mercoledì 12 novembre 2025

Marina Bindella “Gli occhi del cielo”, spazio espositivo Blocco 13, Roma, dal 18/10 al 18/11 2025

 


Nella mostra di Marina Bindella Gli occhi del cielo, allo spazio espositivo galleria Blocco 13, l’opera principale, che rappresenta la carta del cielo, introietta e sussume  tutto lo spazio espositivo. Ora è ad essa che si attribuisce l’estensione spaziale. Come a dire che il vasto cielo coincide con la sua rappresentazione e non con la realtà, che è stata solo un pretesto per la sua concezione. Nessuna mimesi; una sostituzione esemplare. Ad essa d’ora in poi si rivolgerà il fruitore per percorrere lo spazio, per farne esperienza.

Se la relazione fra il macrocosmo e il microcosmo appare una concezione culturale inamovibile, tant’è che la mostra si intitola, appunto, Gli occhi del cielo, dove gli astri equivalgono a pupille e le orbite dei pianeti alle palpebre, si deduce che le analogie recano con loro, a grappolo, altre analogie, variamente annidate in quelle che appaiono caselle cilestri e caselle tinte di rosa antico. Ne offriamo solo qualche accenno: tali similitudini sono solo apparentemente coppie di opposti; in realtà, designano relazioni che si dipanano senza soluzioni di continuità, ma hanno la forma discreta che è tipica della griglia. Cosicché forma/colore, materia/fantasma, opacità/trasparenza, rilievo/superficie piatta si distinguono per la loro posizione, ma non si distinguono nella loro opposizione. Sono appunto analogie, non concetti.

L’opera è formata da otto pannelli quadrati costruiti mediante un cartone ondulato incollato su tela. Alle regolarità parallele del cartone ondulato, Marina Bindella ha imposto linee verticali che si susseguono sviluppando dei multipli, le cui dimensioni diverse segnano la scala della rappresentazione. Equivalgono a porzioni diverse di un medesimo oggetto visto da distanze differenti. Ciò sembrerebbe far pensare che l’infinito sia richiamato dal finito: basterebbe allontanarsi per vedere sempre di più. Tuttavia, esiste il finito tra due numeri finiti e Achille raggiunge la tartaruga. Ma l’effetto è che il concetto dell’infinito è così evocato; ora è interno al quadro; è stato intrappolato come da una carta moschicida, al modo stesso dello sguardo. 

Le scansioni verticali e orizzontali prefigurano la presenza della geometria come se essa fosse quell’intervento, tutto umano, che incredibilmente quadra col mondo, individuando un ennesimo paradosso. Le vasche, intrappolate in codeste griglie, ricevono colore, ma intercettando le linee curve, che tracciano orbite e astri, si arricchiscono di ulteriori confini al proprio interno. La superficie che possiede rilievi mimimi non sembra più averne dal punto di vista visivo: essi sono rilevabili solo al tatto. Ecco una realtà nascosta all’occhio che osserva l’opera e questa volta l’occhio non è quello del cielo, ma del fruitore. 

Nondimeno, l’artista è sempre in agguato e mediante la creazione dispone del suo personale creato. È il mondo ideato, quello che infilza analogie e si pone al posto delle cose stesse. È il mondo della variazione seriale, ove se le ombre calano è per via dell’intensificarsi di puntini, un nugolo imprecisato con estensione nulla che si dispone come una nuvola di gas nei cieli iperurani. Il colore stesso è celestiale: scelto fra una gamma di celesti intensi o labili e di rosa carmini che impallidiscono fino allo svanimento. Anche il colore, dunque, crea un’oscillazione tra questi estremi cromatici e batte un tempo come se si trattasse solo di segnalare la sua stessa presenza o assenza, scansionato, a sua volta, sui ritmi precisi e ineludibili delle verticali. Il colore a questo punto oppone pulsioni alla scansione ritmica delle verticali. Il pigmento (acrilico o acquarello), a cui è stata sottratta la forma, avendogli donato l’artista una struttura per le variazioni cromatiche, si neutralizza assumendo solo una delle due variabili a sua disposizione: puro colore o forma colorata.  L’oscillazione celeste/rosa, serve a dotare di  profondità l’interno della casella, variazione che opera a livello strutturale. E, a un altro livello, funziona come un codice a tre valori: variazione susseguente, variazione precedente, a cui si aggiunge la variazione cromatica. L’occhio s’incapsula nelle cellette, mentre un meccanismo a grande scala lo trascina nelle orbite ellittiche del meccanismo che richiama quell’orologio a cui spesso è stato paragonato il cosmo. 

