giovedì 30 agosto 2012

Mario Quattrucci “tre poemetti in forma di prosa” emme qu copicad 2012


Dalla silloge di Mario Quattrucci “tre poemetti in forma di prosa” emme qu copicad 2012, estraiamo la poesia “La flagellazione” – che è parte di un poemetto intitolato “Una cronaca”* dedicato a Gramsci o piuttosto all’incontro/rapporto con Gramsci. Oggetto della poesia è il quadro “La flagellazione” di Piero della Francesca che ci sembra ripercorrere il trauma causato dallo iato tra rappresentazione e realtà storica,  dove tale discontinuità è accentuata dal fatto che vi si adagia lo sguardo del poeta, il quale deforma la trama del senso come appunto farebbe un trapezista che sia sceso sulla rete di sicurezza per raggiungere il suolo.

Nel quadro confliggono  una ragione che tutto vuole ordinare e spiegare, e che viene identificata nella calibratissima struttura architettonica che separa eppure connette i personaggi presenti nel quadro,  e le motivazioni dell’uomo flagellato “d’altra fonte illuminato”. Dunque l’ordine astratto, il potere sub specie aeternitatis, che viene a collidere col tempo storico e con le ragioni del cuore. Punto cardine intorno a cui la poesia si snoda è il giovane a piedi scalzi. Alcuni storici credono di poterlo identificare in Oddantonio, il fratellastro e predecessore di Federico da Montefeltro, il quale verrà ucciso in una congiura a diciassette anni e il poeta, sebbene si senta stanco e invecchiato, si rispecchia nella sua eterna giovinezza fino a identificarsi, azzerando qualsiasi distanza temporale, e ponendo tutti i rappresentati e se stesso su un medesimo piano, in un medesimo spazio.

La triangolazione con il personaggio seduto sul lato sinistro della scena, il quale sta guardando verso un punto esterno al quadro,  consente al poeta di rilanciare la questione irrisolta/irrisolvibile di un fruitore che, pur  irrimediabilmente esterno alle vicende rappresentate, le sente come che se il tempo si fosse contratto sulla superficie del quadro, e lui vi fosse rimasto invischiato, irretito  e costretto da questa non usuale collocazione a interrogarsi sul suo tempo attuale. Va da sé che l’interrogazione nata da un’identificazione così appassionata e insolita resti enigmatica ed è sicuramente questo il viatico migliore per porsi dinanzi all’arte senza rinchiudersi in nessuna definizione concettuale, come Quattrucci ci consegna con ineguagliabile saggezza. 


*Segnaliamo che il poemetto “Una cronaca” è presente nel volume “Da una lingua marginale” Robin Edizioni



La flagellazione

convenerunt in unum. E da lì discosto
– serrato  in bianche architetture in ferree
prospettive vincoli solenni multipli
della ragione architettante al centro
del palazzo innanzi al trono indifferente
complice al mandante ignoto (ma
ne conosci le vesti il portamento ) sotto
al braccio dell’idolo (proteso
l’ideologico braccio il globo nella mano)
da luce d’altra fonte illuminato – l’uomo:
il povero Cristo il flagellato irriso l’ecce
homo guardato sorvegliato a vista in spine
incoronato e sempre in ogni tempo figlio
del suo sociale umano ed istorico stato.

ma chi è qui in primo piano sul piano cioè
che primamente coglie il nostro
occhio contemporaneo il giovane sbiancato
di imminente morte chi è se un’immanente
morte lo tiene vanamente angelico e dotto
non sensibilmente veduto non presente
corporalmente e quasi ignudo
nella sua rozza tunica amaranto
scalzo come si addice a un’anima non nuda
memoria a un richiamo d’affetti chi questo giovane in cui
malgrado le nostre rughe e gli anni così evidenti
del nostro corpo della nostra caduca mente
ci sentiamo ritratti tu io che guardiamo e tutti
noi che nascemmo in quel vicino mille
e ottocento quaranta o meglio quarantotto o forse
più verosimilmente nel mille novecento e ventuno
e dunque ancora sul limitar già tratti
a un'astorica morte tu io uno
qualunque di costoro che nascenza o scelta
ai flutti di ferro di passione nei marosi
e secche del secolo ventesimo gettarono?

