martedì 30 maggio 2023

Stefano Iori “Il tocco dell’ignoto” peQuod, Ancona, 2023. Con una nota introduttiva di Flavio Ermini

 


Il nuovo libro di poesie di Stefano Iori, Il tocco dell’ignoto, peQuod, Ancona, 2023, si dipana tra poesia e filosofia. Il libro infatti si compone di poesie e testi filosofici, ma il poeta non percorre campi mediani, nel senso che non effettua tra loro una sintesi e non ne scarta le differenze; piuttosto esegue un’interpolazione dei due estremi, ossia li collega e conserva entrambe le esperienze con i loro dettagli. È come se il poeta stringesse assieme le due forme del poetare e del filosofare, costringendole a procedere sempre unite, a tenere tutto l’orizzonte del possibile in una linea, non omogenea, naturalmente, in forza della specificità delle due risorse creative, eppure continua. Lo straordinario apporto di codesta scelta, creativa a tutti gli effetti, consiste nel fatto che non scompare l’abisso tra le due forme espressive; tuttavia, esse sono ritenute inscindibili anche dal lettore. Per poter ottenere tale risultato occorre affondare le mani nell’immaginazione e nella meraviglia, che sono gli ingredienti necessari e sufficienti. Nell’attuale fase storica, con la perdita di quelle certezze che implicano un ambiente stabile per l’essere umano, l’illusione diviene strumento di speranza e desiderio, si trasforma in un beneficio, facendo emergere il pensiero dalle acque stagne degli schemi preconfezionati. L’illusione è la risposta al tocco dell’ignoto. Il tocco dell’ignoto è forse qualcosa che ci sfiora dall’esterno, come i primi chiarori e i suoni sinestetici che sono latori, dopo la prima morte, di un’attenzione risvegliata, da che eravamo in letargo mentale e percettivo. Essere presenti alla vita è indispensabile per attingere all’oltre che ci riguarda.


La “forma non forma” si manifesta, appunto, al di fuori del quadro consueto, delle aspettative preformate. La nostra mente è capace di risorse inaudite, quando si abbia il coraggio di uscire allo scoperto. Se ci lasciamo toccare dall’ignoto, siamo infatti in grado di ascoltare l’inudibile. Il silenzio coincide con il momento estatico, in cui “il soggetto si perde nell’oggetto” e non vi è più nulla da percepire. La poesia è forse l’unica forma espressiva che riesca a cogliere il nulla nelle sue forme: “regala luce carpita alla primavera”, “s’acquatta / nei buchi di vento”, è la “fiamma senza luce / di un (d)io evaporato”.

Mai come in queste poesie ci sembra di cogliere la trasfigurazione del reale che trapassa dall’immanenza soggetta al degrado all’instabilità; dall’insensatezza all’eterno, in cui agiscono ancora i dati percettivi, ma come transustanziati. Si traghetta da una realtà storica a una realtà poetica. Dunque, Iori non intende affatto liberarsi dalla percezione, ma la usa per modulare il “senso in forma di rosa”.


Poesia e filosofia sono, per Stefano Iori, “forme del dialogo” con l’ignoto. Esse si illuminano a vicenda nell'atto di relazionarsi col nulla: “attorno vibra / un riflesso / d’improvvisa forma”. È la forma-non forma di cui scrivevamo in precedenza, quella forma estensibile che accoglie, svuotando se stessa.

Per sua natura, il pensiero è contraddittorio, parziale e mentre definisce accumula scarti, non riuscendo a integrarli nelle sue definizioni concettuali. Tuttavia, si può ottenere proprio attraverso il pensiero un’apertura basata non sulle definizioni, ma sull’accoglienza degli estremi, ove luce e ombra, bene e male abbiano un “ritmo altalenante”, non espulsivo della controparte.


Se da una parte la poesia apre il varco, dà la possibilità di vedere al di là di esso,  dall’altra, la filosofia, legata al dubbio e alla meraviglia, regala la cognizione di non sapere. Dunque disporsi tra filosofia e poesia consentirà di sostare tra la meraviglia e il momento estatico, entrambe intensità irrinunciabili e complementari: vero e propria “onda di pensiero / filante in prodigio”. Tutto vi appare già smaterializzato e in grado di arricchirsi dell’essenza di entrambi i modi, quelli del pensiero e quelli del sentire. Si è così al cospetto di una poesia e di una filosofia impegnate ad accogliere la realtà e l’irrealtà, il noto e l’ignoto, il finito e l’infinito e pur anche il senso e il non-senso, in quella che è, di fatto, una trasformazione concretissima del nostro stare al mondo.


Si piega in fumo

il mito rigonfio

della padronanza


Il vizio di sapere

tace con garbo


nell’atto della muta


Ma c’è un rapporto particolare che lega la poesia al momento estatico, a quell’affidare il meglio di sé al divenire altro. La poesia è un fare che giunge fino alla “dismisura dell’invenzione” e in questo senso possiamo avanzare l’ipotesi che la meraviglia generata dalla poesia non sia legata al dubbio filosofico, ma che costituisca l’approdo a una coscienza diversa, che in maniera differente ritorni nell’“infinibile”. D’altronde, ogni onda nuova è ancora un mondo incompiuto.


Non vi è una risposta univoca a un quesito. La poesia stessa “muove risposte senza pretesa di verità”. La molteplicità delle soluzioni si colloca sulla spirale del tempo umano. Nessun risposta giunge dal Dio silenzioso che si sottrae e che, nondimeno, non lascia che, nell’umile resa, qualcuno resti privo del suo vortice, del “ritmo che verrà”. Per questo ci piace chiudere con un verso di Stefano Iori:


“Lottare con l’enigma / è ripido incanto”.


                                                                                                                    Rosa Pierno

lunedì 15 maggio 2023

Sergio Zuccaro “123.45. Memorie del cosciale”, 2022

 



È presto svelato il titolo così strano dalle stesse parole dell’autore, Sergio Zuccaro: “123.45, centoventitre punto quarantacinque megahertz è la frequenza radio usata dai piloti di tutto il mondo per le comunicazioni private. Oggi si direbbe una chat. Per invitare alla conversazione basta dire: unoduetre”. Zuccaro è stato tecnico di volo per trent’anni. E il volo è tanto concreto, per lui, quanto paradossale. Incredibili, a dir poco, sono le avventure, le circostanze, le follie che il volo consente: dagli incontri fulminanti agli eventi storici di cui si è involontari protagonisti, mentre ci si sposta per il mondo. Cogliere la complessità di un’esistenza così nomade e farlo con una immediatezza che anche nel ricordo non perde la sua fragranza è certamente azione mirabolante. Ma è in gioco anche un altro piacere, oltre quello proveniente dal ripercorrere i momenti così vari del proprio passato. Quello dell’azzeramento, del raggiungimento di quel grado zero della scrittura che vuol dire ricominciare daccapo e guardare la scrittura anche dal punto di vista del piacere estetico. Godere di tutti i suoi aspetti. Ancor meglio se la memoria vacilla, se la si deve reinventare, poiché allora la scrittura scivolerà e ripartirà ogni volta daccapo e, soprattutto, da un punto qualsiasi.

