domenica 28 luglio 2019

Laura Caccia su “Edeniche” di Flavio Ermini, Moretti&Vitali, 2019




Sì, la poesia è una grazia. Terribile, come precisa Flavio Ermini nella premessa a Edeniche. Messa in opera nei versi della raccolta a talea del principio. E la parola vi si radica in altro inizio: nel suo strappo aurorale, come nella ferita impietosa del distacco, nel suo enigma sorgivo, come nel partecipare alla sorte ineluttabile dei nati, tra esilio e smarrimento, caducità e dolore.

Resa fertile dalla nota e inesausta ricerca dell’autore sul pensiero e sulla parola poetica, sbocciata in molteplici fioriture di saggi e raccolte di poesie. Come se il fluire della scrittura saggistica avesse necessità di un suo controcanto poetico, o viceversa, ma soprattutto come se la poesia venisse destinata ad aprirsi in germoglio, nel prodigio in grado di palesare quanto ancora resti non detto, inconosciuto, nelle arature della riflessione razionale. Con lo sgorgare di un dire albale volto a schiudere, con l’inizialità, l’apertura al permanere insieme alla sue caduche e molteplici gemmazioni, tra enigmi e contraddizioni, tenebre ed ineluttabilità, precipizi e roseti.

E teso a riconciliare, insieme a tutti gli opposti, quello primigenio, oggetto del contrasto messo in luce nel saggio poetico Il giardino conteso, tra le forze che si disputano l’eden del mondo, tra il fondamento che permane e le forme del suo manifestarsi, tra il principio illimitato e l’esistere finito, tra l’essere e l’apparire. 
La contesa appare in Edeniche come pacificata. La poesia, che accoglie il destino di riportare a consonanza quanto il distacco originario ha mosso a conflitto, tra l’indiviso e il distinto, l’immutabile e il caduco, l’imperituro e l’effimero, qui abbraccia il suo duplice specchiarsi: nel pre-dire e insieme nell’oltre-dire, nel prima della parola, nel mormorio dell’indistinto, e oltre il linguaggio delle apparenze e della nominazione, nel sussurro dell’altrove che riconduce all’origine. Riannodando il nascere primigenio dell’umanità e il suo destino mortale nello stesso “moto aurorale dell’esistenza”.

Quale consonanza, però? E a quale prezzo?
Una consonanza che appare del tutto esposta all’incertezza e all’assenza, al baratro e alla disillusione, nella consapevolezza di poter musicare accordi solo per sincopi e frammenti, sottrazioni e ritrazioni, sulla base di scelte radicali di rinuncia.
Certo, la ben nota rinuncia al sé, quale illusorio soggetto e oggetto del dire. E insieme la rinuncia a tutte le forme di potere, quali espresse dalle pretese supremazie metafisiche e categoriali, antropiche e sociali.
Non solo: se scontata, alla luce della precedente ricerca dell’autore, appare la scelta di sottrarre il dire poetico all’io e alle modalità di dominio, meno prevedibile appare quella legata alle tonalità della verità e della bellezza, di cui non si fa certo a meno, ma se ne modulano gli accordi.
Nel legame, che la poesia si appresta a consonare, tra l’essere e l’apparire, la rinuncia ad una verità, intesa come proprietà esclusiva  dell’essere e sottratta al sorgere dell’apparenza, fa chiarezza rispetto ad improprie egemonie e rende coerente l’importante valutazione dell’errore e dell’errare che supporta il muoversi incerto, aperto verso il principio.
E la rinuncia ad una bellezza, quale pura adesione alle meraviglie dell’apparenza senza rendere conto dell’oscurità del sommerso e dell’altrove, così come del tragico dell’esistere, apre la possibilità alla dissonanza che riesce a musicare il perturbante e il dolore del bello.

Come a riconoscere, in tutto questo, che, per muoversi verso l’essenza, occorre procedere per distacchi e ritrazioni. Nel ritrarsi. Trarsi via da sé. Trarsi indietro. Nel profondo abissale, nel sottosuolo ignoto. Fino a dove il ritrarsi incontra il suo apparire. Fino al “darsi iniziale”. Fino al dire iniziale. 
Edeniche ci mostra cosa fare della parola: parola altra dell’oltre e dell’inizio, che non porta ad altezza lirica un possibile accordo tra terra e antiterra, cieli e anticieli, mortali e celesti, ma che cerca dal basso, in pianissimo, tra incrinature e spiragli, lo schiudersi degli echi in cui lasciare voce all’essere e al suo permanere, così come ai “figli della terra” e al loro destino di morte.
Schierandosi dalla parte dell’essere e insieme dalla parte dei mortali, nella sofferenza di un pensiero rigoroso che non concede sconti né illusioni. I mortali, il cui “essere per la morte anela alla vita” e i celesti ,“sacrificati alla rovina che noi stessi subiamo”, sono accomunati, a patire esilio e mancanza, da una stessa sorte, ineluttabile e oscura. 
La poesia, “nell’attestare con l’inchiostro quanto altrove svanisce”, trova allora se stessa nel farsi parola primigenia, che di tale sorte, sottesa all’essere e al suo apparire, mostra, al contrario, la dimensione albale, nelle crepature che riesce a fessurare, nei barlumi che muove a canto, “nel breve intervallo tra il primo inizio e l’ombra”.