non parla né sente non può intendere (se anche
ascolta seppure attende
che scenda ancora da parole un chiaro
un fiotto di futuro) è solo è bianco nel suo puro
esserci non essente(un mito) al centro
dei gravi convenuti.
l’altro a sinistra il saggio in abiti solenni
invita: dirumpamus vincula ma guarda
grave fisso anche lui nel punto che oltre il tempo
fuori da quel suo spazio (e nostro) si raggruma.


lunedì 20 agosto 2012

EL GRECO

EL GRECO 

(pseudonimo di DOMINIKOS THEOTOKOPOULOS)


(1541-1614)

 “Ragazzo che accende una candela” 1571-1572. E’ la luce che realizza il mondo. Ragazzo accende una candela. D’oro appaiono, all’allumarsi dello stoppino, gli umili abiti del ragazzo. Allo sfrigolare della luce sull’impasto incandescente della cera, le mani divengono tizzoni d’ombra. Il corpo e il volto ritorneranno fra un attimo preda del buio, del ghermente nero, poiché, è dal buio che tutto si origina.

“L’Annunciazione” 1573-1576. Che la misura sia data dal percetto, il quale fa le cose più grandi o meno rilevanti, più meschine o meno modeste,  è ciò che crediamo quando consideriamo che Maria tragga la propria concretezza dagli oggetti che tocca – col palmo della mano aderisce al libro e con l’altro tiene a bada il cuore impazzito per la sorpresa – mentre il corpo tutto si squinterna in disossate membra che s’avanzano su piani differenti. La visione, che sostanzia il sentimento, fa erompere l’eterno nel miracoloso accadimento. E, inutilmente, il pavimento a quadri trattiene sull’impiantito la ragione, avendo da equilibrare il contrappeso di un’entità di ghiaccio e pietra: Angelo non ebbe che ideata sostanza. E ciel che non arretra è il quarto elemento di cotanta percettiva resa, ove tenda s’incendia per tramontanti raggi.     

“San Sebastiano” 1577-1578. Se nuvola ha diversa consistenza rispetto a cielo, tale differenza si riflette sulle membra pallide e cerate del santo. Oppressiva si è fatta la pressione e carne s’apparenta con la pietra. Forse più alcuna differenza distingue gli elementi nell’ora convenuta, quando il mistero sul martirio porta ad assimilare sostanza ad evento.

“La Maddalena penitente” 1582-1586. Quel che appartiene a terreno regno ha precisa evidenza, ma senso ambiguo e ciò che all’ultramondano si accosta ha sfuggenti forme, tuttavia preciso significato. Di entrambe le apparenze si ammanta il dinoccolato corpo della penitente che sembra essere tirato da questa parte e da quella, laddove l’ampolla di vetro, deformando il teschio con la sua convessità,  ne trasforma il sembiante. E più donna affonda gli occhi nel cielo, più è difficile metterne a fuoco le pupille, allo stesso modo in cui il suo sguardo più che visione divina pare individuare vuoto fondo.

“L’orazione nell’orto” 1590.  Che il mondo appaia  di stoffa è dato da artistica inclinazione della mente.  Scorrendo l’occhio sui movimenti fratturati della veste e del manto ci si avvede che la roccia imita melliflua le movenze flessuose del tessuto e le nuvole assumono quelle a blocchi delle rocce o del ghiaccio. Mondo non fu mai certo, ma artista indefessamente lo ricrea in mille fogge.

“La Sacra Famiglia con Sant’Anna” 1590-1595. Le mani incrociandosi marcano il fulcro della visione: il bambino suggente dal materno seno. Sguardo rimane per questo ancorato alla parte inferiore del quadro, su cui, peraltro, scivolerà finendo in zone meno intense: sul manto blu sbiadito – quasi scartavetrato – coprente le materne ginocchia o sulle lucenti sciabolate della blusa  rosso-fiamma.  In alto, nuvole disegnano archi che mimano sprofondate aureole.

“Assunzione” 1607-1613. Spazio non può che essere deformato dalla presenza di angeli e santi, tirato ed espanso, allungato o reso più profondo. Solo le terrene cose – paese o mazzo di gigli e rose – non lo rendono estensibile. Angeli, i quali circondano la Madonna in un vorticoso avvolgente abbraccio, raccolgono la fievole luce presente nel notturno paesaggio in fosforescenti lamelle ovunque rifrangendola ed essa, alfine, nel turbinio del moto ascensionale, si ricongiunge col fulgente altissimo Spirito Santo.