Con una memoria forata si può reinventare la propria vita, avere il tono meravigliato e sempre entusiasta di un bambino. La scrittura sarà semplice, lineare, con proposizioni essenziali, rispetto alle quali non ci sarà bisogno di tante disgressioni. Quando le cose non sono troppo artificiose anche la razionalità funziona, si applica senza resti, non è facile che inciampi. E se non si convoca alla tavola il commensale “razionale”, vi è sempre seduto quello “ironico”. Un’ironia leggera che sostiene tutta la scrittura. Con scene gustosissime, battute raffinate, delicatissimi camei che risultano burleschi per semplice accostamento di due situazioni o punti di vista diversi. 

L’attività della scrittura è l’oggetto di cui il testo parla, anche se è il volo il tema esplicito. L’autore denomina i suoi appunti “memorie del cosciale”, strumento di scrittura, usato dai piloti,  che si appoggia sulla coscia. Ma chi crede che fin qui Sergio Zuccaro abbia utilizzato una memoria indebolita o limitata deve subito ricredersi: “Ogni volta che a fine volo l’ho sganciato mi venivano in mente le parole di Omero: sfilando la daga acuta via dalla coscia. Per me era la conclusione, per Achille solo l‘inizio”. 

D’altronde, il solo confrontare i fatti della vita, le sue stranezze, con i pensieri paradossali della cultura greca (il ritardo del decollo a causa delle lumache che invadono la pista oppure il paradosso della tartaruga che mette in scacco il velocissimo Achille) mostra quale sia il gusto dell’autore, quello di una riflessione che partendosi dai quei fatti che definiremmo curiosità, gustose o sorprendenti, acquisisce tutt’altro sapore se paragonato alla potenza del pensiero. Che è poi la capacità di donare un senso a qualsiasi cosa. 

Che 123.45. Memorie del cosciale sia un metatesto è intuitivamente afferrabile sin da subito, ma dopo qualche pagina se ne precisa il senso: la legge di Murphy, (“se qualcosa può andar male, lo farà”), è applicabile anche a se stessa, quindi anche alla predizione catastrofica. E allora che cos’è la memoria se non un oblio fruttuoso; che cos’è la ragione, se non un’applicazione estrema; che cos’è la scrittura se non una registrazione da abbandonare?

Ma c’è anche una strana coincidenza tra passato e futuro. Non è singolare che alcune soluzioni trovate nel medioevo, siano usate anche oggi in ambienti tecnologici (si pensi al modo di liberare le piste dagli stormi di uccelli con due falconieri). A volte, anche con giocosi parallelismi, Zuccaro riesce ad inanellare cose molto distanti tra di loro. Ci si può riferire nuovamente a un cortocircuito tra pensiero ed epoche differenti. Non esiste il concetto di progresso nella cultura. Ciò che vale sapere per giustamente vivere è sempre la stessa cosa. Non è un attacco alla tecnologia, in fondo è essa che ci permette di volare; è piuttosto uno smodato uso delle aspettative future il bersaglio che lo scrittore sembra voler colpire.

Non a caso, Zuccaro è un patafisico, oltre che poeta, ovvero un seguace della logica dell’assurdo che fa riferimento a uno schema metafisico eccentrico, a una parodia della metafisica. La Patafisica è una sorta di scienza parallela che studia il particolare, le sue eccezioni per valorizzare tramite quest’ultime tutto ciò che la scienza esclude, il nonsenso, l’ironia, e naturalmente l’assurdo, componendo con esse un universo coeso, ma altro. L’enciclopedia del volo, così potremmo definire questa raccolta di piccoli testi, di una pagina o poco più, legati tra di loro dal tema del volo: una collezione che funziona come esempio di qualsiasi altra collezione o sistema, ma che fa accedere a un altro modo di considerare la realtà. Inezie, particolari apparentemente insignificanti sono in grado di dirottare gli eventi. Nulla deve essere scartato. C’è un ordine in ogni cosa, non quello usuale, certo! Ma un ordine che bisogna imparare a individuare.


La cosa sconcertante è che non vi è necessità di manipolare la realtà per confezionare queste sconcertanti descrizioni. La realtà è già non inquadrabile, sfugge a ogni razionalizzazione, rende stupefatti. E quando si dice realtà, si dice, qui, cultura, modi di vedere, di pensare diversamente. Da una stretta di mano troppo veemente scambiata per stalking a un prato non curato che rischia di svalutare gli immobili dei vicini, da qualche premessa accettabile da cui scaturiscono conseguenze inaccettabili a servitori che divengono predatori di quegli stessi turisti di cui sono le guide.

Il linguaggio usato da Zuccaro è piano, lineare, senza alcun tipo di artificio retorico, quasi per esaltare al meglio il dato nudo e crudo. Ma quale magia scaturisce da una realtà più prossima all’artificio della letteratura stessa! Non a caso, i Cronopios di Cortázar aprono le tende del caravanserraglio, tutto umano, di Sergio Zuccaro.


Rosa Pierno




lunedì 1 maggio 2023

Lucienne Peiry “Armand Schulthess. il giardino della memoria”, pagine d’Arte, 2022

 


La studiosa di Art Brut, Lucienne Peiry, propone lo straordinario giardino di Armand Schulthess, sito ad Auressio a pochi chilometri da Locarno, ma gli appassionati che intendessero visitarlo, non potrebbero vederlo. Il giardino è stato interamente distrutto dai suoi eredi, i quali si sono sempre disinteressati a lui, anche quando era in vita. Per fortuna, ci sono stati alcuni studiosi e artisti che hanno amato la sua opera e l’hanno seguita fin dai primi anni in cui è iniziata la costruzione del giardino, impiantato lì dove già crescevano viti e castagni.

Schulthess aveva una professione sicura che nel 1951 ha abbandonato per realizzare il suo progetto, a cui, d’altronde, stava lavorando già da alcuni anni grazie alla realizzazione di album (una settantina di libri da lui stesso rilegati) che contemplavano pagine di varia consistenza e provenienza: fogli di giornale, pubblicità, fogli di acetato, veline, pagine dattiloscritte e manoscritte; in una parola, la sua enciclopedia, la totalità del mondo conosciuto dalla particolare specola della sua collocazione geografica e temporale. I materiali con i quali produceva i suoi album erano spesso, dunque, materiali di recupero e l’assemblaggio aveva di mira la totalità. Qualsiasi cosa la società  producesse andava recuperata e conservata, a dispetto del suo risibile valore.

