domenica 27 febbraio 2011

Glenn Gould “No, non sono un eccentrico” EDT

Qualsiasi libro che raccolga testi di Glenn Gould è una pubblicazione importante. La lettura dei suoi testi è non solo straordinariamente godibile per la sua illimitata competenza musicale, ma lo è soprattutto perché Gould è un uomo coltissimo, che ha elaborato attraverso le sue letture uno stile critico essenziale, privo di citazioni, ove emerge appieno la sua personalità. Siamo di fronte a uno stile in cui si può andare in cerca delle sue opinioni sui direttori d’orchestra, sui compositori, sul senso che la musica ha nella sua vita, come se fossero preziose pietre risplendenti su un broccato intessuto d’oro, saldate cioè allo stile da una pratica indefessa, priva di soluzioni di continuità e sostenuta da un’intelligenza geniale e da una sensibilità sopraffina. Cos’altro sarebbe lo stile se non la marca personale, la cifra di un’elaborazione sempre riconoscibile; imputabile a chiare prese di posizioni, a motivazioni di cui ci si assume la responsabilità. E quasi si soffre nel vedere che i giornalisti, che  hanno avuto la possibilità di intervistarlo non gli hanno posto che sempre le medesime domande (sul perché si è ritirato dalla vita concertistica, perché ha preferito la sala di registrazione, perché si vestiva con cappotti anche d’estate o perché faceva uso di una seggiola dalle gambe accorciate) quando avrebbero potuto tentare di ottenere chiarimenti in merito a quella contrapposizione tra occhio e orecchio che emerge da qualche sua  frase e su cui, a mio avviso, si poteva tentare di ottenere una descrizione maggiormente esplicativa. Come mai si parla   di chiudere gli occhi, di tenere fuori il visivo? Per aumentare la concentrazione sul fenomeno sonoro? Ciò svelerebbe qualcosa del suono. Che cosa accade all’ascolto quando si tengono fuori le immagini? O meglio, il vero ascolto si attua al di fuori dell’immagine?

Non mancano nel libro molte opportunità per comprendere l’approccio – integrazione fra intelletto e ispirazione – con cui Gould affronta le opere, la scrittura, la ripresa  documentaria e il montaggio. In questo libro sono, peraltro, particolarmente interessanti i testi sui suoi documentari radiofonici che “anche se sprovvisti di materia musicale nel vero senso della parola, sono pur sempre delle strutture musicali e costituiscono delle vere e proprie ‘composizioni’“. Di qualsiasi ambito lui s’interessi lo fa con la massima professionalità e creatività. Ne “La serie Schönberg”, il libro edito da Archinto, contenente la trascrizione del ciclo di trasmissioni radiofoniche dedicate alla conoscenza dell’uomo Arnold Schönberg e all’ascolto dei suoi brani musicali, emerge limpidamente il suo talento letterario, spumeggiante di ironia, di raffinate espressioni e di formulazioni originali come, d’altronde, anche nel suo giustamente celebre “L’ala del turbine intelligente”. A lui la qualifica di artista si attaglia perfettamente, mentre gli sta stretta quella di interprete: Glenn Gould costringe allo sdoganamento della categoria dell’interprete in quello più ampio e completo dell’artista. D’altronde, lui modifica, adatta, trasforma secondo quelli che ritiene essere i parametri fondamentali che definiscono i capolavori musicali: “senso della struttura, della fantasia, della varietà, della continuità tematica, della propulsione armonica e della disciplina del contrappunto”. Tutti gli elementi della vera grande musica sono per Glenn Gould riassunti nella varietà armonica e ritmica, nell’invenzione del contrappunto ed è a partire da questi capisaldi che Gould esprime giudizi taglienti e definitivi, lapidari e saldi sui compositori, i quali, essendo inerenti alla specificità del fenomeno musicale, ci aiutano a comprendere meglio la sua complessità.

