venerdì 29 dicembre 2023

Marco Furia su Il tocco dell’ignoto di Stefano Iori, peQuod, Ancona, 2023

 


 Un ignoto silenzio?


“Il tocco dell’ignoto”, intensa, sapiente, raccolta di Stefano Iori, potrebbe anche essere intitolata “Il tocco del silenzio”?

Se sì, fino a qual punto?

Ignoto e silenzio, non certo sinonimi, hanno qualcosa in comune: innanzi tutto, direi, il senso di sospensione.

Immaginiamo di attraversare un oceano sconosciuto privi di punti di riferimento: quale sarà il nostro destino?

Raggiungeremo una costa o non arriveremo mai alla terra ferma?

Si tratta di una sospensione temporale quanto esistenziale: quel tempo che manca, eppure c’è, siamo noi immersi in un attimo che dura non si sa fino a quando, ossia in una sorta di presenza latente (non a caso, “la sapienza corre / a partire dal dubbio”).

Quanto al silenzio, è anch’esso partecipe del senso di sospensione: chi o che cosa romperà il suo incanto?

Non si tratta, però, come nel caso dell’ignoto, di durevole attimo, bensì d’una parentesi, d’una necessità e nello stesso tempo di un accidente.

Comunque, il silenzio, come l’ignoto, ci coinvolge, ci tocca:


“Il silenzio è la forma non forma dei nostri modi di affrontare l’ignoto che nella sua immanenza ci rende attoniti e muti, ma capaci di intendere l’inudibile”


e ancora


“Il silenzio è voce dell’ignoto che sta

immanente

un fiato sopra noi

burbera, incomprensibile,

baluginante assenza”.


E forse una “poesia” che “s’acquatta / nei buchi di vento” è la forma espressiva più adatta a suggerire che


“Nel silenzio svuotato

l’assenza risuona”.


Del resto, pronunce dal tono dichiarativo come


“L’energia che abita la poesia sottende la capacità e la potenzialità della domanda quale motore inesauribile della creatività. L’opera artistica è la risposta a dubbi e istanze di un autore che si concretizza in un frutto, una silloge, un quadro, una melodia”


paiono introdurre sapienti riflessioni sulle umane maniere di pensare e parlare delle (variabili) modalità non certo esenti da incompiutezze e difetti:


“L’umano controcanto fluisce da poesia e filosofia. Esse si illuminano vicendevolmente poiché le loro ombre sono della stessa immateriale natura”


“Il gioco del pensiero è sempre imperfetto, ossimorico, dinamico fino all’eccesso nella danza inevitabile della differenza. Ombra del dire che vive nel contrasto”.


In sostanza, mi pare che Iori proponga una sorta di persistente contrappunto tra ignoto, silenzio e pensiero-parola, ossia un verbale, fluido, alternarsi che chiama in causa la complessità dell’essere.

Ci siamo come ci siamo e poco importa il perché.

Il perché tende a spiegare mentre la poesia illumina di un chiarore che è originale forma d’immediata conoscenza.

Mi sembra questa, alla fine, la profonda consapevolezza che il Nostro riesce a comunicare avvicinando con assiduità il lettore a un poetico intendere: poetico intendere inteso quale attiva propensione, possibile atteggiamento che non esclude a priori nessuno.

Umano tra gli umani, Stefano riesce a raccontare con intensi tratti un sé che è anche un noi offrendo feconde prospettive: impresa non facile, davvero.


                                                                                              Marco Furia



Stefano Iori, “Il tocco dell’ignoto”, peQuod, Ancona, 2023, pp. 85, euro 15,00   


martedì 5 dicembre 2023

Annelisa Alleva “Dita di vetro” Aragno, 2023

 


Il corpo detta in età avanzata il ritmo lento della comprensione, scatena l’insofferenza dell’attesa, amplifica l’importanza degli eventi. E pur tuttavia, essi definiscono “un’altra vita”, quella dell’osservazione inconcludente, come dire bastevole a se stessa: osservare fuori dalla finestra, al tramonto, la luna, ad esempio. Il valore delle piccole cose, valore mitico, se non mostrato nel suo istante epifanico, diventerà il fulcro delle giornate. Anche nei momenti del pericolo, è il livello dell’interpretazione dei dettagli a dettare legge: da essi si dedurrà la salute del consorte. Ciò che è vicino è sempre infinitamente prezioso, perché consente di effettuare analisi, di tastare il polso della situazione. L’utilità del dettaglio conferma, toglie dubbi, rassicura sulla prosecuzione possibile. Non possiamo conoscere il futuro, ma possiamo divinare il presente controllando il colore della pelle, le sue macchie. L’alfabeto dei dettagli nella sezione Il corpo, vortica intorno a un nucleo forte, poiché il nulla viene trasformato nel cuore pulsante del calore e della vita. Eppure si è convalescenti “dentro un male mondiale”. Astrarre non ha senso. Si devono tenere insieme i due lembi: del prossimo, l’ambito familiare, e del distante, l’ambito sociale. Allora si giungerà a sentire il crepitìo del nulla che continuamente risale verso i fatti: “Questo è il presente tienilo sempre a mente / La vita che ci fa slalom intorno / anche se la osserviamo fermi è nostra”. Sono le cinque mele rosse cadute da una busta del supermercato, viste mentre ci si siede sulla panchina di un giardino pubblico. Bastano per definire la realtà, il presente e scandire di conseguenza le altre determinazioni: passato, futuro, irrealtà, immaginazione. Non è una deduzione di poca portata. Equivale a una fondazione. Qui, dappresso al corpo, il reale. Siamo intanto nella seconda sezione: Parchi. Non è che un attimo, la proiezione mentale è in agguato, e fa scoprire che i platani sono coperti di croste, come i bambini che intorno vi giocano a palla. Allora nulla nel reale è isolabile dall’io. Ce ne si faccia una ragione. E meno che mai con la poesia si può arrestare il flusso che dall’io investe il mondo. Scrivere poesia testimonia primariamente questo lavoro di investitura del senso che il poeta effettua proprio a partire dalle cose infime. Anche quando la singola poesia sembrerebbe unicamente una descrizione, è sempre in agguato una relazione, una molla semantica che fa scattare la serratura.