Il tempo, esaltato dal ritmo geometrico, pure, si stempera in relazione alle diverse distanze da cui può essere rilevato. Non c’entra il concetto di reversibilità; è semplicemente qualcosa di relativo a un contesto, a una distanza. L’emotività assume lo stesso valore: sempre attiva, ma la sua punta si presenta arrotondata, addolcita dall’erosione a cui il tempo l’ha sottoposta e tuttavia persistente quanto il respiro. Non sfugge, certamente, il lavoro, durato un anno, necessario alla realizzazione dell’opera.

Resta la meraviglia per un’opera che di sicuro rivela come la sua costruzione  sia incernierata a concetti filosofici specifici. C’era uno scavo ancora da compiere a partire da Dorazio, qualcosa da recuperare per mostrare che cosa farsene della variazione. Come costruire letteralmente mondi, anziché lacerti; visioni anziché paradigmi.


                  Rosa Pierno


giovedì 6 novembre 2025

Marco Palladini “Noi siamo altri. Materiali per una diegesi familiare”, Zona 2025

 


Un’autobiografia costruita attraverso la storia della propria famiglia, a mosaico, come precisa l’autore, Marco Palladini, è Noi siamo altri. Materiali per una diegesi familiare, Zona 2025. Essendo lo scrittore, oramai, l’unico superstite del nucleo familiare, sono i documenti, le videoregistrazioni e gli oggetti a innescare una memoria che è la vera protagonista del romanzo. Palladini, però, ci avvisa immantinente che «come l’Io, pure il Noi è una finzione, e che il rammemorare è poi anche, pur sempre, un inventare, un immaginare una o più storie in cui credendo di vedere noi stessi, in realtà vediamo altri da noi, pur se in qualche modo essi ci concernono o riflettono». A complicare la faccenda è, nel romanzo, il soggetto, il quale si scinde in autore, commentatore, critico, storico. La serie di modelli che si possono enucleare dal testo, difatti, si riassorbono in una fisionomia indeterminabile. E, pur tuttavia, l’impossibilità di definire l’informe Io non è che il risultato di una posizione, poiché, in altri momenti, da altre specole, si potrebbe capovolgere l’aforisma di Wilde e proclamare che solo gli imbecilli cambiano sempre idea, come ci rammenta Palladini in difesa di una coerenza d’impianto teorica con cui di fatto lo scrittore redige, ciò nonostante, l’Io e che vale come postura etica. 

Nell’universo letterario palladiniano, le regole mitiche della fiction letteraria non corrispondono a quelle immaginarie della tradizione. Il testo non identifica né lo stato di coscienza individuale dello scrittore né l’opera stessa, la quale dovrebbe esistere come oggetto estetico che persista nella coscienza di tutta la collettività. Ma anche quest’ultima appare fantasmatica. Vi è un susseguirsi di notizie storicizzate, vi è il loro sviluppo, vi sono protagonisti che, di volta in volta, vengono ritagliati in funzione del ruolo: il padre antifascista, il fratello che soffre di schizofrenia, la madre sfuggente, la nonna capace di comprenderlo più della madre.  Rispetto ai fatti storici, l’individuo sembra avere a sua disposizione solo due stati: aderisce o non aderisce empaticamente  alla persona che gli sta dinanzi? Dai doveri alla liberalità, dal seguire la Chiesa al manifestare, ogni presenza familiare sembra essere determinata dallo sfondo, dal contesto. Interrogare gli oggetti, le fotografie, i video che i parenti hanno prodotto si rivela a tratti deludente: non sempre se ne trae qualcosa di significativo. È come se la vita fosse non interpretabile: stare al sole, nuotare, correre nel prato, abbracciare la mamma o stare a cavalcioni del papà sembrano essere solo quello che sono: istanti di vita. Soltanto la memoria può ricamarci sopra, credendo persino a quello che non è stato ovvero che esistesse qualcosa che non si è potuto decifrare. Palladini pensa che la filosofia marxiana non serva a «penetrare nelle latebre della psiche individuale e collettiva»: con essa non si può spiegare la malattia mentale o l’anaffettività di una persona. Il richiamo alla catena filogenetica familiare appare come l’elemento che non può mancare, ma che attesta più dell’esistenza di un mistero, acuendolo, che di una soluzione.

