lunedì 23 luglio 2012

Bernard Berenson “Viaggio in Sicilia” Abscondita, 2011

Del genere diario di viaggio, questo libro di Bernard Berenson “Viaggio in Sicilia” Abscondita, 2011, conserva tutti gli elementi: la casualità delle annotazioni, la rapidità dello schizzo, la sintesi lapidaria, la nota di colore locale, l’asistematica registrazione di ciò che vede e che viene trascritto solo se ritenuto di personale interesse. Ma vi è di più: Berenson aveva già compiuto un viaggio in Sicilia nel 1908 e il nuovo viaggio, effettuato circa quarant’anni dopo, viene messo a confronto con quei ricordi. Non solo quindi una trascrizione rispetto  a ciò che lo colpisce e che trova meraviglioso, inusitato o orrido, ma anche rispetto a ciò che trova cambiato, che non coincide, che non gli dà le medesime sensazioni di allora.
E ciò purtroppo accade spesso, perché le cose cambiano e, a volte, in senso peggiorativo, se l’incuria e il cemento invadono persino i siti archeologici per non parlare della devastazione territoriale nel suo complesso. Il raccapriccio e la nostalgia per il patrimonio artistico e paesaggistico così assediato diventa nostro: è questo che mettiamo a fuoco e con un chiarezza che forse non abbiamo quando esperiamo nel quotidiano il nostro paese. Ma innegabilmente affascinante è la zampata del vecchio leone che si divide tra scherno e  tolleranza, tra sedimentata saggezza e impeto giovanile.
E’ il caso di quando getta un velo di sdegnata prebenda sui comportamenti chiassosi e viscerali degli indigeni o quando stigmatizza con precisione lo strano comportamento di Goethe, che pur dotato di indiscutibile genialità non mostra alcun interesse per gli aspetti estetici, tutto intento com’è a osservare le piante e i minerali: “Un genio come Goethe, così grande eppure così limitato nei suoi interessi per le arti visive! Esprime, interpretandoli magnificamente, solo quelli caratteristici dell’epoca e dell’ambiente d’alta cultura, in cui aveva vissuto fino alla partenza per l’Italia”. Così l’indifferenza che Goethe mostra per le statue della villa del Principe di Patagonia o per il Duomo di Monreale o per la magnificenza dei panorami è cosa il grado di gettare una luce che illumina lacune nella cultura dell’epoca in cui quell’uomo di genio viveva: “Dunque, non solamente la parte dedicata alla Sicilia, ma tutto il viaggio in Italia dimostra come anche a un genio della statura di Goethe non fosse concesso di sfuggire ai vincoli del proprio tempo. Invano ci riteniamo in grado di guardare, di vedere e di apprezzare tutto sulla terra. Persino i più superbamente dotati  tra noi non possono mai sopravanzare di molto quanto ci fu insegnato a comprendere nel corso dei nostri anni di formazione”. Ritorniamo, dunque,  all’oggetto di questo diario di viaggio: la Sicilia. Innanzitutto, questo non è un libro di critica storiografica, non ha la sistematicità di certi diari di Cesare Brandi in cui si enuclea in maniera sintetica l’arte di una nazione o di un periodo storico (Diario Cinese, Verde Nilo, ecc).
Quello di Berenson è il diario dei suoi amori e delle sue idiosincrasie, dove l’oggetto Sicilia è pretesto per esprimere la complessità e la ricchezza raggiunta durante un’intera vita di studio e di riflessione. E dove i monumenti vengono considerati in relazione al paesaggio in cui sono immersi. Si riporta ad esempio, la prima apparizione del tempio di Segesta dalla strada maestra, ove da quel punto “appare troppo piccolo per influenzare con l’ordine della sua struttura architettonica il paesaggio circostante” mentre da vicino “l’opera produce una potente impressione, che afferma il raziocinio e l’intelligenza chiarificatrice  dell’uomo tra le forme confuse, l’indifferenza e l’anarchia della natura”.    In ogni caso, la percezione e la sensibilità estetica sono il sine qua non di ogni esperienza esistenziale.  Ed è anche vedere quanto soggetto e oggetto si scambino potenzialità e risonanze, poiché Berenson funziona come cassa di risonanza e la Sicilia come archetto.