“L’Annunciazione” 1609-1614. Realtà quotidiana ha aspetto opaco. Sguardo non la oltrepassa né la trasfigura. Solo stoffa si rende preveggente intermediario tra realtà terrena e verità spirituale. S’aprono cieli vorticanti e squarci nella mente durante l’Annunciazione, a indicare che fisico e spirituale non sono compatibili.  

“La visione dell’Apocalisse” 1609-1614. Si squassa il corpo per l’oscena visione, non reggono le ginocchia, le braccia già declinano disperate il peso insostenibile. Giovanni, la cui luminosa veste  preannuncia la sua futura ascesa ai cieli, è cerniera fra orribil sorte del mondo e coraggiosa scelta umana: angeli consegnando a martiri di marmorea bianchezza vesti candide. Non si distingue cielo da volanti mantelli. Ogni corpo pare abitare un mondo di translucida seta, di arredato palcoscenico nel cui finale atto si disveli cruda verità, come stoffa che da nudo corpo alfine cada. 

                                                                                            Rosa Pierno

lunedì 13 agosto 2012

Gio Ferri “Fantasmi d’Arcadia”

L’amore appare tema inesauribile. Nella poesia “Fantasmi d’Arcadia” di Gio Ferri, però, accade che si giochi più scopertamente non sui due versanti del realismo e della rappresentazione, ma invero solo dalla parte del gioco linguistico, dei modi di dire l’amore e per questo farlo esistere. Rilanciandolo e ritrovandolo, intatto o sognato, l’amore immaginato sarà per questo vissuto. Qui si consuma pure la flebile cartilagine dell’esperienziale, che dà da conoscere solo il caso singolo volta per volta. Non possiamo conoscere l’amore in tutte le sue possibili declinazioni: non possiamo conoscere che quel che viviamo, eppure, il linguaggio porta con sé la collezione di tutti i possibili stati dell’amore e consente di ricrearne ancora. E’ necessario usare il linguaggio da demiurgo, piegarlo e sfondarlo, renderlo malleabile alle esigenze di un’espressione che si declina assieme al suo strumento,  la cui volontà si precisa assieme alla forgia dell’oggetto che si sta modificando. La grande polifonia di questo testo è data dalle linee che lo percorrono e che sono prelevate dalla tradizione, non appartenente a un solo periodo né a una sola cultura, le quali consentono di introiettare, e  tutto d’un fiato, ciò che l’amore è ed è stato e che si configura così in astanza sulla pagina. Non se ne otterrà la collezione di tutti i possibili stati dell’amore, ma si descriverà un solo amore che si nutre di risonanze altrui, ove sonorità e senso scelgono e filtrano. Un amore unico, ma che ha esperienza della storia dell’amore.
Sono le parole a costituire la motivazione della visione, il motore della costruzione, la ragione dei concetti espressi. L’amore sarà in questo modo viaggio iniziatico, collezione, molteplicità dei punti di vista. Sarà il poliedro dalle mille facce, quello che non si riesce a visualizzare. Ancor più della dispersione del soggetto, che postula l’impossibilità di definire un’identità,  l’amore rende refrattari alla definizione, aperti e plasmabili, attraversati da un flusso irrefrenabile di visioni: in una sola parola: dalla lingua. Non ci si faccia dunque frenare dall’immagine della morte, inevitabile alter ego di ogni transuente stato. Anche di tale stato che minaccia di interrompere il vitale flusso ci si deve fare carico, ma forse solo per poterne scrivere.
 


Fantasmi d’Arcadia

Io mi vorrei che queste tue mèmori storie
di pètrule levighe e sparse fossero in una sola mano
raccoltie così unque eddove diversi prolifici semi
segni arsi e vitali infinitesimi d’ore dolenti e felici
et oracoli di spemi rupestri eppur ancora carezzevoli
così ancora sulla rupe teniamoci – che tu non temi
ed io non m’abbandoni ad astanze colpevoli narcisi egoismi
dolcezze effluvii d’abbondanze inusiti ai sensi comuni
sprecati e disutili ai bàratri inviti ai volupti richiami
e canti vani e manieristiche nautiche peregrinazioni.

