venerdì 19 febbraio 2021

Ida Travi “Marìe canta la famiglia del secolo” edizioni volatili, 2020, partiture visive di Giuditta Chiaraluce

 



 

Ida Travi ci affida il settimo libro della narrazione dei Tolki, i parlanti, dopo che il sesto libro è andato perduto, il che è sintomo della precarietà della cultura in quanto prodotto umano. E pone l’accento sul tempo presente, definito come tappa verso qualcosa. Tuttavia, molte cose restano indeterminate, non essendo visibili nell’immediatezza. Scrivere appare come il mezzo per fissare e vedere-attraverso. Ciò che si vede è che l’identità si innerva nella scrittura e, viceversa, la scrittura si consegna all’identità. L’identità è scritta oppure non è. Ma quando si rilegge, si comprende che ci sono lacune e non detti; appena indicazioni, non certezze.

La famiglia appartenente alla genìa dei Tolki si situa non esattamente su un piano compiuto d’immanenza; piuttosto si trova sospesa tra un piano profetico e un perduto passato, fra un presente indefinito e un luminoso avvenire. Ogni cosa, a ben guardare, è ancora da compiersi e per il momento si vive accampati nei pressi di una pompa di benzina, senza documenti. Leggendo, diviene sempre più chiaro che la precarietà in questa vita è da assumersi come precarietà dell’identità alla quale la scrittura può solo prestare un eco. Tra sacrificio e salvezza si apre un ventaglio di piani intermedi fra i quali gestire qualcosa da cui forse sarebbe meglio astenersi. Ci sono voci che indicano la via, ma nessun segno è tracciato sulla terra. E si dubita persino del fatto che le voci che si sentono risuonare provengano dalla propria interiorità oppure se, esterne, giungano dal passato. “La terra è straniera”, ma sulla terra si può vivere come in un sogno. Senza barriere o confini. Posizionandosi tra livelli mentali e materiali, resi tutti concretissimi dalla scrittura, Ida Travi vivifica una rilettura delle pagine testamentarie (antiche e nuove); le innesta in un’ulteriore identità scritturale, la quale disegna una mappa priva di indicazioni e tuttavia mappa.



(devi inginocchiarti)



Devi inginocchiarti, fare la richiesta


-per carità fatemi uscire da qui-


la terra è straniera

la luce è così pallida…


-come una schiava, come una regina-


l’ombra passa velocemente

canticchia velocemente


darebbe il pane se ne avesse

darebbe il nome se ne avesse


e invece…


Siamo in terra, Olin, ripeti con me

siamo riuniti su questa terra.




(io contemplavo la tua faccia)



Io contemplavo la tua faccia, Olin

lassù, nella volta stellare

era una cosa mai vista

qui sulla terra, in terra


erano cinque strisce

erano cinque vipere rosse

erano tutte ardenti, luminose


E quando aprirai la porta

- quale porta?- 

quando aprirai la porta

entrerai come il messia


Io dirò la preghiera, Olin

dirò tutta la storia

al tuo orecchio solitario, antico.




( sulla faccia della terra )



Vanno sulla faccia della terra

su per i monti, giù per i crateri

e noi qui, a fare cosa?


Era l’inverno numero uno

tu sei arrivato solo


e noi abbiamo detto – va bene, resta

ma niente guai, niente baccano qui


Siamo gente di neve noi, siamo bianchi

come una volta, non è stato sia facile 

addomesticare il cane


- chiedi a Marìe -


Marìe ama la famiglia del secolo

Marìe ama la famiglia di questo secolo.




domenica 7 febbraio 2021

Daniele Ventre: “I frammenti del risveglio”, raccolta inedita di Bruno Di Pietro




 

La soluzione del frammento – il cut up ontologico di Bruno di Pietro 


Spring…..

Too long……

Gongula…..


E. Pound


La poesia, qualunque oggetto si voglia (o non si voglia) identificare con questo stampo verbale dall’impronta spesso corrosa dall’abuso, sembra essere il problema dell’odierno spazio letterario, nel quale non pare che essa trovi quasi più cittadinanza come espressione fruibile, sia per mancato ascolto del cosiddetto mercato, sia per intrinseca deriva della sua natura sfuggente. 

Soluzioni come l’azzeramento del senso nel segno, tipico delle varie forme di scrittura asemica, o come l’esaustione voluta (modello new sincerity) di ogni traccia di marca letteraria, o la cancellazione di ogni vestigio di assertività residuale, sulla falsariga delle cosiddette scritture di ricerca, si sono proposte come superamento dell’impasse, ciascuna nella propria nicchia specifica. 

Una soluzione forse meno intellettualistica o finto-semplice, più gestibile dal punto di vista di chi voglia arrivare, almeno in parte e senza rinunciare del tutto a ogni scopo estetico come all’ascolto dei poco addetti ai lavori critico-letterari, può rinvenirsi in una riformulazione della maniera breve del frammento. 

