mercoledì 26 gennaio 2011

Yves Bonnefoy «Osservazioni sul disegno. Il disegno e la voce» Pagine d’arte, 2010

Si pone come ineludibile il libro di Yves Bonnefoy «Osservazioni sul disegno. Il disegno e la voce» Pagine d’arte, Aprica, Svizzera, 2010, poiché  con la sua  densità deforma lo spazio, crea una curvatura, una china su cui inevitabilmente qualsiasi discorso sul disegno  precipita. Se pure si può non condividere l’indagine metafisica di Bonnefoy, preferendo altre vie per valutare o descrivere  le opere artistiche, è anche vero che la forma non è un’espressione traducibile in parole: se il dipinto non restituisse altro che quanto si può esprimere a parole, non ci sarebbe alcun bisogno di dipingere. Ecco perché il riferimento a qualcosa d’inesprimibile, di non riducibile è inevitabile quando si cerca di restituire un’opera d’arte in quello che ha di più precipuo, quando si tenta di partire dai dati di fatto (una linea di grafite su un foglio di carta) e subitaneamente  si scopre che non ci si può limitare a questi dati e che qualsiasi interpretazione non esaurisce l’opera d’arte.

Ma vi è anche un altro motivo  che rende unico questo libro, al di là della considerazione che l’autore è un grande poeta, e consiste nel fatto che esso è un raro esempio di incontro tra poesia e disegno. La preziosità del saggio di Bonnefoy  risiede nella sua trasversalità: oltre a costituire un’interessante argomentazione intorno all’ineffabile che intride il disegno artistico è contemporaneamente un libro che indaga sulla ineffabilità che esala dalla poesia. Infatti, le due pratiche hanno valore per Bonnefoy soltanto se con esse si sgombra il campo da un sapere costruito astrattamente,  il quale ha sepolto l’esistenza sotto le sue costruzioni artefatte, irrigidendola in uno schema, mentre quel che bisogna  fare è cercare l’autentico senso delle cose, poiché anche l’uomo non è qualcosa di già dato, ma si ricrea nella relazione con l’esistente. Se il linguaggio è manifestazione dell’essere, la stessa cosa vale per l’attività del disegno.

Bonnefoy si serve della poesia come metro di confronto dei risultati raggiunti dal disegno e del disegno come misura dei risultati raggiunti dalla poesia. Pertanto la poesia funge da metodo di ricerca e oggetto di analisi parallelamente al disegno. Mostrando in questo modo come nessuna delle due assuma il ruolo di guida, ma come sia invece proprio il loro confronto a consentirci di desumere un’attitudine che ha il suo scopo nel non irreggimentarsi in nulla di dogmatico e definitivo.  Analizzando i bordi, le faglie, le linee di confine, le zone di vuoto e le aree di silenzio, le durate e le porzioni in comune così come sono individuabili nelle due attività – l’una che lavora sul linguaggio, l’altra che lavora sull’immagine – ove, naturalmente, il linguaggio forgiato dal poeta non usa le parole nel loro significato stereotipato e la linea tracciata dall’artista non ha nella mera restituzione della realtà il suo obiettivo, viene, dunque, messo a confronto il modo in cui entrambe agganciano l’inesprimibile. Nella flessibilità del tratto, nel vuoto nel quale la linea si accampa, nell’esilità della sua apparenza sembra che il disegno debba capovolgere il mondo per diventare ciò che ce ne riconsegna la presenza.

Certo, la difficoltà di circoscrivere, di assediare letteralmente l’inesprimibile deriva dalla stessa impossibilità di definirlo e, di conseguenza, le strategie da mettere in atto devono essere altrettanto mobili, aleatorie, mai definitive. Il metodo di Bonnefoy procede per folgorazione, per accerchiamento e per inatteso subitaneo svelamento: cogliere la presenza sarà cogliere l’essenza e ciò costituirà  il massimo premio per l’artista e per il fruitore che dell’arte gode.

http://www.paginedarte.ch/

giovedì 20 gennaio 2011

"Still Lifes" di Jeannette Montgomery Barron

Non sono innocenti le fotografie di Jeannette Montgomery Barron: esalano un’eleganza distillata come il profumo di non si sa più quale materia, imponendoci la costituzione di un mondo di fatto inesistente prima di esse.  La chiave per comprendere queste immagini è l’analogia: potentissimo metodo per ricreare la realtà in maniera immaginifica e favolosa e usato da Jeannette con una forza del tutto inusitata. Dotate di un potere invischiante, le sue fotografie intrappolano, mentre non smettono di avvolgerci di note muschiate e variegate che risalgano dalle immagini variamente sfumate in una gamma di grigi mai polverosa o indistinta, anzi lucidissima.  Nessuna delle sue nature morte lascia riposare, senza deviarla verso un viraggio indiziario e problematico, la lettura del reale. Albero, ad esempio, è investigato in relazione alla sua ombra ed estromesso come referente, è analizzato esclusivamente nelle declinazioni della sua apparenza, a noi, d’improvviso, dischiudendo la rappresentazione di un albero in forma di schema.