Rosa Pierno

giovedì 19 luglio 2012

Manuel Micaletto “Il piombo a specchio “ Opera Prima, Cierre Grafica, 2012

Se l’uso della filosofia in poesia corrispondesse a un mettere dei paletti intorno a cui fare slalom per mostrare come a certe indicazioni perentorie la poesia risponda con un rilanciare verso l’aperto, useremmo come esempio di siffatto caso il libro di Manuel Micaletto “Il piombo a specchio”, Cierre Grafica, 2012, appena uscito grazie al concorso indetto dal sito www.poesia2punto0.com, fortemente voluto da Luigi Bosco e accolto con entusiasmo da Flavio Ermini nella collana da lui diretta “Opera Prima”, il quale ha anche stilato la premessa, mentre Mario Fresa ne ha redatto la postfazione.

Un porre dei paletti che non equivale a disseminare citazioni, ma letteralmente a prefigurare dei percorsi attraverso una segnaletica divelta da un travolgente, velocissimo passaggio che lascia sul campo, vero e proprio atto di lacerazione, una sfrangiatura che diviene ambiente di coltura, come certe anfore inabissatesi su cui si incrostano migliaia di organismi.  
Abbiamo detto filosofia, ma avremmo dovuto dire anche scienza, biologia, religione, storia. Si addensano e si espandono, col ritmo variato del respiro, mentre si ascolta lo scorrere del sangue nelle vene, le punture, le contusioni, le ferite della cultura le quali pretendono una cura, necessitano di un decorso e di una “condotta clinica”. Poiché in Micaletto agisce il bisogno di liberarsi dal fardello, dall’insana deviazione inflitti da un sapere che se riceviamo come già composto, dobbiamo vivisezionare, scandagliare, ricondurre a più miti apparenze, a meno sirenee deviazioni o astrazioni: bisognerà decostruire il consenso. “Tutto un mondo, ora, passa la mano, scivola /  nel linguaggio, commette un’intesa. // da che ho invertito / osservanza e osservazione” e si noti quel ‘commette’ che porta con sé una colpa e quel rimando a un metodo che trova collocazione nella poesia in quanto l’osservazione di tipo scientifico si stringe con un lacciuolo alla regola morale, affinché stretti assieme non perdano pezzi per strada, non restringano il campo visivo, non decurtino le diramazioni percorribili.

L’andamento investigativo si dipanerà tra l’osservazione effettuata applicando un metodo scientifico, chiamiamola pure ragione a larghe falde,   e tutto il resto del mondo, ove persino i morti coabitano nel medesimo spazio del poeta: dal proprio divano si proiettano interiori mondi iperurani, domestici aldilà.
Il dialogo intessuto in questo libro si mostra in controluce come formato da mille piani solo apparentemente contradditori: abbiamo già detto geometria/spirito, ragione/immaginazione, fisico/mentale, ma, appunto, la contraddizione non è elemento sul quale far leva per Micaletto:

La luce cariata delle tapparelle
passa il corpo a setaccio, prende la stanza
in contropiede: bianco che azzera
la linea mediana e questo silenzio
lanciato a mille sgombra
a pattuglia del nome. È già una lesione, una prosa
del taglio     

A riprova del fatto che il mondo è proiezione linguistica e che è nella lingua che risiedono le regole, anche quelle nuove, quelle che ogni poeta inaugura:

Nel mare immediatamente successivo l’acqua
si comporta come nel mondo reale. Se si oppone
è liquido di contrasto, matita rossa, l’errore
è un cerchietto attorno alle cose, l’aureola di fiato
mentre incolli la faccia al vetro.