Dal punto di vista critico, oltre alle appena citate peculiarità che caratterizzano per Gould la composizione, esiste un fondamentale criterio per valutare la grandezza di un compositore: “Per raggiungere l’universale è indispensabile staccarsi dalle pesantezze della storia, sottrarsi al conformismo cronologico di cui ogni epoca è portatrice. ” I più grandi scrivono musica controcorrente rispetto alle tendenze del proprio tempo: “Uomini capaci di incarnare il regresso come il progresso” e porta come esempio Bach, il quale “trascende tutti i dogmi artistici, tutte le questioni di stile, di gusto e di linguaggio, tutte le sterili e frivole preoccupazioni  dell’estetica”.  Una lezione valevole per tutti gli ambiti artistici!

giovedì 24 febbraio 2011

Giorgio Bonacini ”Quattro metafore ingenue” Manni 2010

Un’impareggiabile lotta con la materia e le sue apparenze: Giorgio Bonacini ha in questa sua raccolta “Quattro metafore ingenue” Manni, 2010, raccolto una sfida postagli dalla natura: ambiente privilegiato di scoperte e di confronto e soprattutto di resa poetica. Il sasso non può trascendere il suo peso, nemmeno se sfiorato dalla luce. Parrebbero alterate le sue caratteristiche dall’impetuoso vento, ma non è ciò che realmente accade. Siamo nello sfolgorante mondo  delle apparenze.  E dove sono apparenze c‘è inganno. Né è possibile una trascrizione precisa di quanto accade: “I rami / che si staccano / dai rami / / cadono / / e non ci dice / più nulla / della loro caduta / il loro schianto / sensibile”.  Lo sguardo carezzevole con cui Bonacini vorrebbe non perdere nulla di quanto avviene, non lo si deve a una volontà di indagine capillare e microscopica, ma a sensibilità tenerissima verso l’esistente. Certo, non è un’indagine ingenua,  la consapevolezza delle cerebralità con cui si afferrano i dettagli e li si sistema in complessi unitari è in agguato e Bonacini tiene a bada tale deriva per mostrare, altresì che anche in ambito mentale, ci si deve necessariamente arrestare sulla soglia per non perdere dettagli, per non amalgamare e omogeneizzare pur di ottenere una sintesi: “L’artificio / è equiparabile / al mio / sguardo / / un astratto / rinnovarsi di andature / in carreggiate / fisiche”. Bisogna cambiare passo, allungare anziché accorciare, dilungarsi anziché riassumere. E’ questo il modo di rapportarsi al sensibile, di ritornare a esso, per afferrare al volo un pensiero che si allochi nel mezzo, fra qualcosa e qualcos’altro. Forse il sogno è ciò che consente di cogliere relazioni non canoniche tra le cose, di fissarle in diverso sembiante. Una ricerca tra gli interstizi degli elementi naturali, sul loro limine, scorrendo sulla loro pelle, aggirandosi tra evidenza smaglianti quanto fuggevoli: “non più come foglie /   ma già nebbioline /  incoerenti e gelate / che danzano a lato / di certe poesie”.      Inevitabile che si debba affrontare anche il linguaggio che queste apparenze deve catturare.   E’ affascinante il gioco che si instaura tra oggetti e parole. Quella di Bonacini è una lingua che genera zampilli di  suoni e riflessi. E, infatti, è anche di tutta evidenza il prestito elegante dalla terminologia appartenente all’ambito musicale, con cui ha seminato il testo: “e induce / il suo canto / tra il ritmo battente / e ciò che  soltanto / le ciglia pensiamo”.  Ma quello che preme mettere in evidenza è l’intersezione, la promiscuità che viene a crearsi tra oggetti e parole. Se il vento è “una ghirlanda / che circonda / e stringe forte / il canto timido” e se “al di là / di un nome inutile / alla rima / più impietrita /alla corteccia” allora si constata che le parole hanno acquistato durezza e gli oggetti hanno introiettato il canto.  E’ da questo traguardo che il dettato lirico di Bonacini si impreziosisce di un pensiero che media, che trova inusitate relazioni, impreviste soluzioni, in una parola: nuove materie. O forse si tratta di quell’unica materia poetica, sonora e sensuale  che mai fine a se stessa, ci dispiega dinanzi percorribilità conoscitive intraviste. Che sia un passaggio scavato in via definitiva è lo stesso Bonacini a negarlo: “ Non ho visto mescolanze / non ho visto niente / Il vetro è irragionevole – sottende / nel poema  delle cose la figura / del paesaggio, la distanza tra le cose”.     Fra occhi e mente risiede un’ulteriore  frattura, ma tale distanza non provoca sgomento essendo essa stessa la via dell’esattezza.  Il linguaggio ne è travolto e resiste allo stesso tempo. Forse che non è anche il linguaggio apparenza?  Giorgio Bonacini non sottovaluta l’equivalenza che si attua fra i due vasi comunicanti. Il sentimento di inabilità sarà esso stesso strumento di riconciliazione.   Il linguaggio deve poter “schiudere l’ombra del riconoscimento / l’idea fondamentale di un conflitto”. L’iniquità della ferita sarà movente dell’accanimento che porta comunque a non rimuovere la contraddizione, ma anzi a cogliere in essa la capacità di accoglienza dello sguardo, quasi una sorta di amplificazione che Bonacini definisce “occhio assoluto”. Certo la ferita non si può suturare, anzi resta stillante:  “Ma io – derubato, inespresso, tagliato / dal mondo e assediato – sono io ciò che dico / o la lingua è il rumore, l’odiato, la forma / impagliata che stringo?”. L’auspicio è di mettere a punto attraverso la poesia una diversa modalità percettiva e mentale sospesa tra realtà e lingua. Solo a partire dalla consapevolezza si può ricominciare, tentare un diverso inizio. Come quello, appunto, contenuto in questo bel libro.