In realtà, l’idea centrale alla base del progetto di Schulthess era quella di una sapienza che riguardasse tutti gli ambiti della produzione culturale, escludendo totalmente la propria posizione identitaria, come dire, il proprio potere di scelta, di selezione dei materiali. Attento a essere esclusivamente il costruttore invisibile, il ragno che tesse la tela mirabile, l’inventore di una costruzione ingegnosa che sembra nata con le piante stesse e da esse stesse provenire…  Le piante, peraltro, crescendo, hanno sollevato le costellazioni dei dischi, di vinile o di carta o di plastica, sui quali Schulthess aveva registrato nozioni e frasi, dall’altezza degli occhi al cielo, fino a impedirne così la leggibilità. Credo che ciò non fosse sfuggito al progettista. La rovina dei materiali esposti alle intemperie (spesso foglietti infilati in buste di plastica, come unica protezione) non è forse un inevitabile destino di tanta parte della produzione culturale? Fare, fino all’ultimo giorno utile, sembra essere stata l’unica cosa che Schulthess poteva e sapeva opporre alla distruzione della società consumistica. La vita come indefessa volontà di costruire relazioni tra materie, concetti, forme e come tessitrice di reti fra elementi solo apparentemente estranei l’uno all’altro.


Dapprima egli utilizza i coperchi e i fondi dei barattoli, dipingendoli di giallo per impedire che la ruggine aggredisse la scrittura che lui depositava in seguito sulla pittura con un ferro da calza intinto nella vernice; in seguito, deposita direttamente le informazioni sulla materia. La calligrafia, precisa e semplice, spesso nomina soltanto, altre descrive. Lungo i declivi della proprietà di 800 metri quadrati che aveva comprato, e a cui negli ultimi anni aggiungerà almeno un altro ettaro, si dipanano, spesso in forma di costellazione, gli elementi del sapere secondo leggi di prossimità: scienza, astronomia, tecnologia, filosofia, chimica, botanica, sessualità, mestieri. A volte i cartelli contengono richieste di condivisione, di offerta dell’uso della macchina conoscitiva che lui aveva creato, ma di fatto il suo comportamento resterà sempre ostico alla relazione diretta con gli altri. Una sola persona, Ingeborg Lüscher, riuscirà a conquistare la sua fiducia: gli lascerà una volta a settimana materiali che Schulthess utilizzerà nella costruzione del giardino (rifiuti compresi) e sarà lei a portare nel giardino intellettuali e artisti. Grazie all’intermediazione di Daniel Spoerri faranno visita al giardino Muriel Olesen e Gérald Minkoff. Quest’ultimo scatterà le numerose fotografie che corredano il volume, riuscendo a salvare, dopo la morte di Schulthess, alcuni grandi assemblaggi di piastre manoscritte. Lucienne Peiry ha poi potuto utilizzare tale materiale per l’esposizione collettiva dell’Art Brut tenutasi a Locarno nel 2002.


La documentazione fotografica che Minkoff produce consente di conoscere una delle opere effimere, ma soprattutto meno conosciute, di cui si ha notizia, non solo attraverso la forma assunta dal progetto, ma anche attraverso l’individuazione dei contenuti.

Nel 1972 Schulthess cadde in un dirupo e morì. Nessuno riuscì ad opporsi alla devastazione del luogo operata dagli eredi con l’approvazione delle istituzioni.


                                                 Rosa Pierno 


venerdì 14 aprile 2023

Paolo Tesi “Pinocchio e il disincanto”, Bandecchi &Vivaldi Editori, Pontedera 2008

 


Pinocchio è un burattino, disarticolato, con quei magici snodi fra le membra che gli consentono di piegare gli arti come un essere umano non può; materia fra le materie, ha le venature lignee che creano sulla pelle un disegno che è un disegno nel disegno. Se è snodabile, é smontabile. Quando ha il naso lungo può assumere le sembianze di un uccello. Non potevano forse trasformarsi in animali gli dei? Proietta ombre ambigue, che, a loro volta, paiono animali. E forse Pinocchio è animale prima ancora d’essere persona. Ci conforta in questo non solo la presenza assidua, nella favola, degli animali, ma anche la lettura che Paolo Tesi fornisce, nel suo catalogo del 2008, Pinocchio e il disincanto,  Bandecchi &Vivaldi Editori, Pontedera 2008, con l’opera Ossessione, dove fra pesci e gamberi non sapremmo che vedere il perfetto connubio corporale dei corpi e degli occhi: indistinguibile la cesura tra Pinocchio e i pesci. Con quel meraviglioso blu profondo, presago delle interiora più ascose dell’acqua che può rapinare per sempre la visione di così turpe evidenza: quale distanza tra le materie?

Nell’opera Nascita, Pinocchio appare anfibio fin dalla sua “comparsa”: guizza nell’acqua, trasvola con ali puntute, si presenta a pezzi, si replica, si ricompone. Il burattino può sempre smembrarsi e questo è forse uno dei pericoli più temuti dai bambini, possessori almeno di un esemplare del burattino nella vita.

Pinocchio e lo stregone è solo uno degli alter ego del personaggio principale. Nel senso che il passaggio tra morale cristiana, magia, paganesimo è continuo, non si avverte nessuna cesura. E Tesi, che è interprete finissimo, ben lo denuncia quando fa nascere i personaggi secondari da quello principale, ossia dalla sua ombra, diversamente ricomposta. Gioco di tessere, puzzle mimetico, ove ogni cosa assume il valore di un’altra. Ma proiettati sono anche i segni: le fibre lignee divengono la tessitura dello stregone.