Esiste un luogo, ed è la poesia, in cui “l’interezza dei pesci e degli dei mirabilmente” sono compatibili e in cui la filosofia viene liberata dalle sue strettoie (quando acconsente ai limiti della ragione) e in questo luogo esiste “una sproporzione / tra estensione e vita, ed è difficile in tutto questo / rinunciare a un distretto / immacolato, fare a meno del vuoto”. Ciò nondimeno accade, si percorre il sentiero accidentato. Vi collassano dunque tutte le separazioni, paletti, steccati, veli divisori che sono attivi in ogni dove, meno che qui, in questo sgorgante, inaugurale libro.

                                                                       Rosa Pierno      

domenica 15 luglio 2012

Gillo Dorfles “Fatti e fattoidi” Castelvecchi, 2009

Il libro di Gillo Dorfles, “Fatti e fattoidi”, riedizione realizzata da Castelvecchi nel 2009 del libro uscito nel 1997 per i tipi di Neri Pozza, assume sotto la medesima denominazione di fattoidi sia i fatti reali che quelli artistici, quando quest’ultimi siano eventi travisati, artificiosamente gonfiati o impoveriti, oggetti cioè sottoposti a una pratica di “falsificazione e di feticizzazione”. La critica alla società e alle forme culturali contemporanee vi viene operata individuando due cause e offrendo due soluzioni: ” 1) nello svincolarsi dagli agguati della high-tech, dalla sottomissione alle scoperte scientifiche sempre illusorie per quanto si riferisce all’aisthesis; 2) nella rivincita del corpo umano, non come corpo stuprato (o stupratore), come fonte di ogni perversione”, la quale è ravvisabile in molte  opere contemporanee (Gina Pane, Hermann Nitsch, Kiki Smith, Damien Hirst).

A nostro avviso, le pratiche crudeli, sopraffattorie, sadiche presenti nell’arte contemporanea non sono derivanti da “un’epoca  di crudeltà, di disprezzo per la persona umana, di indifferenza per il prossimo” come Dorfles afferma, giungendo a definire quella in cui viviamo come un’epoca di “ oscenità del credele”. Vorrei riportare a questo proposito la risposta di Voltaire, nella venticinquesima delle sue Lettere Filosofiche, a Pascal che criticava la doppiezza dell’uomo, capace delle più estreme manifestazioni. “Un animale che il suo padrone accarezza e nutre, e un altro che egli sgozza con precisione per farne anatomia, dovranno ben provare dei sentimenti animali diversi o contrari: così facciamo noi e le differenze che sono in noi sono così poco contraddittorie  che sarebbe una vera contraddizione se non esistessero come tali”. Insomma, caratteri che sono umani e che pertanto appartengono a ogni epoca, mentre sarebbe giusto verificare le forme che il sadismo assume nella società attuale e chiedersi come mai tali rappresentazioni siano entrate nel dominio dell’arte.

Nemmeno condividiamo il dispiacere di Dorfles per la perdita delle ideologie e di alcuni credo (quello del “focolare domestico”, dell’”amor di patria” e dell’”amore per  il prossimo”, i quali “potevano proiettare un opportuno riflesso nelle creazioni artistiche di ieri, ma difficilmente in quelle odierne”), mentre oggi “Si tratta, in molti di questi casi, del male per il male senza neppure la giustificazione d’una mistica religiosa tipo Grande Inquisizione”. Già Marx avvertiva che le ideologie sono proiezioni inconsapevoli e false poiché rispecchiano una condizione determinata, ma si credono vere o valide universalmente e, pertanto, non sentiamo, allo stesso modo, la mancanza di nessun tipo di ideologia. Sembra qui che Dorfles pur muovendo da una critica adorniana alla società di massa non ne accolga la parte che riguarda la critica alle ideologie o al capitalismo, e spacci per cause dei semplici effetti. In ogni caso, se il contenuto morale viene considerato come segno distintivo di un’arte opposta a quella di massa, poiché in quest’ultima si ravvisa superficialità, esclusivo intrattenimento e disinteresse per i problemi del mondo, va considerato che la società attuale non è quella descritta da Adorno e Benjamin, mentre si profila come atto necessario un ripensamento degli apporti positivi della cultura di massa.  