lunedì 21 febbraio 2011

Paul Nizon "I miei atelier. Saggio sul vedere. Walser e Van Gogh" Pagine d'Arte

Paul Nizon si interroga sulle ragioni e sul proprio modo di scrivere. Non si sa mai esattamente perché si è iniziato a scrivere e perché in quel modo.  Si possono fare delle ipotesi. Si può indagare sulle proprie letture, su ciò che ha mosso verso la scrittura. Attraverso le similitudini si può giungere alle differenze e riportare a casa la consapevolezza su di sé. Così l’immersione di Paul Nizon, nel libro “I miei atelier. Saggio sul vedere. Walser e Van Gogh”, edizioni Pagine d’arte, Lugano 2010, scandaglia vita e opere di Robert Walser e di Vincent Van Gogh poiché li ha sentiti simili, come coloro che avevano attraversato i suoi medesimi stati. Non a caso questo saggio inizia con la descrizione delle sue modalità di astrarsi dal mondo, di cogliere la realtà attraverso una passeggiata (ciò che è bastevole per cogliere le incessanti mutazioni delle apparenze e di conseguenza le metamorfiche evoluzioni della propria sensibilità). Nizon lavora in atelier, distinti dalla sua abitazione o che sono addirittura in altre città, per sentirsi estraneo, per ottenere quella condizione di emarginazione o emigrazione intellettuale che gli consenta di porsi con occhi stupefatti di fronte a una realtà costretta a essere diversa da tutto ciò che gli è familiare. E dove lo sguardo funge da sufficiente ricettacolo dell’esistente. E’ questa l’incubatrice che mantiene in vita la possibilità per lui di essere scrittore. Anche se non gli sfugge, sempre attraverso il mai interrotto dialogo con Walser e Van Gogh, che in quello che ottiene non c’è narrazione, non c’è evento e dunque evoluzione.  Mettendo a fuoco i suoi due interlocutori, i quali dimostrano di avere condiviso questa disposizione verso la realtà, Nizon è in qualche modo costretto a tirare in barca una rete che non può non avere fra le sue maglie la schizofrenia da cui i due artisti sono affetti. E’ interessantissimo seguire l’itinerario in cui arte e malattia mentale sembrano inestricabili. Ci si chiede se inevitabilmente l’eccesso della sensibilità, l’inadattabilità alle relazioni umane, il mantenere uno sguardo puro e infantile sul mondo non siano caratteristiche ineliminabili negli artisti. Ma la disamina condotta da Nizon lo porta ben presto a comprendere che l’auto-esclusione dall’esistenza e la chiusura nel proprio mondo interiore non sono, invece, né garanti di un percorso artistico né difendibili nel risultato artistico, il quale prescinde da essi.  