Scorrono pètrule – appunto – per queste stanze
carnali e cercano i tuoi spazi minuscoli d’un giorno
d’un’ora ond’io orora m’appresto a sfiorare le impronte
a rimirare il fermo ricordo qui là dove stai e come sai
una ciottolina il bicchiere una seta un sedile un
libercolo smarrito sìmule traccia di sguardi dolcidui
e lontani e inani risorse d’amore.

Le bateau s’amuse sciaborda indefinite istanze
ansioso àlbatro ivre ai bagliori sènsili crede immagini
prènsili alla carne consuma residui d’angosce e non
prova  - risente quantunque il canto di quella attenzione
tua sottile umana tanto quanto disumana d’assenza –
quanto lontano è questo giorno – oggi – questo mormorìo
d’acque prolifica rivelazione d’istinti unici – noi -
quanto – io - rivoglia un poco totale disponibile la tua
inobbligata fedeltà così che si disvelino à rebours
meraviglie oceanine feste sull’acque giovinette grida
e lasciti generosi rigeneranti quand’io più
che segnali pretenziosi e immeritevoli altro non dia.

Ma tu uccello-donna pacatamente ascolti generosa
risposta proponi e ciascun dimentica il dolore
invano poiché il volo ampio è muto finché non lascerà
insincere fredde captive classiche scenografie
finchè alle improbabili rive d’Arcadia non s’arresterà
atona e silente la notte degli archi.

mercoledì 8 agosto 2012

Flavio Ermini “Forme dell’infrazione” Seconda serie della rivista Anterem: 1978-83

Ricercare nuove frontiere per il pensiero e dare vita a forme espressive adeguate a parlarne: ecco, in una frase, il programma della seconda serie di “Anterem” (1978-83). È il periodo “sperimentale” della rivista, durante il quale viene svolto un intenso lavoro sulla decostruzione della parola (prestando ascolto a Derrida, ovviamente, ma anche a Mallarmé), sull’emergenza dell’antipensiero (chiamando in causa  Nietzsche), sulla connessione tra scrittura e caducità (in stretta relazione con Kafka). Il nome della serie è, esplicitamente, Forme dell’infrazione.
La rivista si dà con questa serie due occhi esterni e uno interno; un piede nel firmamento e uno nel sottosuolo. Fa segno, con Sofocle e Hölderlin, allo zero, quale effetto di una cancellazione che lo precede. Va ricordata questa frase di Sofocle, tratta dal suo Edipo re: «Ah generazione dei mortali, / uguale a zero [isa kai to meden] / valuto la vostra vita». Sono parole che torneranno nel Significato delle tragedie di Hölderlin: «... dal momento che il segno, in se stesso privo di significato, viene posto = 0, anche l’originario, ovvero il fondo nascosto di ogni natura, può allora farsi presente. Se la natura propriamente si fa presente nella sua più debole modalità, così quando essa si fa presente nella sua più forte modalità, il segno è = 0».
L’inesplicabile è già la nostra instabile dimora. Dietro di sé non ha il verbum divino, ma l’ingens sylva dello stato animale arcaico. Lo ricorda Gabriella Drudi: «Noi non siamo soli al mondo – e gli animali che ci portiamo dentro possono sempre divorarci o leccarci la mano».
A stretto contatto con le nostre ombre interiori, la parola poetica si assume il compito di stabilire una connessione possibile tra riflessione ed esperienza. Si impone, insomma, di “dire la vita”, tema che sarà compiutamente ripreso con il n. 76 della rivista, nel 2008. Ma già con la seconda serie è radicata la consapevolezza che per farlo è necessario uno sguardo micrologico, come impone Adorno in una riflessione ripresa in più occasioni da Rella. Scrive Adorno: «Lo sguardo micrologico spezza la scorza di ciò che è irrimediabilmente individuato in base al concetto superiore che lo assume in sé e fa saltare la sua identità, l’inganno che esso sia soltanto un esemplare. Questo pensiero è solidale con la metafisica nell’attimo della sua caduta».
Ecco perché fondamentale diventa la funzione alla quale sono da sempre chiamati i poeti: guarire le parole.
Noi pronunciamo parole riflesse. Parliamo parole seconde, derivate, che non creano ma interpretano parole che derivano da altre parole ancora: le parole prime pronunciate dai nomothetes, i sapienti antichi che con la nominazione dei luoghi e delle cose crearono il mutevole orizzonte del mondo.
La lingua delle origini è tramontata e con essa la sua capacità di creare. Ma questa lontananza non può impedire di pronunciare una parola che – lungi dal rispecchiare semplicemente eventi e cose – faccia segno all’unità preriflessiva e preconcettuale che ha preceduto il pensiero cosciente e razionale.
Ecco perché va lasciato riaffiorare nelle parole riflesse ciò che resta in esse di non detto, consentendo così l’emergere di un dire che ci preesiste: quella «vera narratio» vichiana, dove fantasia e conoscenza sono una cosa sola; consentendo così l’emergere nella frase poetica non solo di un’espressione artistica, ma anche di vere e proprie forme di sopravvivenza.
Il richiamo originario ci conduce – grazie alle forme dell’infrazione – nel regno del caos, dove il cosmo è disordinato e la forza del mysterium si muove liberamente tra elementi demonici; dove si fa evidente la consapevolezza del nostro destino di esseri senza dimora. Qui scopriamo che quella prima età non è caratterizzata solo da tenebre e terrore, ma anche da «quella purissima fanciullezza in cui verità e menzogna, realtà e sogno non si distinguono l’uno dall’altro», come registra Blumenberg. E qui – in questa duplicità – c’è già il seme di una delle serie successive della rivista.
                                                                                       Flavio Ermini