Anche quando Dorfles prova a spiegare le difficoltà relative alla ricezione odierna della musica dodecafonica, attribuendole alla necessità, vera più che in altri campi, di conoscere le regole che sono alla base della costruzione musicale, noi pensiamo che la ricezione abbia bisogno della conoscenza del contesto e delle regole di costruzione in tutte le arti e non solo nella musica (vale cioé sia per la “Divina Commedia” sia per l’orinatorio di Duchamp).  Inoltre, egli attribuisce al bersagliamento, di cui siamo fatti oggetto in ogni occasione, con “un tipo di musica “monocorde”, che va solo in una direzione”, la nostra incapacità di comprensione, di quella che è la vera musica contemporanea. Per i problemi di ricezione della musica dodecafonica nella società di massa crediamo che vadano scandagliate tutte le componenti coinvolte nel problema della ricezione musicale, che sono sociologiche, culturali, sociali, percettive, storiche, non escluso il fondamentale, imprescindibile, processo di alfabetizzazione musicale (a cui peraltro il nostro autore non fa alcun cenno).

Analogamente, individuare nella scienza e nella tecnica il capro espiatorio della nostra condizione attuale assunta come negativa tout court non ci appare un buon inizio per l’esercizio dell’individuazione di soluzioni efficaci.  Una disamina costruttiva della società di massa è quella effettuata da Vattimo nel suo “La società trasparente”, ove la propositività, si incentra sulle possibilità che la società contemporanea offre, e proprio attraverso le tecnologie, e non c’è spazio, anzi esso viene contrastato, per un pessimismo connotato da nostalgica adesione al passato. Se nessuno vuole contestare una deriva di vuotezza e di falsità in molti dei fenomeni attuali, ciò non può effettuarsi buttando a mare l’acqua con tutto il bambino.

Ci è parso, il libro di Dorfles, essere più una collezione di sensazioni superficiali e  opinioni spicciole in cui senza mai colpire il bersaglio di una motivazione e di una causa reale, vengano snocciolate le sue idiosincrasie personali elevate a leggi universali che un libro di analisi. In questa confusa disamina, trascinati dalla veemenza falcidiante con cui Dorfles sommerge i fenomeni contemporanei senza tante sottigliezze,  egli non dovrà dispiacersi se considereremo anche il suo libro come un “libroide”.

