domenica 15 settembre 2019

Stefano Iori “Lascia la tua terra. Sinfonia del congedo”, Fara editore, 2018


Partiamo dal titolo Lascia la tua terra per comprendere il senso metaforico dell’invito al viaggio che Stefano Iori ci propone. È un viaggio che si compie tramite scrittura: solo con essa vi è l’evidenza delle tappe raggiunte o degli errori commessi, dei vicoli ciechi del labirinto, delle ascese e delle visioni fantasmatiche. Non che la scrittura sia strumento necessario e sufficiente, bastevole a ideare, costruire o intraprendere il viaggio interiore, che è spesso  da effettuare lungo una via ostruita, ossessivamente ricercata, sfuggente. Lo stesso vale per la ragione, la quale viene fortemente relativizzata, lasciata sulla scena solo perché, se esclusa, risulterebbe, per contrasto, troppo preminente. In fondo, assieme alla scrittura bisogna dapprima dimenticare tutto ciò che la scrittura trasporta per affrontare senza zavorre il percorso agognato. Il paradosso, probabilmente, non può essere risolto e Iori non offre nessuna facile soluzione che annulli uno dei rami del problema. Tuttavia – afferma l'autore - dal percorso di Lascia la tua terra non può che trapelare qualche spunto per il lettore che tenti di reinterpretare il paradosso in questione, rileggendolo alla luce della carezza che si genera nell'incontro tra voce (del pensiero) dell'autore e voce dell'anima, quella di chi scrive e quella di chi legge. Entrambe, in modo armonico o disarmonico, hanno qualcosa da suggerire in merito alla narrazione poetica in questione: è un dato di relazione di cui è bene avvedersi. Credo che qualche suggerimento di percorso sia offerto a chi voglia approfondire la lettura, come quello di tendere l'orecchio e di ascoltare il ritmo dell'anima che si aggiunge all'armonia libera orchestrata da autore e lettore, fino a costituire, nell'ulteriore intreccio, una musica dal piglio nuovo”.

Lo stile poetico, pur serrato e asciuttissimo, non è mai dimentico di un’aggettivazione che mostra la fondamentale importanza del dato visivo (e ricordiamo che il libro è costellato da una serie di disegni realizzati dall’autore stesso). Pertanto il poeta mantovano pare dipingere lo spazio in cui si muove e pur dovendo destreggiarsi con termini astratti (paura, vuoto, grazia, armonia) è sempre accorto a non far mai divenire astrusa la sua espressione. I suoi legami sintattici e logici, quand’anche paradossali, accompagnano il lettore come un compagno di strada. Il linguaggio di Iori subisce una sorta di diradamento: egli, rarefacendo la presenza delle parole, soppesandole e valutando la loro necessità all’interno del testo-guida, tesse una trama impalpabile con sentieri appena visibili.

Nel viaggio vi è la necessità di avere occhi che sappiano guardare in maniera diversa; la via, forse, potrebbe essere percorsa con una benda sugli occhi. Quale sarebbe la meta di una siffatta percorrenza? “Un nuovo cominciamento” leggiamo dalla limpida prefazione dell’autore. A partire dalla morte come termine solo fisico dell’esistenza, il viaggio riguarda la scoperta di un altrove, il nulla (“dimensione, non-dimensione”) nella quale esperire il dubbio, lo stupore e infine “la vertigine della bellezza“. Questo l’iter: quasi tracciante un universo esperienziale parallelo, in cui la scrittura può apporre segni, tacche, ridonare nuovi sensi alle parole. Nulla di convenzionale, di appartenente a quel quotidiano che ci rende chiusi a nuove scoperte: lo svelamento non può che essere contiguo all’atto dell’apertura.

Il dubbio sulla convenzionalità ci porta a percezioni che rivitalizzano i sensi moltiplicandoli e che, assieme all’abbattimento delle differenze percettive, implementano le sensazioni sinestetiche: cosicché un’inaudita sinfonia avvolge colui che è in transito e che ha già superato alcune tappe. C’è dunque una mappa, un disegno per morire rispetto a tutto ciò che è conosciuto (passato e futuro) al fine di rinascere nel vuoto, in un nuovo stato. La natura di tale vuoto è puro spazio, ove accade quello che non accade nel limitato mondo in cui abbiamo rinchiuso la nostra esistenza. Se in esso nascita e morte sembrano eventi invalicabili e non trasformabili, nel vuoto essi sono momenti equivalenti e diffrazionabili, non sono più segni, ma testimonianze dell’avvenuto cambiamento. Una scrittura del vuoto è forse simile al concetto matematico della tangente che si avvicina senza mai giungere veramente a toccare l’altra sponda, territorio impenetrabile. Poiché se lo raggiungesse la pagina resterebbe bianca.

Per Iori la scrittura è ‘rude’, ‘turpe cesello’ e non vi è “Nessuna evidenza / di fine sutura”, tuttavia essa è immaginifica, descrive visioni che hanno una crudeltà che è per noi familiare grazie ai quadri di Bosh. Troppo credito si dà alla morte per esprimere il nostro attaccamento all’esistere, dimenticando l’anima. Siamo ancora in piena metafora. È la morte il punto di rivolgimento, quello che, ritrovato, ci fa cadere in un’altra dimensione, lì dove erano: “Ombre di materia/ parvenze di senso”. Dalla negazione dell’infinito si giunge al sogno, al “nulla che scrive / con penna d’alchimista/ e sempre dona stupore”.

Davvero una mutazione alchemica che consente al poeta di scrivere su “fogli d’aria” le quattro parole che ora - grazie al viaggio intrapreso - hanno modificato il loro significato: “Morte / Nulla / Dubbio / Splendore”. 
Una nuova lingua, in cui musica e infinito sono inscindibili.

A rabbi Aronne fu chiesto
cosa avesse imparato
dal suo maestro
il grande Magghid

“Nulla” rispose questi
“Ho imparato il nulla
il senso intimo del nulla
Ho capito che sono nulla
e che pure sono”

I margini del nulla
non sono luce o buio
eppure hanno voce
sottile e impensata

Ai margini del nulla
cieco sta un lume spento
nella tenebra smagliante

Il lettore affronta il nuovo linguaggio reso edotto dal percorso interiore del poeta e le parole sembrano ora effettivamente rilucere dal fondo delle tenebre o, il che è lo stesso, sulla carta. L’io frattanto si è dissolto. 

Non mio il verso
che nasce fantasma
guizza e svanisce
brilla e poi s’annebbia
donando al dubbio
candida memoria

La presunzione
di possedere il verbo
passa dalla cruna
del respiro corto

Ciò che si evince dalla lettura è che, forse, in questa fase è il dubbio a consentire di liberarsi dalle zavorre concettuali e culturali, è il dubbio che aiuta a non assumere alcuna finitezza, a creare aperture, a vedere senza definire. Allora sarà lo spazio per nuove visioni, per grani di stupore, nel quale la natura gioca un ruolo epifanico. 



Carteggio orientale

I salici s’inchinano al fiume
l’acqua ne rimanda le ombre
Sono alberi i riflessi fluttuanti
o indizi di nuova essenza?
Relitti di vita che va
o bozzoli di creazione?

Per un magico istante
non c’è ansia di risposta
Appena si avverte
un’oncia di svelamento
subito la gioia arriva

L’impensato è esso stesso la vertigine della bellezza: è l’inatteso!
La scrittura, a questo punto, non sarà più scritta, ma si disperderà come un fiume rifocillante “in mille lingue”, coesistendo in un’”alchimia senza memoria”.


                                                                                                   Rosa Pierno


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