Nella raccolta intitolata Pinocchio e il disincanto, le opere, dal 2002, sono costruite in maniera più complessa. Anzitutto perché l’artista strappa i vecchi manifesti scrostati dai muri e, approfittando della loro patina e delle increspature e scrostature, dà alle sue rappresentazioni un tono circense, variamente pigmentato grazie all’utilizzo degli inchiostri Ecoline, che con il loro carattere trasparente partecipano alla sovrapponibilità  delle figure. Pinocchio è sempre un personaggio plurimo: materia, materia animata, anima. Senza lasciare sottaciuta quell’imbarazzante osmosi senza soluzione di continuità che è il passaggio tra bene e male. Quale bambino, e persino adulto, non vede che sono legittimi i desideri di evasione dalla scuola, di partecipazione senza fine alle giostre, di arricchimento personale, di adesione ingenua alle menzogne raccontate dagli altri e di bugie. Se male deve essere, sarà piuttosto in quella società, dove gli animali prestano i loro volti solo per realizzare ritratti caricaturali del giudice, dei carabinieri, dei dottori. La società è simbolizzata da Paolo Tesi proprio tramite l’utilizzo dei manifesti staccati dal muro, simboli di una società consumistica e obliante, che supera i propri valori edificanti per inseguire mode insignificanti. Gli inchiostri, dunque, non ricoprono, piuttosto evidenziano la verità del sostegno, incerto e mercificato, sulle quali le figure si addensano. Fantastica la grana dei pixel della tricromia con la quale sono stampati i manifesti che già da sola attualizza la favola di Collodi, dandole un viraggio sinistro. E acidi sono pure i colori: dall’arancione, al fucsia, al rosso, dove il giallo appare intermittente (Manifesto, 2002). Vi sgambettano persino gambe o aste di lettere che rimenano alla memoria le prove della poesia concreta, degli anni addietro. Tesi ci tiene ben piantati sul valore artistico dell’opera, che inizia appunto con la ricezione del significante principale, per poi proseguire con i valori dell’arte per l’arte. E forse non è Combattimento, un richiamo ai segni a tridente di Capogrossi, con quei colori falcidianti, stridenti del gruppo di Forma 1? Un viaggio, dunque, compiuto da Tesi nella favola di Pinocchio e contemporaneamente nella pittura della seconda metà del Novecento. Sarebbe ancora una volta, la forma scomposta e ricomponibile in mille modi, quell’alfabeto o abaco con cui si può ricostruire ogni frase e ogni cosa. Splendida  anche l’immagine di Inquieta attesa, del 2007, dove le formelle s’incastrano o si replicano in un passaggio altrettanto indecidibile tra figurazione e astrazione. E nell’accanita prorompente forza creativa di Tesi non si vorrà mica perdere la decorazione, l’altro corno del dilemma rispetto alla falsa antinomia costruita tra artista e illustratore. Apocalisse, del 2007, è un vero e proprio arazzo cromatico, che raggiunge le dimensioni di cm 210x 320: vi si riconoscono il Pinocchio-lumaca, il Carabiniere che taglia le altre figure in diagonale, come fosse un’ombra che si staglia minacciosa e incombente su quel povero diavolo di Pinocchio che ne passa di tutti i colori. E poi il pinocchio-gallo, il Pinocchio-granchio, con quelle strane assunzioni sullo sfondo che predicono i contrappesi delle trivelle o delle falci e martello. 

Come non intravedere in Sacrificio, del 2007, il soffitto mantovano delle costellazioni seppur restituito in ocra. È appena un sapore quello che Tesi sa suscitare nei suoi attenti riguardanti. Se ne La notte degli assassini, si sente un retrogusto di Blake (Dio che soccorre Adamo avvolto dalle spire del serpente), in Abbecedario, entrambi del 2007, si ravvisa La danza di Matisse. E amerei citare anche Rousseau il Doganiere per Pinocchio e il disincanto 1, con la folta verzura in cui si nascondono le molte anime del burattino. O il Braque nella Rosa dei venti, 2008, con un Pinocchio visto da tanti punti di vista, ricondotti all’unità cubista. Ma perché fermarsi, si scorgono Soutine, Boccioni…a mostrare la straordinaria capacità di Tesi di ricordare ciò che fa suo per lo scopo che si è prefisso. Come non sentire gli echi di Lucini per le linee spiraliformi e di Tadini, per i colori primari, in Piccolo sogno, del 2007? Davvero rileggere la storia del burattino più famoso del mondo con un occhio sempre attratto dalle soluzioni della pittura è qualcosa di straordinario! Ma naturalmente non si potrà mai disconoscere la mano di Tesi, che sa rigenerare i linguaggi nel suo e piegarli alla fabbrica delle proprie opere. Quasi un novello Vulcano in una fucina d’immagini! Sarà che queste memorie di sottofondo echeggiano come quelle che si percepiscono leggendo la favola, la quale richiede un costante parallelismo con la realtà per essere compresa in tutti i suoi risvolti.


Nella serie del 2008, il colore si fa più squillante, il segno più vorticoso. Le opere a inchiostro su carta costruiscono tarsie col pigmento, ma è il segno a presentarsi come metamorfico, le piume del tacchino sono palme o giardini lussureggianti, Pinocchio va a gambe all’aria, anch’esso ridotto a figurina, su un piano esclusivamente bidimensionale. L’uccello si spiattella in repliche di sé, mentre in Soggiogato, lo sfondo sprofonda in pozze di blu più denso e ciascuna piuma dell’uccello è echeggiata dall’umbratile presenza del carboncino nero, così che l’immagine si offre in multipli piani.

Se il colore stride come farebbero piani metallici in cozzo, il dinamismo si fa più serrato e ansioso. Le due immagini speculari di Parabola offrono la ricaduta nell’animalità da cui l’essere umano crede di essere uscito, ma che in Pinocchio trova un monito.

La serie del segno, vede Pinocchio ritratto a carboncino, nelle sue contorsioni e crocifissioni, nella mimesi della morte coi conigli o a cavalcioni di pesci e in compagnia di granchi. Certamente la lunga carriera da incisore dell’artista gli consente l’uso di plurimi linguaggi con una maestria altrettanto mirabolante che le vicissitudini del burattino. È un segno che reclama spessore, che presenta marche e discontinuità. Un segno che raccoglie spazio e scava sulla superficie della carta. Per Paolo Tesi il meno che si possa dire è che è un artista favoloso!


Rosa Pierno






giovedì 30 marzo 2023

Infiniti di Piero Varroni, presentato da Mughini, Pierno, Pignotti e Vasta presso la Galleria d’arte moderna di Roma Capitale, 23 marzo 2023


Infiniti è uno dei libri d’artista realizzato nel 2022 da Piero Varroni, artista e curatore delle edizioni EOS. Sulle sue pagine si rincorrono immagini sulle quali scorrono novantanove verbi all’infinito, modo verbale indefinito. Iniziamo dal titolo: Infiniti è un paradosso, poiché coniugato al plurale. Concetto irrappresentabile, ancor di più se considerato sotto l’aspetto della molteplicità, poiché  indicherebbe che ogni infinito può essere considerato una sottoclasse dell’infinito che li contiene, facendo diventare così una sua porzione qualcosa di finito. Paradosso che potremmo estendere al concetto di vita,  per quell’arco di esistenza che si compie dalla nascita alla morte e per la vita infinita che si replica in ogni essere vivente. Sono proprio i due verbi ‘nascere’ e ‘morire’ a iniziare e concludere la narrazione che ha luogo nell’opera Infiniti.  Essi sono inframmezzati da verbi che si riferiscono alle sfere della percezione, del pensiero, dell’emozione. Ogni parola diventa una pausa, richiede una stasi su una voragine. La pagina orienta un’esperienza, la suscita. La parola-boa invita a riflettere; costringe a chiedersi che cosa quel modo indefinito del verbo voglia dire per colui che lo sta recependo, lo sta valutando e soppesando.Tuttavia, va anche indicato che, nell’operazione linguistica in esame, non si tratta di significare qualcosa, quanto di compierla. È la nozione di performativo che ha la meglio su quella di analogia. L’immagine-sfondo è anch’essa un paradosso, poiché è chiamata a rappresentare un infinito, tutto giocato sulle variazioni. Uno sfondo senza margini, privo di centro, che appare motile, trascorrente, grazie ai pigmenti che si mescolano indefinitamente. Dico immagine-sfondo, perché essa è anche il fondale sul quale sono scritte le parole ed è uno sfondo d’assenza. Su tale sfondo le parole sono segni che si dislocano sulla griglia della pagina secondo un ordine spaziale; non sintattico, ma mallarmeano.