È ovvio che il frammento e la maniera breve hanno alle loro spalle una lunga tradizione, in particolare nella contemporaneità della poesia italiana che ha fra i suoi incunaboli l’Ungaretti de L’allegria. Tuttavia, rispetto alla ripresa selvaggia dei micro-versi ungarettiani, cantilena spezzata comune al vomito emotivo d’anime belle di tanti piccoli poeti della domenica, ma anche di qualche poeta da Instagram o di paesi tuoi adorno di editoriale blasone e intento a consolare e orientare dalle pagine dei giornali, la forma espressiva ascoltabile nei Frammenti del risveglio di Bruno Di Pietro racconta una storia diversa, sia sul piano dell’evoluzione compositiva, sia dal punto di vista tematico.

I Frammenti del risveglio costituiscono in primo luogo il distillato definitivo di una tendenza epigrammatica di fondo messa in gioco in un’elaborazione di lungo corso. Tutta la pluridecennale produzione in versi di Di Pietro, dalle sillogi ora raccolte in Colpa del mare e altri poemetti a Impero, tende al progressivo asciugamento stilistico, unito a un tono orchestrato fra l’ironia e l’immagine arguta. In secondo luogo, il frammento à la di Pietro non è affatto figlio del frammentismo neo-ungarettiano o ungarettizzante, né dell’haiku mal cotto e mal digesto in salsa nostrana. Piuttosto, è ripresa indiretta della forma esteriore dei frammenti dei lirici arcaici, effetto dell’involontario cut up della storia e degli incidenti di trasmissione: non però del frammento tradotto à la Quasimodo, ma piuttosto della sua assimilazione ominosa, come forma ricostruita ed evocazione di significati nello spazio scrittorio caduto, tipica del Papyrus di Ezra Pound, che abbiamo voluto richiamare in esergo. Ma fra quest’altra storia, oggi meno frequentata o meno compresa, del frammento poetico, e i frammenti intesi à la Di Pietro, si interpone un ulteriore diaframma interpretativo. 

L’immaginato precorrimento di cut up di Pound è l’eco di un cut up involontario, determinato dal logorio della tradizione manoscritta e papiracea. Il cut up dei Frammenti del risveglio è, come abbiamo voluto suggerire nel titolo, un cut up ontologico, è la fotografia in micro-versi e in micro-testi di una disseminazione esperienziale in rebus. La frammentazione del messaggio risponde a questa logica di costellazioni segniche emergenti dal buio bianco dei margini muti della pagina scritta, ma non è una frammentazione atomistica: piuttosto, il nuovo modo di poetare per frammenti rende conto della deriva dei dati di esperienza come tali a rifugiarsi fuori della portata del soggetto, sgretolando per converso il soggetto stesso: non più l’esercito in fuga delle sensazioni da ordinare induttivamente, come da prassi elenchetica aristotelica, quanto piuttosto l’emersione occasionale di segnali pertinenti a partire dal rumore di fondo dell’insensato quotidiano. Così il cielo oscuro del primo frammento, secondo cui “non ci sono/stelle sufficienti/a fare luce/nella notte/del tempo dei tempi”, sottende la metaforizzazione della risposta al cielo cosmico desolato dagli effetti del paradosso di Olbers. Nel vecchio universo newtoniano, in cui la luce si supponeva trasmessa a velocità infinita da infinite stelle in un tempo infinito, il buio notturno non trova risposta, né giustificazione: questa assurda normalità della notte come luogo oscuro trapuntato di luci disperse, frammentarie, si spiega solo nell’ottica di un universo relativistico in fuga da un tempo limitato per lo meno nel suo punto di inizio, nel suo bereshit. Allo stesso modo i frammenti illuminano di occasionale segnicità e sensatezza una realtà che di per sé si mostra incongrua, spostata verso la morte termica della coerenza del messaggio. I momenti sensati affiorano alla rete del conato di senso del soggetto come singole tracce di una narrazione sotterranea, una sub-narrazione che il lettore può intuire nello spazio bianco, nella lunga pausa di silenzio che isola i singoli frammenti come focolari ecumenici sporadici nel freddo siderale. Con questo ripensamento della frammentizzazione poetica, l’autore è così riuscito a trovare, per lo meno sul piano della storia interna delle forme poetiche, un luogo estetico non equivoco in cui possano abitare sia chi il messaggio l’ha formulato, sia i suoi fruitori, messi al riparo sia dall’iperintellettualismo, sia dall’affettazione del sentimento. Questa rilevanza cosmica del frammento si dipana nella prima parte della silloge, il momento aurorale di Lucifero, che segue la decostruzione e la ricostruzione del soggetto poetante e del soggetto fruitore in tutte le tappe della loro fragilità ontologica, emersa nel “repertorio del possibile/la storia” (fr. 2), oscillata di “quarto in quarto/di marea in marea” dai tempi ciclici della luna/madre/utero (fr. 3) stagliata su uno sfondo-mondo in cui “le stelle/guardano [=sorvegliano, osservano, serbano] il cielo”, scenario della dimensione liminare degli esistenti, noi, che “non apparteniamo al buio/non apparteniamo alla notte/vegliamo lontani/da quel cratere [=vulcano eruttivo/coppa da cui attingere]/ dove dimora [=abita/indugia/riposa] il tempo” (fr. 10), noi che “siamo senza passato/ casa senza linguaggio/ pensiero senza parole/ l’ombra alle spalle/di fronte il sole” (fr. 8). In questo tessuto poetico balenano dal silenzio immagini al limite dell’esoterico, dell’oracolare, che non possiamo definire neo-orfiche per l’immediatezza della spinta comunicativa, ma che potremmo definire tranquillamente orfiche nel senso forte e specifico del retroterra religioso dei poemi lustrali dell’arcaismo magno-greco: il paradosso della fine che ingloba il principio e ad esso prelude emerge in evocazioni di sapore empedocleo, pitagorico, platonico, che alludono all’esistenza come a un “generare/come api in aprile/prima di volare/altrove” (fr. 12), tenendo però conto che ogni “febbraio/anticipa/mandorle di luce” (fr. 11). 