Sarà proprio l’apertura all’esistenza, alle relazioni umane a consentire a Paul Nizon di sentirsi al salvo, comprendendo che per lui entrambe, arte e vita, sono irrinunciabili. Se li ha sentiti uguali è, dunque, anche riuscito a individuare in che cosa se ne distanzia, ma, intanto, nelle maglie della rete sono rimasti due splendidi ritratti di artisti a cui io caldamente vi rimando, poiché la partecipazione identitaria che muove, ad esempio, Nizon verso Van Gogh conferma che senza amore non si può scrivere un testo che restituisca quel che si può dire, appunto,  calandosi nell’altro con la necessità di comprendere  a fare da lume. E’ solo in questo modo che si riesce a far rivivere persone, esperienze e oggetti, a scovare le ragioni, gli scacchi, le perdite e i rinvenimenti che l’esistenza di un artista può emblematicamente rappresentare per noi tutti. Nizon, pur accennando con stringatezza agli elementi formali che di volta in volta Van Gogh mette a punto nelle fasi della sua vita,  e che nascono dall’incontro tra le sue esigenze interiori e gli ambienti sociali  e naturali o le forme culturali (impressionismo, disegni giapponesi) riesce a farci comprendere il senso che le forme assumono, il significato testimoniale di cui possono essere investite. La discesa nella psiche, condotta anche con una terminologia psicoanalitica, non è funzionale a se stessa, ma mezzo per captare nel mistero del processo artistico le dirette relazioni esistenti tra senso e segno senza cadere nel dogmatismo. Indaga cioè il rapporto tra la forma e la psiche che la crea. Magnifico è anche il testo su Walser. Nizon sa avere una misura sapiente, nel profondo rispetto per la creatura umana, nel calibrare ragione e sentimento quando si tratta di ciò che di più terribile esiste al mondo: il senso che diamo alla nostra esistenza.

giovedì 17 febbraio 2011

Jonathan Hynd

Che cosa accade quando la materia trasforma il colore, quando l’azione che si effettua sulla materia porta con sé un’alterazione inaspettata del colore e quando, inevitabilmente, un tocco o una patina o un’area di pigmento opera una “delocalizzazione” della sostanza, una diversa percezione della stessa, è quello che constatiamo osservando le ultime opere di Jonathan Hynd. L’osservazione di tali quadri equivale ad assistere a un duello fra materia/colore e costringe a non parteggiare, a non propendere, a essere testimoni inattendibili sulle sorti dell’evoluzione e della metamorfosi che sulla superficie “ volumetrica” del quadro pure sono in atto. Volumetrica perché la base di legno o la tela ricevono uno o più strati di cartone incollato su cui poi viene  parzialmente steso del gesso, spesso  a formare una cornice sui bordi, dove alcuni listelli  vengono asportati dagli strati oppure perché è un sottile solco centrale a scavare il cartone  creando immantinente la sensazione di stare di fronte a un libro carbonizzato, fossilizzato, di cui la scrittura che è appena riconoscibile come tale, sorta di alfabeto per ciechi, avendo la caratterizzazione di esservi incisa, è archetipo di ciò che resta di una millenaria civiltà scomparsa, la cui leggibilità è chimerica quanto il nostro voler penetrare in ciò che è, appunto, andato perso.