Infiniti impone, dunque, una procedura temporalizzata in più fasi; il tempo della visione e il tempo della riflessione sul significato di ciascuna parola. Si tratta però di un processo pur se si costituisce in un libro, ossia in uno specifico medium, non deve tentarci dal trarne una sintesi unitaria, ossia una descrizione sincronica. Vi sono, appunto, tempi differenziati. Il tempo della visualizzazione, con l’occhio che vagola sulla superficie, fermandosi a ogni evento, e quello lettura della parola, con il suo nero peso che sfonda la profondità semantica. Due tempi, che, nella sequenza delle pagine, si ammagliano e si stringono in una catena indissolubile: la divisione si cicatrizza e la ferita si riapre. L’indiscernibile colore del luogo circostante, quando si visualizza l’annerita parola; la percezione della parola come dettaglio visivo, quando si osserva l’immagine colorata. Il fruitore percepisce che verbale e visivo coesistono senza fondersi e, a tratti, invece, paiono fusi insieme, in un processo inestinguibile.

La simmetria creata dalle forme pigmentali ottenute ripiegando il foglio, prima che l’inchiostro si sia asciugato, determina più facilmente la visualizzazione analogica di figure organiche (somiglianti a una colonna vertebrale e a una libellula con le sue vitree ali, comprese tutte le figure intermedie che si generano fra questi due estremi): non a caso sono le pagine che recano le parole ‘esistere’, ‘essere’, ‘vivere’, ‘abitare’, ‘camminare’. Via via che si procede nella lettura, le parole subiscono una simmetria inversa nel senso che esse si allontanano sempre di più in senso verticale, oppure si avvicinano, equilibrandosi come sui due piatti di una bilancia. Il demone dell’analogia, pertanto, riaffiora a ogni foglio, mostrando la sua potenza genealogica di memoria sprizzante con la forza di un fiotto d’acqua. Tale libro si oppone al concetto di monade, se è vero che ogni pagina presenta un atomo di significazione e di figuratività insieme. Tuttavia le pagine non sono scollegabili e il senso prolifera dal loro susseguirsi. Appare maggiormente adeguato al presente libro d’artista fare riferimento a un pensiero visivo che sovrasti e inglobi l’intero costrutto verbale e visivo. 

Nella pagina si assiste a transiti illusionistici tra tonalità di colore: dalla tinta del foglio, che costruisce il fondo del pozzo, ma appartenente a un regime diurno col suo bianco accecante, irruttivo, fino all’ultima superficie stesa sugli strati precedenti, per converso, quasi una stratificazione notturna. Occhielli e fenditure si aprono tra le differenti stesure: tra la soggiacenza del bianco che si coglie attraverso le smagliature del colore sovrastante e le velature completamente coprenti del grigio-notte, che come bende occludono qualsiasi ferita. Solo alcune tenui labilità traspaiono, ma quasi per il gioco della mente che conosce le precedenti pagine e lacera lo strato che occlude, mentre l’ombreggiatura atmosferica invade e acceca; obnubila, e getta la sua sinistra ombra sulle parole già nere. L’ultimo strato di pigmento presenta la sovrimpressione di elementi che vi hanno lasciato orme, tratteggi, brani di lettere alfabetiche. Come a dire che la parvenza della scrittura si insedia anche laddove non ce lo si aspetterebbe. Sicché vari sono gli avvenimenti di tali superfici sovrapposte: non vi è semplicemente un trattamento del piano che lo sguardo incontra, ma si tratta delle qualità che attraversano le superfici, che le infilzano e, con un colpo di coda, le squarciano.

La divisione tra aspetto materico del lavoro ed effetto cromatico fa sentire la sua concretezza. Se la trasparenza inerisce anche alla carta, alla sua porosa, spugnosa consistenza, nel gioco delle parvenze, anche i colori si compenetrano e si riflettono l’uno nell’altro pervenendo all’inconsistenza. Trapassi cromatici sorpresi attraverso un diafano dedalo di minimi rilievi. L’ultima stesura ha l’effetto di una cancellazione della luminosità nascosta, interna, anziché proveniente dall’esterno dell’opera. Si vede la superficie della carta non coincidere con il suo rivestimento cromatico. Il colore non è depositato sulla superficie cartacea, ma effettua un gioco sui limiti delle diverse stesure, facendole vacillare nello spazio e scivolare di piano in piano. La superficie coincide con il rivestimento della pagina, ma il visibile emana bagliori fin dalla originaria nudità della carta. 

Il pigmento disciolto nell’acqua impregna le barbe della carta, rendendo instabile il confine delle forme e creando una figura inquieta, agitata dalla successione delle velature. La pagina, sottoposta a piegatura, serrata in un fascio di altre pagine, si moltiplica in un abisso di visioni, sempre diverse, eppure prive di soluzione di continuità. Le pagine accolgono le colature di colore, che, aperte e richiuse, in fase di realizzazione, producono un ordine nel disordine. Quando occhielli si slargano, si scorgono i colori sottostanti e persino il candore della pagina; si notano sovrimpressioni di bianco puntinate che fingono i colori dei primi strati, ma in realtà costituiscono l’ultimo strato pigmentale. Vi sono pieghe mimate dal colore che sembrano bende. Tasche sono evocate dalla campitura di un grigio più chiaro, il quale non ricopre in maniera omogenea, ma lascia striature. In altre pagine, le asole restano azzurre. Il grigio si presenta, dunque, come un vestito elastico con fori oblunghi. ‘Conoscere’, ‘diventare’, le parole non sono neutre. Le lacune sono riempite con un grigio più scuro, che appare come una cicatrizzazione della texture ferrosa. Si riconoscono i punti dell’inchiostro e lo spennellamento del colore in altre aeree: l’intera liquida superficie si muove sotto lo sguardo. Lo sfondo oscilla per dare un senso alla variazione semantica delle parole: ‘cercare’, ‘comprendere’, ‘divenire, ‘appartenere’: anch’esse variano impercettibilmente; lo scarto, dunque, sembra minimo sia nell’immagine sia nel significato delle parole. Fra ‘scrivere’ e ‘segnare’ si apre uno iato che ingloba l’immagine. Mentre tra ‘decidere’ e ‘scegliere’ la sinonimia non segnala differenze di grado semantico, né, pertanto visive. Tra ‘parlare’ e ‘tacere’ c’è la massima distanza possibile.

