lunedì 30 novembre 2020

Marco Ercolani “Il futuro angelo” per la mostra A’ DEUX Art brut-Art contemporaine, Expace Exposition Bibliothèque Méjanes, Galerie Zola Citè du Livre, Aix en Provence, 2020

 


A’ DEUX

Art brut-Art contemporaine, Expace Exposition Bibliothèque Méjanes,

Galerie Zola Citè du Livre, Aix en Provence, 2020

Testi di Elena Bonini, Hervé Castanet, Marco Ercolani, Lucetta Frisa (“Dialogo con l’ombra”), Gustavo Giacosa, Jean-Baptiste Lallau


Cosa ci rivela, Gustavo Giacosa, con questa sua nuova esposizione, A deux, (Galerie Zola, Aix-en-Provence, Janvier-Mars 2020) dove opere di artisti contemporanei e di artisti d’art brut dialogano insieme? Ci rivela la necessità, non arginabile, di esporre le ragioni potenti e anomale del corpo, non filtrate dall’ordine logico del discorso ma dettate dall’interno del groviglio soma-psiche, prima dualità dell’essere vivente. Come scrive il curatore della mostra: “Il doppio è nel cuore stesso del corpo umano”.    

L’arte visiva è da sempre immersa in una doppia natura: l’invisibile mondo interno, spesso oscuro e denso di paure, cerca forme al suo dirsi, vuole varcare la soglia del taciuto, fermare l’attenzione come un occhio non meduseo ma decisivo, segnale di una diversità irrinunciabile. Queste immagini perturbanti evocano occhi, cellule, mani, piedi, specchi, maschere, violenze, metamorfosi, simbiosi, fantasmi, incubi sessuali, fantasie di danza, rapporti umani e ferini: sono l’inventario di un corpo straziato da impulsi ed emozioni. II dialogo, onirico e sonnambolico, che traversa con uguale potenza opere di artisti contemporanei e brut, le rende talismani inquieti, agghiaccianti fantasmi. Vivere da spettatore attento le diverse sezioni della mostra è socchiudere gli occhi al normale mondo dei limiti e immergerli in quell’altro, segreto, illimitato, pericoloso mondo (“L’altra parte” come la definisce Alfred Kubin nel suo celebre romanzo) - dove l’uno incontra il due nella pericolosa verticalità della mistica o nell’inabissamento farneticante della follia. “Il doppio nell’art brut rimanda a una forma di verticalità che lega l’uomo al divino in una forma di esclusiva intimità” (Giacosa). 

La mostra ipotizza che tutte le opere umane valgono solo per le ossessioni che le incarnano. Se uno scultore volesse trasformare le figure delle sue statue in evanescenti pitture, le scolpirebbe increspate, frantumate. Rischierebbe la follia, ma sarebbe un metodo per oltrepassare i confini e distruggere ogni letale monumentalità. La traduzione di due versi di Hölderlin “Ciò che resta/ lo fondano i poeti” potrebbe anche essere: “Ciò che avanza/ lo offrono i poeti”. Nessun fondamento da definire o costruire: solo un dono, che evapora nell’aria.

Nella mostra di Giacosa la realtà del due – gli occhi, le mani, i sessi, i piedi, i conflitti, gli amori, gli odi – è anche idea di una metamorfosi che offende il pudore delle armonie prestabilite, affrontando temi come la maschera, lo specchio, le rivalità, la coppia, il fantasma, il sesso, la bestialità. L’idea di un “bello” turbato, di un potente e sgradevole unheimlich, attraversa l’intera mostra. Siamo obbligati a vedere ciò che il sonno censura, obbligati a sognare qui, adesso, mentre siamo spettatori. In tedesco unheimlich - perturbante - significa minaccioso e il suo opposto, heimlich, intimo. I due termini, pur esprimendo contenuti antitetici, hanno un’equivalenza fonetica nella lingua tedesca che Sigmund Freud sottolinea con scrupolosa attenzione. Heimlich significa «intimo, segreto, domestico». Ma l'intimità suggerisce anche invisibilità. «Domestico» può essere quindi anche «segreto, sottratto alla vista, nascosto». E «nascosto» richiama il concetto, apparentemente antitetico, di «occulto, spaventoso, minaccioso». Analogamente nei Riveda della tradizione indiana, il Cielo è Dyaus (radice «div», il cielo, il luminoso) e la Terra Prthivi (radice «prth», estendere, spiegare). Parole diverse come Dyava-Prthivi, Mitra-Varuna, Indra-Agni, Indra-Visnu, Agni-Soma, definiscono coppie di opposti con suoni diversi ma simili. In parole come diti e aditi, dvaita e advaita, mrta e amrta, il prefisso a trasforma la parola nel suo opposto. C’è un suono quasi equivalente: e impercettibilmente l’uno diventa due.