Che Jonathan sia artefice sopraffino, avente eccellente capacità di estrarre dai materiali più poveri siffatto potere evocativo è stupefacente per quel millesimo di secondo che resiste all’altra considerazione ancora più forte e pregnante: come da materiali così umili e  da un colore così compromesso con la materia possano emergere sulla superficie dell’opera una duttilità e malleabilità delle componenti estetiche in tale grado da  esaltare l’interazione coloristica, da sublimare il risultato dell’alchimia fra materia  e pigmento e, a tal punto, da farci dimenticare del gesto e della consistenza materica, della tecnica e dell’intervento del caso. Il colore non ha funzione sussidiaria, né subalterna, sebbene la sua presenza  transustanziata sia delicatissima parvenza, bagliore, accensione o spegnimento ottenuta tramite combustione. Esso viene trasformato dagli elementi materici: assorbito o espulso dopo essere stato ossidato o esaltato dalla compromissione con la colla, il caolino e il cartone. Ma è anche partecipante al processo in pari potenza tanto da trasformare la carta o la tela in lastra di rame o bronzo, in pagina incenerita o muro istoriato.

E, ancora, che tale impareggiabile risultato, e quanto più prezioso proprio perché nato da un porre se stesso senza dogmi precostituiti di fronte ai materiali e con l’introduzione del caso come componente imprescindibile dell’azione pittorica, porti con sé un ventaglio pressoché interminabile di analogie figurative è l’altro versante incomprimibile dell’arte di Jonathan Hynd.  Colui che osserva il quadro diviene  il sovrano del mondo figurale: dinanzi a siffatte opere ciascuno può attingere al proprio pozzo personale e innescare corto circuiti tra ciò che conosce e ciò che vede. Si dispiegano sulle tavole cartografie, cosmografie, piante di città, codici di programmazione, alfabeti perduti, libri carbonizzati, frammenti di porte bronzee, tavole di pece, fiancate di imbarcazione da cui la pittura si sta sollevando, muri scrostati. A tutte queste immagini fa da predella un senso di oggetto antico, rinvenuto, rovinato, il quale però conserva integro il suo valore evocativo:  promessa di un mondo conoscitivo da potersi nuovamente recuperare. E in fondo che cosa chiede un artista a se stesso, durante l’operazione di creazione di un’opera,  se non l’atto del rinvenimento? L’atto della scoperta di ciò che è sepolto in sé, di ciò che gli conferisce il ruolo d’artista, di demiurgo, di costruttore  di mondi. E tutti da leggere, da decifrare, da sillabare. Tutti reperti del sé, strumenti per conoscere attraverso l’arte.

domenica 13 febbraio 2011

“Il matrimonio del cielo con la terra” di Flavio Ermini, Edizioni d'arte Félix Fénéon, 2011