giovedì 2 agosto 2012

Jean-Luc Nancy “Sull’amore” Bollati Boringhieri, 2009

La brevità non fa bene all’amore: è risaputo; nemmeno quando l’amore è in forma testuale, com’è il caso di “Sull’amore” di Jean-Luc Nancy, Bollati Boringhieri, 2009. Il conciso testo ci sembra aprirsi alle contraddizioni esistenti fra le varie componenti che concorrono a definire ciò che nella nostra cultura chiamiamo amore, anche se Nancy ne individua soltanto due come significative: l’eros e l’amore cristiano. E in maniera perentoria ne sancisce l’incompossibilità, la non integrazione, la reciproca, indeclinabile estraneità l’una all’altra, salvo poi, nello svolgersi del testo, cercare una mediazione, augurandosela, nella nostra epoca, ove i rapporti amorosi sembrano ridursi in ragione degli egoismi o delle convenienze, della velocità e della casualità, provando anche a indicare una percorribile via, magari utopica, magari tutta da inventare, per risolvere il dilemma: è possibile una sessualità duratura in un rapporto matrimoniale? Nancy propone, dunque, un’integrazione tra logica del desiderio e affettività orientata al bene.

Un’avvertita filosofia ci ha insegnato, nei suoi esiti più lungimiranti, che dobbiamo guardarci dagli errori filosofici. Compito di tale filosofia è, dunque, quello di sventare la possibilità che  sulle molteplici forme dell’esistenza calino le griglie categoriali di presunte verità assolute, mentre è importante rilevare che le verità sono frutto di processi storici.

Eros e amore cristiano sono prodotti culturali e non già i due unici modi in cui viviamo l’amore: nella vita, infatti, hanno già luogo tutte le intersezioni e le osmosi possibili tra le diverse possibilità e concezioni dell’amore - e non vorremmo qui tirare ancora in ballo l’esempio classico dell’Estasi di Santa Teresa del Bernini, (1647-1651), che di mediazione tra eros e amore cristiano aveva già mostrato la necessità - comprese quelle non ascrivibili a nessuna delle due categorie indicate. Ma questo vale per qualsiasi cosa che si voglia restituire nell’interezza della sua complessità, anziché svuotarne i relativi concetti fino a renderli vacanti.

Unire i due corni della questione, credendo che si possa per via teorica creare una terza categoria comprensiva dell’intersezione delle prime due e prescrittiva, ci pare la solita proposta, la quale non mette in discussione i metodi con i quali si vorrebbero eliminare contraddizioni e ridurre le incongruenze riscontrate nella realtà.  Insomma, sezionare l’amore in tranches secondo suddivisioni categoriali  sembra non convincente né efficace. Né soddisfa la creazione di nuove mediazioni fra tali categorie, via storicamente già esplorata.

Se in amore sono presenti desiderio e ripulsa, fedeltà e tradimento, egoismo e generosità, spinte costruttive e distruttive, crediamo che ciò debba essere oggetto di un discorso chiarificatore, critico, che abbia come obiettivo quello di svellere le categorie stagne in cui richiudiamo l’esperienza, consentendoci di accettare in pieno le contraddizioni che ci abitano.

                                                                                      Rosa Pierno