La penna circoscrive le piccole aiuole d’inchiostro fiorito, crea organismi con mobilissime ciglia, ovuli, la cui chiusura con l’ambiente è apparente, osmotica. Verbi più condivisibili come ‘divertire’, ‘sognare’, ‘permettere’, ‘aiutare’ determinano l’accentuazione delle aperture che lasciano respirare il luminoso azzurro che sgorga dai cirri del colore. 
La parola manoscritta indirizza verso una interpretazione biografica, ma è la biografia di un essere umano con valore universale.


                                                                                           Rosa Pierno




lunedì 13 marzo 2023

“Una poetica sincerità”: Marco Furia sul libro di Armando Bertollo “Volumi immaginari”

 


Volumi immaginari”, di Armando Bertollo, si presenta quale opera verbo-visuale schietta e immediata nel suo elegante dinamismo.

Si avverte una sincera propensione al frammento e, nello stesso tempo, una non meno autentica tendenza al dire: una sorta di originale, specifica, narrazione si svolge pagina dopo pagina nutrendosi di schegge linguistiche e di linee spezzate capaci di sviluppare delicate ma intense energie.

Viene da chiedersi: dove siamo o, meglio, dove stiamo andando?

Quesiti che paiono perdere significato e contemporaneamente riacquistarlo in maniera nuova e profonda.

Cito dalla nota di Silvia Comoglio:

 

“Pagine dove la densità e la profondità della parola, il suo volume, fuoriesce dal proprio perimetro per dilatarsi e rifondarsi in immagini e segni”.

 

Avvertiamo di non essere invitati a partecipare a un viaggio a ritroso verso le origini (storiche o esistenziali che siano), bensì ad accogliere un’inedita forma comunicativa nel cui sviluppo, senza dubbio, le regole logiche sono disattese ma il senso (vorrei quasi dire il senso del senso) non fa difetto.

“Volumi immaginari” è un’opera che desidera parlare al lettore, rivolgendosi a lui secondo partiture idiomatiche e segniche precise quanto aperte: è proposto un dialogo non un semplice approccio.

Il discorso si spezza e dai suoi frantumi emergono illuminanti tratti comunicativi: il Nostro non pare un autore disincantato o, peggio, disperato.

Da dove nasce questo suo atteggiamento?

Dal ritrovarsi nella condizione d’esprimersi in maniera sincera e originale, certo, ma anche, forse soprattutto, da attente, profonde, analisi che riescono a farsi significativo, complesso, gesto artistico.

Quanto a noi, chiuso il libro, ritorneremo alla consuetudine del linguaggio-vita di tutti i giorni come se nulla fosse accaduto?

Le coordinate che regolano la nostra quotidiana esistenza ci sembreranno rigide, costrittive, o, piuttosto, ci appariranno paradigmi modificabili, variabili, esposti alla nostra umana creatività?

E ancora: ciò che è definito frammento secondo quali canoni è ritenuto tale?

Armando risponde proponendo già da ora un diverso contesto nel cui àmbito pare aprirsi la possibilità di fare esperienza di ciò che davvero siamo: il futuro anche più prossimo non è dato, poiché tocca a noi accettare vecchie trame o costruirne di nuove.

Ci accorgiamo, allora, di partecipare ad artistiche dimensioni comunicative che non si limitano a mostrare mondi differenti, bensì consentono, superando confini, di riuscire a vivere una condizione non più soltanto pensabile.

Il tutto per via d’una stilistica compostezza, quasi noncurante, propria di chi ritenendo di avere qualcosa da dire con franchezza lo dice.

Mi pare non si possano citare brani di questo testo senza riprodurre almeno un’intera pagina, credo tuttavia che l’autore mi perdonerà se riporto alcune sue parole:

 

“in un impasto

 

 

                        di

                            piccoli

                                        caratteri

 

 

                                                                      mobili…”.

 

Parole accanto alle quali, non a caso, scorrono line continue e frammentate …

 

 

                                                                                                            Marco Furia

 

 

Armando Bertollo, “Volumi immaginari”, Anterem Edizioni, Verona, 2022, pp. 47, euro 12,00


lunedì 27 febbraio 2023

Claudia Quadri “Infanzia e bestiario” Edizioni Casagrande, 2022

 


Claudia Quadri, nel suo ultimo testo letterario, Infanzia e bestiario, Edizioni Casagrande, 2022, crea sulla pagina una tensione tenace, pur preannunciando accadimenti di poco spessore, come quelli che si registrano durante le passeggiate con il proprio cane, costruendo la sua pagina indiziaria con grande strategia. Non fosse altro perché qualcosa si trova sempre, a ben guardare, e questo qualcosa, in letteratura, coincide con una costellazione di metafore, in questo caso, sapientemente articolate. Si producono, difatti, alcuni subitanei brillamenti nel cervello del lettore quando si accostano cose distanti e si sa che le metafore tanto più funzionano quanto più i fatti paragonati sono remoti. Quando c'è uno sguardo indagatore sensibile, curioso, attento, si comprende che le cose sono parte di una totalità. È questo il cuore del libro. Saper guardare è saper comprendere, anche la vita delle tartarughe che sono così diverse da noi. Le grandi questioni morali, politiche, storiche in cui siamo immersi, non hanno maggior peso delle percezioni e dei pensieri della nostra vita quotidiana. Perlomeno non si deve recidere il legame tra queste e quelle per saper comprendere entrambe le scale. Che forse, appunto, appartengono alla medesima scala.


I ricordi che provengono dall’infanzia hanno la medesima vividezza del presente. Ma più che l’infanzia, generatrice perenne in Claudia, che fa della franchezza e della irriverenza il suo punto di forza, è il bestiario a guidare le riflessioni, giacché l’autrice non saprebbe, per sua ammissione, vivere senza un cane. Vi è compromissione tra ambiente umano (che è artificiale e naturale insieme) e ambiente in cui vivono gli animali a vario titolo, il pappagallo nella gabbia sul balcone, il cervo che s’imbatte nella rete della Croce Rossa, il serpente vero e quello di plastica, le tartarughe del giardino, i cani degli altri.   L’affresco è promiscuo, ma non si può rinunciare ad esso, pena la perdita di parti essenziali della propria individualità. Senza la presenza degli animali che mondo sarebbe? Perderemmo la capacità di sentirci immerso in esso, di appartenere a un ecosistema, di avere il polso dei nostri limiti e delle nostre risorse. Ci sono persone che hanno perso questa capacità  di condivisione; le si riconosce dal loro aspetto di “polimeri resistenti”; la loro pelle è simile alla plastica compatta delle bambole, senza macchie, senza i segni del tempo, impenetrabili e incomprensibili.