Per indicare un essere che esiste a prescindere dai nostri sforzi di rappresentarlo nella sua totalità, ancorché affrontarne l’individuazione dell’essenza, c’è bisogno di una mappa immaginaria per seguirne gli spostamenti, per segnare gli avvistamenti, per testimoniare di avvenuti incontri. Potrebbe essere un libro dell’ottocento, quest’ultimo di  Flavio Ermini “Il matrimonio del cielo con la terra” Edizioni d'arte Félix Fénéon, come, appunto, erano quelli: pieni di figure, formati da vari tipi di carta, opaca e lucida, e colorati con colori pallidi, antichi, quello di cui voltiamo le cartelle, i fogli sciolti, cercando un verso e un ordine che invece non sono stati volontariamente previsti. E seguendo le mappe disegnate e le isole testuali che vanno alla deriva sul foglio ci accorgiamo che le trasformazioni, le ibridazioni di cui leggiamo sono proprio le modalità in cui l’essere appare. E in cui i simboli sono mere trappole, fasulle indicazioni, infingimenti di carta velina dietro cui paludare la fisica presenza di un’essenza che però non si dà allo sguardo. Non può essere che letterario mondo quello che viene messo in scena attraverso queste carte geografiche. Consapevole peraltro che “la coscienza non cela più il Minotauro, né, verso il cielo, l’uscita”. E verrebbe voglia, mentre si legge, di confondere le carte, ancora e di più, di mettere fisicamente in atto le relazioni che appartengono a una conoscenza vissuta come rete e non certo come traguardo. E, forse, perfino qui si tratta di una conoscenza che non può che darsi per frammenti e ove essi venissero accostati mostrerebbero lacune più che zolle a formare continenti. Non nasconde Ermini le modalità del suo percorso: “vuole dare conto di questo passaggio dalla linearità al barbuglio, dal terso all’intorpidito, dalla serenità al turbamento”. Mescolare le carte non vuol comunque dire far ricorso all’irrazionalità per tentare di acciuffare per i capelli quello che sfugge. Una fondazione razionale soltanto consente di scoprire ciò che è il movente della ricerca. Sì, si tratta di esemplare ricerca: di quella che se non trova l’oggetto, alfine ha trovato la forma. La rappresentazione, modalità di espressione che indica l’oggetto della ricerca. La forma è in questo senso, mediazione tra l’oggetto e quanto il soggetto reca con sé di proprio. Soltanto il poeta scrivendo scopre le terre. Forma ibrida sarà appunto quella creata: così dispiegata come un morbido lenzuolo tra poesia e prosa saggistica, tra riflessione e immaginazione. Scopriamo che come vere e proprie terre di mezzo, tutti i concetti espressi da Ermini si trovano slabbrati tra l’assunto e la sua contraddizione, vera e propria medietà in cui i termini non sono stati riassunti , né mescidati, ma toccati, tenuti presenti entrambi, nessuno falcidiato. Sarebbe così forse la terra promessa contenente tutto e tutto insieme.
I poeti sono, dunque, “sempre al limite tra l’esserci e il non esserci”, stanno tra terra e antiterra: “Non si incontra mai il mondo se non dietro il paesaggio, nella sua parte in ombra”. Ove l’attenzione viene posta alla forme cangianti, metamorfiche, che risiedono sul limite, al rovesciamento, all’eccentricità, al rifiutato e rigettato, all’indifferenziato, alla scissione e all’irregolarità, ecco, diremmo essere questi i nomi delle nuove terre.  “Scaturisce dalle nostre mani la terra, dove prese molto tenaci vincolano il corpo dell’uomo al corpo oscuro dell’esistenza”. In questo pellegrinaggio attraverso le forme rappresentative con cui costruiamo la nostra cultura è la casa, ma nulla che si possa dare una volta per tutte: “Quel punto d’incontro tra l’inizio e il limite primo, in cui prende forma la nozione di principio, resta un’obiezione contro la vita di cui è l’annuncio”. Un vento gelido percorre queste carte e le nostre schiene di lettori ed è la consapevolezza che tra fisico e mentale non ci sia passaggio: interrotto ogni ponte, ma non lo sguardo che vede la distanza incolmabile. Straordinario esito. Straordinario percorso, di asciuttissima sintesi e lucidissima coscienza.

martedì 8 febbraio 2011

Pia Gazzola

Osservare le opere di Pia Gazzola vuol dire effettuare un’escursione nella natura e nell’artificio, ove quest’ultimo sta per la rappresentazione del naturale, la quale, però, non smarrisce il suo referente, lo conserva per non perdere la possibilità del confronto, lo immette in un dialogo in cui la rappresentazione può istituirsi come altro. Altro, cioè, anche rispetto alla rappresentazione stessa. E questo passaggio terzo è evidente nei suoi numerosi e raffinatissimi libri d’artista, ad esempio nella serie “Libri al volo” in cui una piantina reale è affiancata a una foto della stessa e a un disegno, quasi uno stato medio e finale della rappresentazione.