                                                                                                        Rosa Pierno

sabato 7 luglio 2012

François Jullien “Quella strana idea di bello”, Il Mulino, 2012

François Jullien nel suo ultimo lavoro “Quella strana idea di bello”, Il Mulino, 2012 affronta il concetto di “bello”, così come l’abbiamo ricevuto dalla nostra tradizione, mettendolo a confronto con la tradizione orientale, così diversa dalla nostra.  Il lavoro di analisi  pertanto non intende mettere soltanto in rilievo tutto ciò che abbiamo lasciato irrisolto sul terreno, ma azionando il confronto con un tradizione così diversa qual è quella orientale, intende anche vedere quali soluzioni alternative esista per affrontare il medesimo problema.
Naturalmente, il problema del linguaggio è di fondamentale importanza, perché “le risorse della lingua predispongono il pensiero. A partire dall’aggettivo, a cui è attribuita la funzione di indicare ciò che non è delimitato, né selezionato, non è suddiviso né classificato e che riguarda genericamente la varietà, il molteplice, mentre con il sostantivo il senso si isola, diventa esclusivo, diventa un concetto assoluto. Così “il bello” (sostantivo) “designa esclusivamente ciò che, separato dall’uso e avulso da dipendenze, incarna una qualità specifica”: il sostantivo essenzializza.
La lingua cinese invece non distingue morfologicamente tra aggettivo e sostantivo: “essa non isola un senso puramente estetico che possa essere poi ipostatizzato dal pensiero”.  
Certo, dalla pratica filosofica inaugurata da Platone che ha posto il bello come ciò a cui tutto va ricondotto, ponendo fine alla infinita dispersione delle cose e superando così il realismo, nascono alcuni problemi: dai sensi (quali e quanti) con cui si percepisce la bellezza, all’inclusione della morale, dalla presenza dell’utilità o dell’adeguatezza all’indifferenza: “a sfuggire è, ancora una volta, la natura di quanto è in comune”.
In ogni caso, come messo in rilievo anche da Diderot nel suo “Trattato sul bello”, la bellezza è un enigma senza soluzione, a cui tutti hanno dato una definizione diversa, mentre “la lingua cinese non ha privilegiato un unico elemento semantico” lasciando libero gioco alle sfumature e alle corrispondenze poiché il punto di vista assunto è quello di un processo continuo, il quale regola sia il corso del mondo sia il comportamento umano. “E ciò, quindi, senza che al suo interno venga isolato e pensato separatamente – come immobile, estratto dal  sensibile e istituito come norma ideale – quel “ciò che” sostanziale, quel soggetto reciso da qualsiasi processo che “supporremmo” al di sotto di questa diversità e che chiameremmo “il bello””.
Riassumendo, nella cultura orientale: “il campo semantico rimane vario e nessun termine sembra prevalere sugli altri” né si lascia ordinare secondo un’unica prospettiva. La formulazione cinese ci riporta al di qua dell’effetto monopolizzatore del concetto, tenendoci così vicini al piano originario della percezione e al suo dinamismo.
“Se il bello si separa dalla vita è perché sceglie di sottrarsi a ciò che è perituro, contingente, individuale”. Platone, per realizzare questa separazione ha escluso dal bello ogni condizione, rendendolo in-condizionato attraverso il privativo. “Ma se si neutralizza ogni possibile determinazione alla fine cosa apparirà?”. Quel che ne resta è inevitabilmente “una bellezza “disincarnata da ogni cosa, che non poggia su niente e non si lascia ridurre da nessuna prospettiva”. Sarà un bello autoreferenziale, che si rifletterà in sé. Ma Platone assegnerà al bello un privilegio unico: quello di trasformare l’ambito delle idee in ideale, in qualcosa al quale aspirare. “Promuove e distingue il visibile per il solo fatto che non si riduce ad esso”. Il bello ci insegna che “l’uomo è l’essere che porta “l’altrove” in sé (“pensare” consisterà essenzialmente in questo).” Il bello è iniziazione che “riconduce verso un “Lassù” – in questo caso la lingua dei misteri non è un semplice orpello”. Ed è scavando nel mondo “un’assenza che il bello rapisce il nostro sguardo”.

Separazione e mediazione costituiscono le due operazioni fondamentali del pensiero europeo. Dopo avere contrapposto il visibile e l’intelligibile, l’empirico e l’idea, il bello è usato per attuare la mediazione tra le due sfere separate. Da Platone a Kant persiste questo dualismo metafisico, che nel pensiero romantico si trasforma in oscillazione. Solo con Hegel si assisterà a un’apertura, per cui l’apparenza non si opporrà più all’Essere e il bello diventerà la manifestazione sensibile dell’Idea.

Nel pensiero cinese il dualismo appare completamente risolto, anzi non è mai preso in considerazione. Lo spirito “non rappresenta una dimensione a parte ma trova “accoglienza” o “alberga” esclusivamente nel sensibile”. Essi appaiono fusi, si espandono l’uno nell’altro, perdono la propria determinazione. I Cinesi non pensano in termini di Essere, ma di processo, non in termini di qualità, ma di capacità, “né in termini di modello e imitazione, ma piuttosto di corso e di viabilità”.  Essi non hanno bisogno di parlare della bellezza e quando parlano della forma si riferiscono solo a una formazione energetica, in cui si concretizza il dinamico delle cose “ e non già a una forma modello “sulla quale i greci hanno fondato il bello”.