Anche il rifiuto di escludere le illusioni fa parte della ricchezza complessiva del quadro composto da Palladini. Una rigida adesione a ideologie, pratiche e prassi di taglio scientifico, più rigide e settarie soprattutto quando sono veicolate come insegnamento da elargire alle masse (ossia il lato peggiore della scienza) risultano per lui inadeguate e censorie. Si veda il giudizio sulla legge Basaglia: «benemerita per un verso, per avere abolito i manicomi lager, disastrosa per un altro verso per avere indotto a credere che i malati di mente sono vittime della società e che, liberati, potessero guarire da soli. Pazzia su pazzia mi verrebbe da commentare». 

Il romanzo di Marco Palladini è costruito utilizzando generi diversi: l’autobiografia, l’intervista, il saggio storico, la poesia, il resoconto di viaggio, la critica letteraria, il testo teatrale. Con tutte queste forme, lo scrittore cerca di assediare il vero, a tratti, accerchiandolo con una sorta di movimento panoramico da cui sparare le sue cartucce come se avesse di fronte anziché il padre, diversi bersagli: l’uomo che ha vissuto durante il fascismo, che è stato prigioniero di guerra, il genitore, il marito, il libertario, lo studente, il lavoratore. È una sorta di assonometria esplosa. Vi si possono vedere contemporaneamente aspetti esterni (politici, sociali, culturali) e aspetti interiori. Tuttavia, la sensazione finale è la persistente fuggevolezza del risultato. È un uomo di cui il lettore, ora, ritiene alcune informazioni, anche molto dettagliate, ma mai sufficienti a fargli affermare di conoscerlo. A dare questa sensazione di indeterminatezza è proprio l’analisi spinta fino al minimo dettaglio, la successione dei punti di vista, la maniacalità della ricerca. È come se il giocattolo romanzo venisse rotto per vedere che cosa c’è dentro. Romanzo non come mera registrazione dell’esistente. Difatti, quel che deve essere decifrato è lo stile dell’opera letteraria (scritture, forme retoriche, modi di  narrazione, tecniche di percezione), in quanto scienza dell’espressione e in quanto caratterizzante l’individuo mediante l’insieme dei tratti formali con cui l’autore sceglie di strutturare la sua opera: sono le libertà che egli si prende all’interno del sistema lingua. Lo stile è la variante messa in atto dallo scrittore. L. Spitzer, in Stilistica e linguistica, scrive che: «Lo stile linguistico è l’estrinsecazione biologicamente necessaria dell’anima individuale». Forse è questo il punto focale dell’autobiografia palladiniana. Indagine biologica di un’anima. Se, per restare ancora con Spitzer, si ritiene che a ogni stato psichico normale corrisponda nel campo espressivo uno scarto nell’uso linguistico, ecco che allora se redigessimo un elenco di tali scarti, in Noi siamo altri, avremmo un’autobiografia dello scrittore, molto più concreta.