Anche facendo  intervenire il caso nella restituzione della natura, come nelle opere “Segni-Disegni”, la Gazzola introduce ambiguità,  appunto, fra segno e disegno.  Dinanzi a queste opere, crediamo che il fruitore,  acuendo l’immaginazione, riesca ad ascoltare il fruscio del vento fra  le foglie, poiché è esso il motore dell’azione: consente, infatti, alle foglie imbevute d’inchiostro di tracciare segni sul foglio. Qui, l’autore, paludato in una campagna senza limiti visivi, si è di fatto assimilato al caso, intervenendo per predisporre l’evento, anche se a i fruitori non sfugge che se pure si ingaggia il caso come elemento progettuale, esso acquisisce senso solo all’interno di un progetto artistico e l’elaborato del movimento casuale delle fronde che sfiorano il foglio collocato su un tavolo  è per questo un disegno, una scrittura vegetale. Come, infatti, non riconoscere nei segni lasciati dallo scorrere delle foglie lanceolate un’immagine che rimembra filamenti vegetali, ranuncoli, erba,  rametti, in un rispecchiamento non coincidente con il referente. Un autoritratto consentito dall’artista e che si replica contemporaneamente nelle ombre che il sole proietta intercettando le scriventi fronde.

Che la distanza tra oggetto e la sua ombra sia incolmabile, come dirlo meglio che non mostrandolo nel lavoro fotografico “Appunti d’inverno” in cui su fogli di carta spiegazzati e successivamente  distesi e adagiati su un prato - quasi macchine che dispieghino la profondità nella superficie - sono posti steli di verzura, rametti, spighe e gemme in diretto confronto con l’ombra che il foglio come trappola cattura.

Lo studio condotto da Pia Gazzola non evita difficoltà e paradossi inerenti al rapporto con la natura: la natura vi appare più che intercettata, immediatamente messa a confronto con elementi che la negano o che la costringono a un dialogo irto di contraddizioni. Nelle 12 fotografie della serie “Duo”  su carta di cotone incollata su pannelli di legno e affisse al muro tramite un tondino di ferro che è riverberato come taglio nella foto stessa attraverso interruzione nelle fasce di diverso gradiente di colore, sono, infatti, ancora i tondini, presenti questa volta come oggetti fotografati all’interno del paesaggio, a  costruire una barriera nella percezione del paesaggio poiché in quanto manufatto industriale si oppongono al concetto di natura, anche se qualche modo lo compongono. La considerazione che se ne trae è che Pia Gazzola lavori proprio su queste soglie, sull’ambiguità che non è solo limite, ma anche strumento elaborativo, il quale si serve dell’immaginazione per ricostruire le lacune che si formano a causa della compresenza delle eterogenee materie.

Le installazioni denominate “Filigrane” testimoniano del lavoro condotto da Pia  sulle stratificazioni che si attuano attraverso la luce, poiché la luce contribuisce a modificare la materia, nel solo senso percettivo, cambiandone in apparenza  peso e consistenza. I cerchi interni - quasi un’ossatura, in metallo -  e quelli esterni, disegnati sulla carta, si riflettono in un’eco visiva e consentono la percezione della profondità spaziale. In ogni caso la scrittura è un elemento ineludibile nei lavori di Pia Gazzola, quasi che il logos consentisse di chiudere il cerchio rispetto a elementi disparati e irriducibili l’uno all’altro.