                                                                                   Rosa Pierno

giovedì 5 luglio 2012

Christian Bonnefoi “Continuità e variazione”


Il concetto di spazio inaugurato da Christian Bonnefoi, creato attraverso la sovrapposizione di leggerissime carte dipinte, a tratti impalpabili e assemblate con spilli, le quali potranno o non potranno ricomporre figure, e che invadono spazi murari anche molto grandi, è uno spazio che non si coagula, né si rapprende, che non penetra e non si espande, né se ne possono distendere le pieghe con la mano, né l’occhio può incunearsi fra i lembi della carta o i teli della seta: lo spazio di Bonnefoi è uno spazio esperienziale di cui non si viene a capo. Ci afferra e ci trascina, facendoci inciampare e rotolare sulle sue superfici scabrose e traspiranti, stratificate e cancellate, in tal modo, consentendoci di fare esperienza di una paradossale metamorfosi. La figura vi erompe, squassata e franta, esplosa e in equilibrio precario, ma non è ravvisabile nella sua completezza, resta indicata. Del resto, non si può affrontare la sua opera senza effettuare una premessa fondamentale: la rappresentazione materica non può che effettuarsi tramite il viatico del colore. Il colore si articola in una vera e propria sintassi retorica in cui proporzione, peso, equivalenze, equilibri e dissimmetrie vengono tradotte in mirabili armonie compositive e in cui la distinzione tra forma e colore diviene fluttuante. E’ il problema del limite, della soglia, del passaggio. Lo sfondamento dei paletti fra forma e colore, così come fra tutte le componenti attive nell’opera d’arte,  lavora sulla possibilità della trasformazione, non arrestandosi su risultati ottenuti tramite analogia, ma da essa partendo per scoprire le possibilità insite nell’atto interpretativo. Il problema è di cogliere la connessione al di là degli schemi tradizionali determinati dal principio di identità e di non contraddizione. Perché l’istante in cui si crede di individuare il limite, collante tra le forme e i segni, è anche l’istante in cui essi sfumano, sbavano, svaporano. Logica del vago, che è tutta da costruire. La tradizione, la quale non si perita di venire convocata sulle tele di Bonnefoi in maniera diretta e aperta, viene qui miracolosamente trasmutata nell’immagine di un’opera che gli appartiene in maniera assolutamente originale. I quadri di Christian pretendono moltissimo da coloro che li osservano. Ne rapinano l’attenzione e gli fanno esplodere la memoria. Non è che memoria, a seguito di questo trattamento, possa individuare un’unica immagine mentale suscitata dal quadro, poiché non ne  esiste una. Si tratta qui di un’operazione che fa esplodere la figura in mille occorrenze, tutte vere: impossibili da ricomporre in una sola icona originaria. Fluidità dell’esistente attraverso un’infinità di passaggi.  E, dunque, spazio interno e spazio esterno, memoria e perdita di univocità, molteplicità e riconoscibilità, peso e leggerezza, cultura e immediatezza e, nemmeno a dirlo, spazio e superficie, aprendosi l’uno verso l’altro, si accolgono, risultando inestricabili e persino coincidenti!

                                                                                    Rosa Pierno

lunedì 2 luglio 2012

Evelyne Grossman “L’angoscia del pensare” Moretti & Vitali, 2012

nella collana: "Narrazioni della conoscenza" diretta da Flavio Ermini

Quando nel pensiero si ravvisi angoscia e in tal misura da caratterizzare l’esito della forma testuale, non siamo soltanto in presenza, per Evelyne Grossman “L’angoscia del pensare” Moretti & Vitali, 2012, di una strettoia in cui vengano considerati solo alcuni aspetti, ossessivamente perlustrati e in maniera asfittica, per quella crisi che a tratti fa perdere anche lo scopo dell’atto dello scrivere, ma siamo di fronte contemporaneamente alla creatività, anzi al suo precipuo carattere: quella melanconia che ogni atto artistico stringe a sé, fin dal rilievo di Aristotele, ripreso poi così splendidamente nell’immagine di Durer. Questo nodo insondabile e inscindibile guida lo spoglio della Grossman nella letteratura e nella filosofia francese. I nomi, d’altronde, sono contenuti nel sottotitolo: Artuad, Beckett, Blanchot, Derrida, Foucault, Levinas, Lacan.  