L’infanzia è, comunque, uno snodo ineludibile: soltanto rispetto a essa l’esistenza può smarcarsi dall’ordine imposto e può rinserrarsi in più ragionevoli ranghi. E più l’infanzia è stata libera e senza costrizioni, più sarà capace di funzionare da deposito inesauribile per la vita a venire. C’è per Quadri uno iato incolmabile fra le due età. L’infanzia gioca allo svelamento, alla scoperta del mondo (della propria isola, stanza o balcone che sia) fino alla fascinazione, alla sfida alla morte, che fa abbandonare i comportamenti prudenziali, con la volontaria deroga rispetto alle regole. Essa costituisce il vero trofeo che tutta l’esistenza guadagna per sempre. È in quei territori dell’invenzione e della sfida che l’individuo si forma. E se si ha un cane al proprio fianco, non manca nemmeno il compagno necessario al perfetto svolgimento della fantastica avventura esistenziale. 


Il gioco fra repulsione e fascinazione è uno dei perni intorno al quale l’infanzia dipana la sua rete, e gli animali ne sono ancora i soggetti prediletti: le lumache imprigionate sotto un’insalatiera, ustionate dal sole, i mosconi schiacciati a colpi di giornale arrotolato… mentre, durante l lettura del libro, scorrono i titoli dei libri per l’infanzia che sembrano replicare le marachelle o le scorribande vissute dalla protagonista (La mia famiglia e altri animali di Durrel, Il Barone rampante di Calvino). Le malafatte provocano un senso di pentimento del tutto funzionale all’attività conoscitiva. Da adulta, Claudia non taglierà l’erba del suo giardino al fine di poter vedere lucciole e lumache, passeri e calabroni; non potrebbe altrimenti osservare le lucciole strabiliarsi per la luce emessa dal suo cellulare. Potrà recuperare il giudizio negativo sulla nonna, giudicata con irriverenza, ma poi compresa in quelle qualità che l’hanno resa indipendente. Insomma, l’infanzia non come una terra intoccabile, ma come un progetto a cui ridare un senso prospettico più ampio, più ricco e complesso, rispetto a quello pregiudiziale, sfrontato, riduttivo messo a punto nell’infanzia stessa, quando giunge l’età matura. C’è come un senso di ciclicità che si riattiva tramite la riemersione del ricordo nel presente, qualcosa che da lontano riverbera la sua luce, illuminando ciò che è immanente. Il serbatoio mnemonico consente di reinterpretare una continuità che altrimenti sfugge.


Non sarà allora che un continuo ricamo da effettuare con gli occhi, percorrendo le valli, le acque, il selciato, le facciate dei palazzi, i declivi boscosi, i fianchi delle mucche, le orme del cane, gli avvenimenti infimi, gli oggetti che dal passato riapprodano nel presente. Il linguaggio è preciso, ricco, atto a restituire le sensazioni più labili, i pensieri più difficili da scorgere, simili a pesci che nuotino sotto il velo dell’acqua. Lo sguardo collega ciò che vede e ciò che sa.  Claudia Quadri interpola e disegna sotto il nostro sguardo, la zona della Capriasca, un angolo del Ticino, eppure  il centro di un mondo condiviso con i suoi lettori.


Rosa Pierno



mercoledì 15 febbraio 2023

Marco Palladini Via memoriæ / Via Crucis (tra il poetico e il politico), gattomerlino edizioni, Roma, 2022

 


Le poesie presenti nella raccolta sono state scritte dal 2015 al 2022 e, anche se presentano ciascuna uno stile diverso, sono strettamente connesse sul piano della riflessione esistenziale e politica di cui la poesia è scaturigine. Espressione creativa. Immemoriale è il linguaggio nella stratificazione giunta fino a noi: gli autori citati nella silloge di Marco Palladini, Via memoriæ / Via Crucis (tra il poetico e il politico), personalmente conosciuti o semplicemente letti, hanno ricevuto la staffetta, e ora possono a loro volta rilanciare, creando il proprio stile. L’azione letteraria è complessa e mobile, pesca in profondità, non astrae, cesellando e idealizzando, ma sommuove il terreno, fino a rovesciarne le zolle, riportando alla luce del sole le sue parti ascose. Dunque, è proprio attraverso il rapporto diretto con i rappresentanti di una cultura condivisa che Marco Palladini inizia la propria riflessione a consuntivo di una stagione sperimentale, quale è stata quella del Sessantotto, nella silloge Via memoriæ / Via Crucis (tra il poetico e il politico). Naturalmente, il poeta ridefinisce i concetti in base alla personale esperienza. Così  si vedono fioccare le prime definizioni: <<Il senso è la vita, se solo sapessimo che vita è>>, poiché appare come non-vita. Se diamo senso alla vita anche con il linguaggio, il linguaggio stesso può apparire come non-senso. Ma subito Palladini corregge la rotta, è il poeta che addossa ai valori di scambio e alle parole-merci il disastro della mancanza di valore. Il linguaggio appare, così sotto una giusta lente: strumento malleabile, da non colpevolizzare. È pertanto un affidabile compagno per ravvivare la memoria degli amici sodali oramai scomparsi, da Valentino Zeichen a Blanchot, da Balestrini a Céline, in un collage di voci rivissute tramite la propria soggettività. La memoria stessa è  un fatto linguistico. Si pensi al titolo di un libro di Sanguineti, Laborintus, che diventa: <<Dal nostro laborinto usciva un preciso punto di vista>>. Per coloro che scrivono, la coincidenza tra letteratura e vita è già data, non va cercata distruggendo la letteratura come voleva Marinetti. Anzi, il linguaggio consente meravigliose acrobazie. Ad esempio “surfonemi phonofluenti”, “mimodeclama”, “mundiloquio villadromico”.


Marco Palladini riconosce ai poeti visuali, ad esempio ad Arrigo Lora Torino, la consapevolezza di una poesia in liquidazione, quasi uno scoprire le carte sulla certezza che certi lavori non avrebbero sortito l’effetto sperato. Palladini riconosce che, oggi, anche i poeti <<sversati reclamano una concreta bio-eversione>>. Dinanzi all’onestà intellettuale degli intellettuali che speravano in uno scatto di visione, sebbene variamente graduato, ora, sembra esservi soltanto il tempo della resistenza memoriale, la conservazione di quei testi che si scorrono con la medesima convinzione di chi li ha scritti, ma che è già messa in discussione da chi sta per restituire a sua volta la staffetta ridendo, come se si trattasse di un’operazione inutile. Tuttavia, svalorizzare il linguaggio vuol dire non poter più nemmeno descrivere, nemmeno essere testimoni, come accade, invece, nella poesia La madre di tutte le bombe, nella quale esplicito è il potere di denuncia, nostra arma potentissima, irrinunciabile.