Ombra è presentata nella sua accezione solo mentale, ove, pertanto, lo spazio nel quale essa si dispiega, è preso nel colino d’una astrazione che lo avvicina al concetto aprioristico d’una categoria che si può invece cogliere solo percettivamente, nella singolarità.   Miracolosa pesca, diremmo, quella che ci dà la sensazione di percepire lo spazio mentre ha un ancora un guizzo di astrazione. Peonia è l’altro dispositivo che l’artista utilizza per decantare un aspetto della realtà mostrandocene un moltiplicata essenza.  Non basta mai, infatti, isolare un elemento. E’ necessario utilizzare il confronto per fare emergere la segnatura, la capacità, cioè, di mettere in evidenza la singolarità con un’altra singolarità, ottenendo così l’emersione dall’opaca visibilità del reale di un aspetto paradigmatico. La tramatura delle foglie, dei petali, delle inevitabili gocce d’acqua che li rigano è, in tale guisa, rinserrata, sul foglio di plastica che le avvolge, come fra le parole di un libro che serva alla loro decifrazione. Il gioco fra struttura e membrane, ora turgide ora trasparenti, ora sostanziate d’acqua, ora da orlature  sagomanti e ora da bordure screziate, è di fatto ciò che concorre a definire un “fiore”.

Più conturbante confronto è quello tra gladiolo e spugna intrisa d’acqua, ove la spugna funziona come particolare ingrandito delle caratteristiche dei petali. Il papavero, il quale ha un flessuoso gambo, raddoppiato sulla parete dall’ombra, ma che entra in irrisolvibile confronto con un’ombra rettilinea proiettata sul medesimo muro,  funge da particolare confrontato con l’universale. O il rinsecchito girasole presentato a testa in giù: sospendendo la sua attitudine a volgersi seguendo il sole, la Montgomery Barron causa nel fruitore la medesima sospensione veicolando tale capovolgimento di senso come significato portante. In fondo,  uno dei principali mezzi dell’arte è quello di presentarci le cose in modo imprevisto, paradossale, poiché è proprio questo che, sovente, ci consente di  approntare strumenti sempre più duttili e ricchi per elaborare il reale.

Dobbiamo confessarlo, colti da trasalimento, vediamo nell’asciugamano accostato alla stella marina l’identica forma vorticante mentre sono entrambi adagiati su un tavolaccio ligneo che nelle fibre non piallate presenta la medesima increspatura del mare. Ci sembrerà tale vicinanza forse più ovvia dell’accostamento di un polpo a un’orchidea soltanto se non consideriamo la similarità che affiora nonostante ogni nostra stratificata convinzione: non altro che punte turgide di esplorabile materia alternativamente sontuose o scabre.  E’ inevitabile che la sequenza di foto si concluda con un enigma, al cui tentativo di soluzione siamo chiamati proprio dalla certezza della sua irresolubilità. Non tutti gli accostamenti, le analogie, possono essere efficaci, produrre conoscenza. Ma alcuni preziosissimi confronti li conserveremo nella nostra memoria, certi che l’indicazione proposta dall’artista  è uno sprone a non limitarsi dinanzi alle apparenze del reale. Vaso nero, riverberato da un nastro di seta bianca che lo ricopre parzialmente (si notino le coppie oppositive di bianco/nero, duro/morbido, luce riflessa, luce assorbita) è implacabilmente affiancato a un ranuncolo (la cui complessità formale lo rende inconfrontabile con il vaso e con il nastro). Sarà il nostro tesoro, poiché la sua indeclinabilità non potrà resistere a lungo se, grazie a  Jeannette, ci poniamo la domanda.

http://www.jeannettemontgomerybarron.com/

Georgina Spengler

Se è centrale il ruolo della natura all’interno dell’opera di Georgina Spengler non lo è senza il sostegno di un’elaborazione che lo metta in relazione con il portato esistenziale e insieme con il ruolo dell’individuo nel mondo. Dunque, natura come movente per  una riflessione sulla condizione umana in rapporto al cosmo.

Ogni cosa viene messa in coltura con il suo irriducibile complementare: il microcosmo col macrocosmo, il tempo con lo spazio, la singolarità con  la molteplicità, il concreto con l’astratto. Non con l’attesa di venirne a capo, di suturare lo slabbro, di richiudere le lame delle forbici, ma con lo sguardo teso al guado, alla visione più estesa possibile, onnicomprensiva.

In fondo, la consapevolezza di sapere che nessun concetto può servire da definizione esaustiva, spinge l’artista alla ricerca della definizione composta da tesi e antitesi, da proposizione assertiva e proposizione che la contraddice, che è sicuramente più vicina al bordo irraggiungibile della verità: in questo senso, la Spengler è un’artista alla costante ricerca di complessità.

Questa attitudine è esemplificata nelle sue ultime tele che presentano come costituite da un doppio fondo: l’immagine, che fa riferimento a qualcosa di concreto (sia essa l’immagine di una cascata o di un santo martorizzato, così come ci proviene dall’esperienza o dalla tradizione) e a cui viene sovrapposta un’immagine priva di apparente legame, che si riferisce a un concetto astratto.   Alla ricerca, pertanto, di un’analogia che possa costituire, legando insieme i termini antitetici, un’ulteriore verità. Sicuramente una verità complessa, più adatta a essere utilizzata come risposta alle nostre interrogazioni e comunque capace di indicare zone di fruttuosa perlustrazione. Immagini adattissime a fungere da terreno fertilizzante per una riflessione che si dipartirà dalle immagini come un vascello verso nuove  terre.

Poiché una costante esiste nelle sue opere ed è quella legata, appunto, alle radici della propria terra, al riconoscimento di ciò che non passa, nonostante sia effimero, a  quello che resta come una staffetta di civiltà che viene passata dai propri parenti o dai propri consanguinei. Risuona allora anche nelle nostre orecchie il canto del poeta Seferis che nella mancanza della propria casa, nella perdita del proprio paese ha visto un’erosione della capacità di vivere appieno. Pietre, se restano dopo la fine di una civiltà non sono comunque mute. E’ questo il messaggio che la Spengler ci consegna: congegnare significati con gli oggetti più disparati, rilanciare per non lasciar cadere, trovare i lacci che tengono il mondo assieme.