetto, dall’abominevole.  Si alimenterà della teoria dell’ambiguità del sacro, infatti,  il movimento surrealista, Bataille, Leiris, Daumal, e poi Sartre, ma se ne rintracciano già elementi in Baudelaire (col suo fascino per l’informe e l’orrore),  e in Poe, in Valery, in Klossowski.

Jean Clair si chiede, all’interno di un’analisi condotta esclusivamente sui significati: “Perché dalla rappresentazione di un individuo, che è nell’ordine della metafora, la pittura, si è ritornati alla presenza di un frammento del suo corpo, che è dell’ordine di una metonimia, la reliquia?”. L’ipotesi di Clair è che nell’arte d’avanguardia agisca “ un diabolismo del corpo spezzettato, che divide il reale e l’immaginario, il modello e la sua rappresentazione, li oppone, li fa esplodere, e alla fine li annienta”.  Per questo studioso, l’odierna pratica artistica non è più capace di farci sopportare l’orrore dandogli un senso. Oggi, l’artista, stranamente, conserva soltanto il sorprendente privilegio di essere considerato come un essere a parte, al punto di apparire come il padrone fantasticato dal mondo, il suo buffone escrementizio e onnipotente. L’individuo “totale” che manipola in quanto artista quegli oggetti eminentemente parziali che sono gli escrementi, ha così preso il posto dell’artista di un tempo, uomo tra gli uomini, ma che prometteva, almeno il piacere di una cosa, la pittura, che apparteneva, da parte sua, all’ordine di una totalità”.  E amaramente Clair conclude dicendo che con l’arte dello sterco, l’inafferrabile è esattamente quello che non può  lasciarsi dire: “Che dire di più, in effetti, quando la parola, con i suoi sensi, vien meno?”.

                                                                                       Rosa Pierno

domenica 8 gennaio 2012

Antonio Rossi “Senza titolo” dall’antologia “Ante Rem. Scritture di fine Novecento”, Anterem Edizioni,1998

* * *

negli stessi rovi
o custodi sorpresi
nel riposo una smania
dispone a tragitti
non meno dissennati
e dell’ombra è un uncino
robusto e pronto
a premere smodato
e ogni gola o livido
esibito si rovescia
da binari e catene
nell’insidia molto
convulsa


* * *

Svuotata ogni abitazione
di merci e personaggi e aboliti
pilastri e rinzaffi e disattivata
ogni annessa scorreria
ciò che trapela e agguanta
non è la vista di abnormi
gigli né il percuotere
cupo di un ospite
sgradito non l’esclusivo
permanente invito


* * *

Nodi e cappi che sempre
si sfilano dopo l’ostinato
uso e miscugli come
esplosi non vagano
in corsie o guardaroba
sinché per oscuro
motivo svincolati
essi sono sull’isolante
una stravolta compagine superabile
con sussulto fra le aste
ritorte o spalancate




Antonio Rossi, con abilissima costruzione, intesse intorno a noi una gabbia che ci opprime, eppure che ha parvenza illusoria, per cui si avverte che qualsiasi nostra denuncia o tentativo di divincolarci è ridicolo e in ogni caso non sortirà effetto. Se tentiamo di analizzare la modalità con cui Rossi giunge a ottenere questo effetto, notiamo subito il passo brevissimo dei versi, la cesura tagliente e sincopata, i quali rendono il nostro respiro più corto e come affannato.  Un uso di enjamblement ravvicinato, fittissimo, provoca la sensazione di cadere, di sdrucciolare. Ripidissimi sono i percorsi, rapidissime le svolte. Ma ad accentuare le caratteristiche di tale forma intervengono anche vocaboli che paiono proiettare un’ombra lunga, minacciosa, a causa del loro senso plumbeo e fumoso. L’”insidia” dunque non solo è tratteggiata, ma è addirittura proclamata. Nessuna lettura può essere imparziale; né il linguaggio è neutrale, non si accosta alle cose lasciandole come sono. Dopo aver proceduto con lo smascheramento  dell’imparzialità, dopo aver spogliato le cose della loro apparente incolpevolezza, Antonio Rossi s’appresta a svuotare la scena, solo falsamente semplificandola. A questo punto, quando il lettore crederebbe che siano stati slegati i nodi e raggiunti i veritieri concetti, ecco che la macchina si sfilaccia, come esplodendo o implodendo, fra le mani.  Stravolti resti, brandelli di versi mostrano una struttura che a forma volutamente non giunge.  E la sincopata sorpresa che attende il lettore coincide contemporaneamente con il riconoscimento della sapiente costruzione messa in atto dal poeta.


Biografia
Antonio Rossi è poeta e traduttore svizzero (Maroggia, 1952) . Ha studiato Letteratura italiana all'Università di Friburgo (Svizzera) e all'Università di Firenze; ora insegna nel liceo cantonale di Mendrisio. La sua raccolta d'esordio, del 1979, è Ricognizioni, pubblicata da Casagrande, a Bellinzona. Seguono Glyphé, con acqueforti di Samuele Gabai, Mendrisio, Stucchi, 1989;  Diafonie nel 1995 (Scheiwiller) e Sesterno nel 2005 (Book Editore).