La frequenza degli acrostici tautogrammatici (che riportano tramite le prime lettere di ciascun verso il nome del poeta a cui la poesia è dedicata) pesca in una lunga tradizione. In Appartenenza, dedicata a Mario Lunetta, la lettera iniziale è sempre la stessa per ciascuna parola di tutto il verso e mostra una grande attenzione al ritmo, mentre in altre poesie è volontariamente rilasciata, con una tendenza prosastica che usa la lingua nelle sue plurime valenze, da quelle maggiormente articolate a quelle maggiormente utilitaristiche. Quasi la tendenza opposta riconosciuta a Lunetta e a quella sua “antiretorica avanguardia”. 

In siffatto crogiolo, il lettore acquisisce la consapevolezza che certe valutazioni sui risultati, su una stagione di lotte culturali, non si disperde nell’irruzione contemporanea di una ricezione non permeabile, ma si posiziona all’interno di una riflessione che comprende quella fase passata e il suo passaggio in questa contemporanea, compreso il versante altro, estraneo, rivendicando l’esperienza oggi maturata e non perdibile.


Non ci si lasci ingannare sugli ideali dissolti di una generazione che aveva creduto senza difese nei propri ideali e che ora non mostra più nemmeno una capacità resiliente. Alle sue spalle sembra, infatti, veder scorrere il video di un outlet nel weekend. È semplicemente uno dei modi che la cultura odierna ha di rappresentare se stessa: uno scorrimento privo di spessore. Che pertanto, non rappresenta la stratificazione dell’esistente, ben più ricco di fermenti, pulsioni e spinte innovative. I poeti, oggi, non sono una specie estinta. È Palladini stesso a rivendicare con forza questa ineludibile verità nella poesia Ballata del Sessantotto mai ri-trovato o semplicemente dissipato, nella quale, accanto alle spinte per modificare i rapporti fra mondo operaio e capitalismo, egli riscontra un equivalente fenomeno di deculturalizzazione della società. Non semplice è la restituzione del ventennio di lotte, rispetto al quale vanno abbandonati certi schemi meramente contrappositivi. In tale poesia, tre puntini si susseguono all’incirca ogni tre righe, a tratti fratturando il verso, così come fratturata è la visione presa tra fatti ed elaborazioni culturali ricchissime (Foucault, Deleuze, Debord, Pasolini). Ciò testimonia di sicuro, e non per l’impossibilità di trarne un consuntivo, che la molteplicità delle voci, delle partecipazioni, delle esperienze, ha prodotto qualcosa di ineludibile, che non può essere sussunto nella soluzione di una contraddizione. E per non risultare troppo criptici, si pensi alla questione sollevata da Pasolini che <<difendeva i celerini contro gli studenti figli di papà…>> oppure sulla questione: <<la violenza è rivoluzionaria o reazionaria o tutt’e due?…>> o <<le armi della critica sono un preludio alla critica delle armi?…>>. E questo è appena un florilegio delle questioni aperte dal Sessantotto, ma per venire al problema più strettamente letterario, Palladini ricorda la lotta tra autonomia ed eteronomia dell’arte, <<Fare il Sessantotto e fare la critica al Sessantotto>>, il pensiero plurale e la tensione biopolitica. O la ricerca di una diversa estetica letteraria, esplicitata in tutte le sue forme (visuali, fonetiche, cinetiche, ideografiche; in particolare, le iconescritture, sotto l’egida di Adriano Spatola.

In questo repertorio che sembra disegnare la crisi stessa, non lontani sono gli echi di un pensiero che poi deflagrerà nell’attuale <<stile di vita tra gioia e sovversione>>. Insomma, parrebbe che il Sessantotto abbia scoperto il mostro, mentre effettuava la liberazione dell’umano. Ma è pur vero che la <<bruciante passione il Sessantotto, che non ha conclusione>>. Apparendomi questa la migliore definizione che se ne possa dare. 


Si registra nella raccolta la presenza del teatro, sia attraverso i nomi di alcuni attori, sia attraverso alcune partiture poetico-teatrali composte da Marco Palladini per Emilio Villa. Sono cut-up che ricostruiscono certune esperienze post-avanguardistiche, rimarcanti le profondità anche trasversali dei codici linguistici tecnici e delle lingue straniere. Non si dimentica certo che Palladini è prolificissimo autore teatrale.

Voglio sottolineare che il prelievo, nella poesia Suppergiù nel mistilingue Poetodromo, che così mirabilmente dà l’idea del palcoscenico simil-circense in cui il poeta esercita la propria attività comunicazionale, si disegna nell’ultimo verso: <<Accogliere una scrittura che non salva ma conosce il mistero ermetico-soterico>>, gemello di quel verso: <<così l’inizio della Fine equivale alla fine dell’Inizio?…>> che dalla cultura mistico-ebraica risale lungo i declivi mallarmeani e avanguardistici, con Villa in testa. È un concetto che ritorna più volte nella silloge: <<è un movimento di libertà assai problematico / che collassa infine nel suo precipuo contrario>>, ma ciò non costituisce la summa finale di ciò che è problematico, è solo un asserto tra i tanti. Lo testimonia quella lezione che Palladini trae anche da Giorgio De Chirico con quel <<sacro che si riflette nel quotidiano>>: la polemica è verso quei paradossi che sorgono da una impostazione, sempre oppositiva, quali quelli che hanno luogo all’interno della cultura dialogica occidentale.

Forse, come confessa il poeta, seguendo Beckett, una certa stanchezza anche nel fallire di nuovo, nel fallire ancora meglio, oggi si coglie e, nondimeno, sorge la speranza che le energie per migliorare la società possano ridestarsi, almeno per la parte che riguarda la creazione delle differenze, fossero pure utopiche, con l’esistente già dato.

In Cent’anni di comunistitudine, la distanza tra riflessione filosofica e poesia si acuisce formalmente, giacché il movimento del pensiero ha la meglio sulla componente ritmico / sonora. È davvero notevole, la capacità della malleabilità del linguaggio nelle mani di Palladini.

Opporre, oramai lo posso affermare in consuntivo, un linguaggio mobilissimo, atto a non cadere negli anfratti di ideologie a causa di definizione irrigidite, consente di tastare sempre il polso della situazione, della propria vita e dirigersi, anche contro le onde, dove si crede si debba andare, naufragio non escluso.


                                                                                         Rosa Pierno