Nei frammenti, tuttavia, tale dimensione oracolare trascorre, come ogni altra sensabilità, sul filo sottile dell’ironizzazione: l’ironia del meriggio si apre con una sostanziale sconfessione della figura del poeta sciamano o veggente, anche di quel poeta sciamano o stregone che con i suoi tratti asemici si comporta, di fronte al gregge tribale neo-inventato dal web, come quel capo-villaggio indio che si dà un tono di fronte ai suoi gregari fingendo di scrivere i segni del suo discorso su un foglio –ma deposita su carta solo tratti privi di ogni veicolarità di significati. Così sulla “via dell’infinito” si depositano, come residuati della hybris umana, “aruspici, poeti/sciamani, rabdomanti” ma (con isolamento caratteristico operato dalle parentesi) “all’ombra di un melo/in tanto gli amanti”. L’ambiguità del primo frammento di Meriggio è sottesa fra il rinnegamento dell’affettazione metafisica, a cui si risponde con il connubio degli amanti come via alogica al superamento del transitorio, alla permanenza, sia pure nell’attimo, alla rinascita. Nella trama di Meriggio questa peculiare via poetica al frammento segue la curva buona dei frantumi di positività che ancora permette la percezione quotidiana, nella qualesi impara a misurare/il pane e l’olio/il sale costoso/il fiore secco dell’origano/nel racconto/del vento sabbioso/che viene dallo Jonio” fr. 2. Unisce le diverse sezioni della sub-trama del Risveglio questo tema del vento, ἄνεμος, animus, anima, ruach, inopinatamente evocato nel retroscena: dal fr. 18 di Lucifero, dove si evoca dall’ipotesi della memoria, una terra che salva, una “terra/dove ancora fanciulli/giocavamo negli uliveti/scossi dal vento”; al fr. 2, già citato, animato dal “vento sabbioso/dello Jonio”, al fr. 13 di Vespero, in cui l’obliterazione del messaggio dell’oltre, degna del Wittgenstein che vieta di parlare di ciò di cui si deve tacere, ricorda che “anche il vento/rispetta la consegna/del silenzio”. 

In questo alternarsi di silenzio e vento, di luce e buio, nella realtà una e bina di Vespero e Lucifero, si disegna una trama poetica in cui l’oltre, la dimensione delle stelle e degli dèi annidati nel silenzio, e il qui, la solarità e l’irriducibilità della vita “negli inverni meridionali” (Lucifero, fr. 5) non sono giustapposti in un’insanabile dualità di divina indifferenza e male/bene di vivere, ma sono le due facce della stessa particola-campo di esistenza, il cui spin doppio librato nel giro di fine e principio, morte e rinascita, si contempla e si addensa nei Frammenti.



Da “ Lucifero”


1.

non ci sono

stelle sufficienti

a fare luce

nella notte

del tempo dei tempi



2.


sarà come

dopo la luna nera

di quarto in quarto

di marea in marea

sprofondare e rialzarsi

per derive di vènti

e seni e bocche schiuse

(cose da niente i baci)



Da  “Meriggio”



1.


sulla via dell’infinito

aruspici e poeti

sciamani rabdomanti

(all’ombra di un melo

in tanto gli amanti)



2.


si impara a misurare

il pane e l’olio

il sale costoso

il fiore secco dell’origano

nel racconto

del vento sabbioso

che viene dallo Jonio



Da “Vespero”



1.



arrossì l’ibisco

fra i capelli neri

(inventò

la notte senza buio)



2.


l’argenteo splendore

di cui le stelle

sono tremanti presagi

ci indica il sentiero

il pensiero incalcolato

(il gesto smisurato

Il soffio il dono)