Freud ci avvicina alla concezione positiva e dinamica di un'ambivalenza perturbante, evocatrice di un significato ulteriore sempre imminente: è «l'altra parte» di una realtà visibile che diventa possibile fonte di terrore. Unheimlich è il senso di sgomento che ci afferra mentre scopriamo qualcosa di non familiare, di inimmaginabile, là dove credevamo di trovare eventi familiari e previsti. Il «perturbante» potrebbe essere quindi definito, in termini più adeguati, la dinamica di uno smascheramento che introduce la possibilità di vedere l'irreale nel reale, il fantastico nel quotidiano, e viceversa. Scrive Robert Musil: «Il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe ugualmente essere e di non dare maggiore importanza a quello che è, rispetto a quello che non è». Uno stato di metamorfosi, del cui strazio si fa interprete, in una delle sue visioni, l'alchimista gnostico Zosimo di Panopoli (III secolo D.C.): «Qualcuno accorse sul fare del giorno, velocemente mi afferrò e mi squarciò con la spada, smembrandomi senza alterare la disposizione delle membra. E scorticò completamente la mia testa con la spada che brandiva, mescolò le ossa con le carni e le arse di sua mano col fuoco, finché non mi resi conto di avere mutato la natura del mio corpo e di essere diventato spirito». 

Lo spirito si sviluppa nel tempo del sonno, quando apparentemente siamo fuori dal mondo e invece sprofondiamo realmente nel nostro. Vediamo i nostri sogni e ci appaiono reali. Viviamo dentro una nebbia, ma la nebbia non arriva dal clima esterno: la nebbia siamo noi, il modo con cui vediamo, che non è mai unico. La notte nutre il giorno e il giorno la notte. Ma, quando ci si sveglia o ci si addormenta, si va dall’una all’altra parte del mondo, attraverso lo stretto passaggio di cui siamo custodi. 

Di cosa siamo custodi? Del nostro corpo, mai identico a se stesso, delle nostre menti tormentate. È come essere davanti a un muro crivellato: bisogna andare via, lo sappiamo, le vittime non ci sono più, a cosa serve restare? Ma si prova uno strano pudore, un’intima paura, a lasciare quel muro solo, con le sue cicatrici; vogliamo che il nostro sguardo abbia ancora il potere di consolare, di lenire, non si sa cosa, perché tutto è già accaduto; e così non si va ancora via, si guardano le schegge, i buchi, le crepe (perché non si chiamano ferite?), si pensa a scene di battaglia dove alcuni uomini sono stati uccisi e a scene di festa dove sono stati felici, in una metamorfosi continua della mente e del corpo. La metamorfosi sostanzia il nostro pensiero, e il prezzo da pagare è proprio la duplicità del corpo, il suo strazio somatopsichico, che in ogni segmento di questa mostra scandalosamente si svela e si insinua, attraverso continui smascheramenti, come un inquietante animale collettivo, anonimo protagonista di estasi e terrori, dove non soltanto dominano le espressioni della follia “altra” ma l’umano svelato in tutta la sua minacciosa e felice potenza. Il reverendo Hooper, nel racconto di Nathaniel Hawthorne Il velo nero del pastore, da una certa domenica in poi celebra la messa con il viso coperto da un velo. Il velo nero non è simbolo di nulla. Né metafora né allegoria, allude a tutto e a niente. Chi lo guarda si pone domande assillanti: il pastore vuole espiare una colpa personale o collettiva? Ma il reverendo non fornisce spiegazioni plausibili. Si farà seppellire con il velo sul volto, lasciando tutte le domande senza risposta. L'inquietudine non nasce da uno smascheramento, come sarebbe logico pensare, ma da un mascheramento enigmatico. 

Osserviamo, poi usciamo all’aperto, come se il sogno-incubo della mostra fosse ancora presente. Se vedessimo casualmente un’ala, piccola e sottile, poggiata su un muro accanto a un corpo privo di vita, potremmo immaginare che quel cadavere, se l’ala pudica e dismessa si attaccasse alla sua spalla, si rimetterà in volo ritornando alla vita. Ma potremmo immaginarlo soltanto se le ali del futuro angelo fossero due. Ogni rinascita dalla fine non passa attraverso una mente sola e un corpo solo.


                                                                                   Marco Ercolani





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