Sono noti i riferimenti autorali, filosofici e poetici, di Flavio Ermini, che qui, nello spalancare il proprio aurorale e tragico mondo poetico, porta il dire, si direbbe avanti, in realtà ancora più indietro, rispetto al pensiero metafisico e alle distinzioni che lo caratterizzano, così come ai linguaggi espressivi e alle differenti forme che li diversificano.
La parola primigenia non conosce separazioni, né ontologiche, né espressive. In Edeniche la tragica dissonanza e l’aurorale consonanza tra l’essere e l’apparire riguarda tutti gli esseri, cose e viventi, accomunati dall’identica essenza del tutto e da medesimi origine e destino. E pensiero, parola, sonorità e visioni vi danzano congiuntamente in un intenso e luttuoso dialogo e nello stesso errante respiro che sostiene l’esilio e la pena insieme al moto albale che, tra “la luce originaria” e “l’ostinato levarsi delle tenebre”, vi si intravede.  
Il pensiero poetico, che i versi snodano nel loro moto incessante seguendo l’ombra del dire primigenio, e le immagini, che i titoli dipingono a visioni e simulacri del “darsi iniziale”, si rispecchiano reciprocamente, a volte consonanti, a volte propriamente dissonanti, a musicare il non-luogo e le forme indistinte dell’essere, “mille ombre, mille corpi, mille mondi”, e i luoghi e le figure dell’apparire: la natura, insieme aurora e dispotico teatro della terra, e i viventi, nel loro drammatico confrontarsi con la propria finità e il proprio destino.
Attraverso visioni limpide e perturbanti di baratri e cieli, di rupi e cantieri, di fortilizi e deserti, di varchi e macerie, di tenebre e tombe, tra “le stelle fisse dell’indistinto” e “l’entroterra inospitale”, tra “il cielo disabitato” e “gli alberi fioriti per errore”. Dove il giardino, con le sue connotazioni edeniche ed esistenziali, resta la figura dominante: da quella che ne supporta il terreno ontologico, “il giardino conteso” come “il giardino delle insopprimibili alterità”, a quella che ne caratterizza visibili fioriture e caducità, “il giardino destinato alle tenebre” come “il giardino che torna a ospitare i mortali”.

E, come per il giardino, altre figure si rincorrono diversamente modulate, altre visioni si rispecchiano nelle stesse forme in sensi diversi, riuscendo Flavio Ermini a mettere in opera poetica quell’arte della variazione che in ambito musicale, a partire dall’uso degli ostinati armonici, nello sviluppo successivo in senso drammatico o nelle combinazioni seriali, ha consentito di dare espressione molteplice a un tema.
In questo senso, lo sviluppo compositivo in Edeniche non pare seguire un andamento rettilineo, quanto piuttosto mettere in moto un movimento a spirale, che, nel ripetersi delle visioni, viste a tutto tondo da prospettive diverse, riesce a porre in luce la circolarità dell’essere e insieme il complesso e impietoso percorso che unisce origine e destino dell’esistente.
Visioni che acquistano dimensioni reali, non unicamente metaforiche o simboliche, oniriche o iconiche, e che si concretizzano per farsi espressione non solo delle infinite potenzialità figurali dell’essere come del molteplice variare delle forme dell’apparire, ma soprattutto del drammatico e sofferto attraversamento che pretendono, dell’arduo cammino richiesto ai mortali.
Poiché appare chiaro che la possibilità, per la poesia, di dare voce alla consonanza tra l’essere e l’apparire non derivi da improvvise illuminazioni o da profonde riflessioni, ma dall’esperienza di un estenuato transito a ritroso, tra notti senza albe e rupi senza ali. Un tragitto incerto e drammatico nei sotterranei ignoti e abissali dell’esistere, in cui, tra “i luoghi estesi e la coscienza dell’esilio”, tra “i dintorni abitati e lo spettacolo della morte”, tra “le terre dell’acqua e l’infinibile patire”, la parola si fa, insieme, natura ed eco del moto sorgivo che separa e accomuna, disperde e ferisce, e, nel contempo, scelta etica nei confronti della “sofferenza dei nati”.

I versi accolgono così il lungo e perturbato respiro di un dire che cerca il sorgere albale tra le rotte sofferte dei viventi: un movimento interminato e ondoso di marea che accoglie e allontana, porta a riva e porta altrove, incessante e indistinto come l’essere, colmo di residui inospitali, di schegge di vita e di morte, come l’esistere, e risonante dell’eco che culla e insieme strazia i mortali nel loro destino di naufraghi.
Permettendoci di considerarci parte di questa parola che, nel prendersi carico dell’origine e della sorte di tutti gli esseri, ci consente di avvertire nel profondo la comune condizione di esilio, ma, nello stesso tempo, di non sentirci esiliati poeticamente, poiché qui, dentro le visioni delle tenebre e dello smarrimento, della mortalità e del dolore, la poesia riesce a toccare, nell’abbraccio con gli esseri che vi hanno origine e fine, l’accadere dell’essere, la sua inizialità e il suo destino.


                                                                         Laura Caccia

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