Le psicosi, la paranoia,  “il trauma della persecuzione, l’esposizione alla ferita, l’io posseduto dall’altro ne sono i sintomi più evidenti”, ma anche la “follia consapevolmente accettata e rivendicata”. Follia come alterità. Risulta chiaro allora che la disamina, se mette in luce le caratteristiche della scrittura dell’angoscia – e vedremo poi in che cosa esse consistano – mette in luce le strategie e le scoperte conseguite. Nessuno degli autori esaminati soggiace all’impulso autodistruttivo senza secernere l’antidoto della propria sopravvivenza. E una delle strategie basilari risulta essere quella dell’annullamento del soggetto che non è mai perdita di voce, ma è scrivere nonostante tutto, e si assuma come esempio sommo la poetica bechettiana. 

L’annullamento del soggetto è usato come forcipe per dar luogo a un’insensata nascita eppure nascita, a un resistenza protratta  fino ai limiti, all’inesausto tentativo di saggiare soglie e ombre, margini residuali e pieghe in cui il soggetto possa usufruire di modi che sfuggano alla morsa diaccia dell’angoscia. In questo senso il passo di Evelyn Grossman è persino lieve,  oltre che delicato. Enumera le strategie messe a punto, e senza porre l’accento sulle differenze, chiamiamole grossolanamente di genere fra letteratura e filosofia – eppure, quanti di voi hanno letto quel monumento anfibio che è “Il sogno di un visionario spiegato coi sogni della metafisica” di Kant sa di che cosa io stia parlando –  mostra il lascito concreto e tuttora ricco di vene d’oro da scovare che ci viene da quegli artisti e pensatori che non si sono sottratti alla lotta con l’ansia, il nichilismo, la perdita di riferimenti e fondamenti, ma l’abbiano affrontata di petto, mettendo sempre “in discussione i limiti tra dentro e fuori (limiti della dicibilità)”.

Al centro è dunque, inevitabilmente, anche la questione tra essere e divenire. E qui viene in mente la figura simbolo del polpo nella cultura greca indagata magistralmente da Vernant ove la capacità di dissimularsi sulle rocce e di nascondersi alla vista altrui delinea le strategie che appartengono all’incessante divenire e non a caso molti sono gli accenti di questi pensatori sulle capacità metamorfiche e strategiche – e l’autrice non si limita al solo pensiero dei sopracitati, ma anche alle opere di Kafka, di Mallarmé , di Duras, di Starobinski, di Saussure, di Barthes, di Proust, di Nietzsche e che si avvicinano, crediamo ineludibilmente,  al pensiero orientale “in quel movimento in virtù del quale senza posa ciò che scompare appare. Quando nomina, ciò che essa designa è eliminato; ma ciò che è eliminato, è mantenuto”.

E’ il pensiero del fuori foucaultiano, “quel fuori dove scompare il soggetto che parla”, poiché l’essere del linguaggio appare per se stesso solo nella sparizione del soggetto”. Ed è la risposta all’esigenza posta da questa ampia categoria che include filosofi e  scrittori “di uscire dal soggetto identitario, intenzionale e cosciente, che crede di sapere ciò che dice quando scrive” e che viene attuata con una “soggettività in costante spostamento, senza un punto di enunciazione fisso, “un io senza me” dice Blanchot””.

Le cifre stilistiche che emergono comprendono, infatti: “il riciclaggio di citazioni, metamorfosi di frasi deformate e riprese, una scrittura cannibalesca proprio come la lettura che assorbe, assimila e trasforma”, che “gioca a mantenere aperta la distanza fra gli opposti, la tensione tra disaccordo e accordo”, che si manifesta attraverso “scarto, vuoto, sparizione, dispersione, cancellazione, luogo senza luogo” e “incrinatura, sospensione” articolando così quelle forme contraddittorie e quei paradossi “ che minacciano sempre di irrigidirsi in opposizioni binarie. Forme che si ricavano, dunque, dalle modalità di indagine della filosofia e della letteratura. Evelyn Grossman non manca mai di rilevare  le faglie energetiche in cui nel contatto non si distinguono più materie differenti, quelle su cui si può lavorare in maniera non dogmatica, mantenendo aperta ogni questione, mai saldando, mai suturando.


                                                                                            Rosa Pierno