Gli archi un tempo interi

ora in parte coperti di terra

rinforzati dal cemento 

circondati dai rovi

ridotti a rovine sparse

non portano più acqua 

Un ragazzo costeggia il sentiero

articolando suoni alti e secchi

Il padre con la mascherina al braccio

lo segue non visto


Per strade avventurose è la sezione che contiene il registro dei sogni. Nel sogno non si accede a una logica diversa; non è la terra dell’irrazionalità; anzi, sembrerebbe farsi vieppiù forte l’esigenza di trovare un ordine proprio in tali materiali. Ma la differenza è che la scenografia viene creata da colei che scrive: i ritratti, la piazza, la stanza. Forse, anche i sogni del compagno di vita. Fin qui, il dettato è stato pacatissimo, ridotti al lumicino i mezzi retorici per favorire il reale, letteralmente stanarlo. Nella sezione Le belle statuine si riconosce nuovamente quel ritmo e quella pressione che hanno caratterizzato la poesia di Annelisa delle prove precedenti. Ecco che tutto ha ripreso a oscillare, agitandosi; il respiro, le fronde, i capelli, la foresta: ogni cosa sembra sottintendere un sussulto intimo e irrefrenabile. La presenza del soggetto impone questo moto emotivo al paesaggio e non può essere soppresso. Il sogno stesso sembra essere la forza più potente all’interno di una città (“La città non vive dove non si dorme”). Quando Alleva si dedica all’osservazione per cavare il granchio dalla tana, tutto sembra acquietarsi, come se in realtà fosse l’esterno che per imitazione stia accondiscendendo a spegnere le caldaie. Durante le sue passeggiate a piazza Vittorio, la Alleva si proietta verso un fuori non dato, produce uno scavo del senso che è proiettivo. Ma oggetto e soggetto restano in una sorta di esteriorità reciproca, da cui l’unità mancherà per sempre, in quanto l’esteriorità coincide col soggetto, non vi è ritorno dialettico in sé. È certamente una dimensione estetica, la dimensione del sensibile; è la dimensione del fuori. È lì che Annelisa va a incontrare se stessa, con uno slancio indirizzato a incontrare l’aperto. Nella chiusa piazza, la poetessa cerca l’esperienza all’interno di un orizzonte dato, che non sia però consueto: ecco l’attenzione portata agli accadimenti infimi, che sfidano la produzione di senso. E sfidano pure il contatto: tutto si svolge nello sguardo. Se vi è una perdita, è pure contemporaneamente una messa in forma, una trasformazione, ossia uno spazio dell’insorgenza. Il pensiero come cosa vista, da cui ripartire. È una dischiusura verso ciò che accade, in quanto costituisce l’esatto peso da opporre sulla bilancia per contrastare il proprio, troppo personale. La verità delle cose non può essere data una volta per tutte, per questo è importante cogliere la loro capacità di apertura, di trasformazione. Si deve avere una capacità infinita di produrre verità. Ecco perché le poesie presenti in Dita di vetro sono salvifiche; spostano e rilanciano continuamente; ci rendono qualcosa mediante un’attitudine preziosa: “Anche la sera quando la piazza si svuota / e diventa pura architettura di portici / e di lanterne ripetute si possono sentire / i suoi passi in scarpe bianche che lasciano / una traccia di attesa e una di distacco”. È una maniera di rimettersi a una venuta, a un sopraggiungere, a una sorpresa. Vedere è creare, è recepire la singolarità della forma, in quanto con essa viene in luce una verità. Il tratto  deve essere lievissimo; bisogna essere abilissimi a captare, a sfiorare la presenza del senso, ad afferrarlo affinché la singola poesia possa definirsi conclusa. Ma in essa si compie anche l’inoperosità dell’arte, quella necessaria capacità di lasciare scorrere le cose, avendole viste. Perché la poesia non può essere pensata come compimento né come pienezza. Né come un’assolutizzazione, visto che la forma chiama una nuova formazione. Se nulla si distingue sul fondo, la poesia è pesca miracolosa.


Rosa Pierno