Le foto appartenenti alla serie “CAmPI LETTERE” testimoniano dell’ostinata propensione dell’artista a leggere dovunque, a riconoscere in qualsiasi cosa lettere dell’alfabeto in una sorta di tentata leggibilità del mondo che è distante dal significato attribuito da Galileo (la lettura del libro della natura) e proprio nel momento in cui tali lettere sono rintracciate dall’artista in una campagna e, dunque, più forte dovrebbe apparire l’analogia. Ci si deve invece fermare prima, in quello che non è ancora un metodo, non vuole esserlo, ma che individua comunque una propensione naturale. Qualcosa che si potrebbe definire come irrinunciabile e presente, a prescindere; qualcosa che agisce nell’essere umano, quasi inderogabilmente. Ravvisare poi nell’ambiente naturale la presenza di una lettera, la quale dà luogo a una frase è come un compimento, il dono inatteso causato dalla ricerca. Non a caso dono poetico.

http://www.piagazzola.com/

mercoledì 2 febbraio 2011

"Hairesis" di Francesco Marotta

L’individuazione percettiva di un elemento della realtà riverbera nel linguaggio poetico di “Hairesis”, raccolta di Francesco Marotta scritta nel 2004-2005 e pubblicata in e-book da Biagio Cepollaro, attraverso il collegamento tra punti diversi della rete semantica, dando luogo non tanto a metafore, quanto ad accostamenti spiazzanti, avvicinamenti desueti, perché si potrebbe dire che la metafora viene raggiunta non sostituendo una parola di senso prossimo, che stia al posto di un’altra, ma attraverso un flusso di rimandi intercettati da verbi, azioni e concetti, in una sequela di riflessi, di lucori che un attimo dopo ricadono nel buio: sembra, infatti, un lavoro condotto sulla componente più impalpabile della materia linguistica e qui non si fa riferimento soltanto al recupero del puro suono, ma  al fatto di cogliere un senso sfuggente perché impossibile da fissare e sussistente soltanto nella relazione fra definizioni, nel corto circuito tra azioni, nel sincoparsi della voce, quando il senso sembra scaturire dagli interstizi delle connessioni fra parole e non dalle parole stesse: “fango dislagato in pozze di cielo / l’urlo che annaspa stretto alle sue radici   musica sghemba / s’irida”. Anche la diversa spaziatura esistente fra le parole mostra la necessità di recuperare la distanza come elemento su cui operare e di conseguenza la necessità di stringere legacci tra zone semantiche lontane. D’altronde, bisogna notare che questa di  Francesco Marotta è una poesia sganciata da un reale immediato, quotidiano: si sarebbe tentati di dire che è un  reale rappresentato, dipinto. Dunque, la percezione qui si presenta già con il suo carico di pensiero. E’ già immagine. Certo come è presente l’immagine in poesia. Interpretata. Virata, inoltre, in Marotta dal carico di termini metafisici e simbolici: “ con il balsamo e i drappi putrefatti / dell’eterno / -       incessante dismisura del sentire    mappa vegliata / da silenziosi inverni”. Viraggi che Marotta predilige fin dai suoi esordi.  Vero, dunque, che siamo partiti dalla percezione, ma per dirigerci subito verso un’immagine costruita con parole: immagine che conserva, più che una fortissima ambiguità, una polivalenza irriducibile – com’è nella tradizione della grande poesia. Si fa sempre più stringente, più corta la distanza tra la materia del reale e la materia pensata. E il senso pare avere, man mano che ci si inoltra nella lettura della silloge, un peso insostenibile, eterno. Qualcosa sulla pagina attesta che non è possibile sottrarsi al senso. E Francesco lo porta  sulle spalle, lo scava nella pietra. Tale pare di fatto il portato di questa poesia, la sensazione che rimane nel lettore a causa della densità della voce poetica di Marotta, il quale in uno stretto giro di versi: “ e mille / spine che negano al silenzio la compiutezza senza bagliori / dell’alfabeto increato dei giorni / la breve eternità di una speranza” convoca sulla pagina sinestesie fra senso tattile e visivo, contatti semantici tra  fisico e mentale, paradossi di un’unione irricevibile tra aggettivi e sostantivi ottenendone una densità non solvibile: un senso somma di tutti i sensi possibili.