Il mezzo per ricostruire il funzionamento o il senso di qualsiasi analisi, ossia la conoscenza, è specificatamente letterario. È la letteratura lo strumento per interpretare; con essa si sceglie e si enumera, si dispone e si svolge. Per quanto realistico, il resoconto è sempre insufficiente e non risponde se non con la sua stessa evidenza. Il libro è tutto votato alla psicologia collettiva, all’interrelazione tra serie di eventi, più o meno correlati in una cornice a volte geografica, a volte culturale, a volte storica. Sono dunque porzioni che creano, anche per sovrapposizione, un’idea di totalità, ma sempre relativa a un quadro specifico. Lo scrittore viene rimandato da se stesso alla limitatezza antropologica della sua cultura, alla sovradeterminazione del proprio operato, al suo fare storia, ma una storia inconsapevole, nel senso marxiano per cui gli esseri umani fanno la storia, ma non sanno di farla.

Marco Palladini costringe il lettore a essere la sua memoria. La memoria se non è condivisa sembra inutile, non funzionale. Idea prettamente politica. Il lettore non deve spazientirsi dinanzi alla mole di informazioni del tutto inutili al prosieguo della narrazione. Deve sentire il peso dell’accumulo,  di ogni cosa nell’esistenza. Non è esattamente un inno d’amore per la memoria; è più il racconto dell’ossessione del ricordare, del non saper rinunciare al dettaglio, del tenere tutto lì, in ordine, sul tavolo. È in questo modo che Palladini pensa di poter conoscere se stesso  ovvero l’Altro da noi: «Potrei dire che questo è il senso del mio essere scrittore e, quindi, pure di questo libro che è rampollato fuori quasi da solo, obbedendo a un impulso iniziale che mi induceva a chiedermi a che punto ero della mia esistenza». La dose di casualità di un testo fa parte per dir così della sua necessità. È qualcosa che si può chiamare sia caso sia destino. Non è il dubbio a essere il protagonista a latere di questo romanzo per frammenti; è la consapevolezza di non sapere e di non volersi censurare. Il dettaglio insignificante, così come l’esistenza di cose a cui non diamo valore, che eppure risiedono nell’universo, richiede rispetto, accoglienza e cura. Ogni scrittore, in fondo, scrive per oggettivare la storia. L’esistenza e la conoscenza vi appaiono alla fine solo per accantonamento dell’aver fatto, letto, scritto, viaggiato, dialogato, collezionato. Null’altro si potrebbe dire. A null’altro si potrebbe lasciare spazio, dopo che si è così saggiamente lasciato spazio all’imponderabile di accadere. La costrizione biologica, familiare, sociale, economica, culturale, costituisce certamente una sponda, un parapetto da cui, però, guardare verso l’oltre.


La memoria deve valere, come nel caso dell’intervista al padre, antifascista e prigioniero di guerra, in quanto recupero testimoniale di un’esperienza ancora utile, ancora appartenente all’attuale orizzonte di vita, soprattutto poiché, oggi, ogni prospettiva storica appare annebbiata da una revisione correttiva di giudizi consolidati che hanno come scopo il raggiungimento di un moderatismo omologante: deve, insomma, valere come atto educativo. Tal che, quando non scrive di vicende che coinvolgono le persone del proprio nucleo familiare, Palladini sembra trascrivere dati e notizie, reperendole direttamente dai giornali dell’epoca in una volontà testimoniale che travalica l’azione distruttiva del tempo. Allo stesso modo, ciò  vale per quel riguarda la memoria delle sue scritture sceniche e delle sue performance vocali.


Se la classe borghese sceglie dal reale solo ciò che giustifica le sue pretese idealistiche, lungi dal portar con sé un’autocritica, e se gli scrittori ribelli, dichiarando ciò che la borghesia vuole nascondere, compiono un atto morale, il realismo socialista trasforma la morale in politica, cogliendo la struttura profonda di una società, ossia trascrivendo solo le cose importanti. «Il realismo è l’arte delle significazioni giuste», annota R. Barthes in Scritti. Naturalmente, vanno cercati i modi per descrivere la continuità stessa del reale, la sua superficie, senza cadere nella descrizione idealista borghese. Ci sono stati vari tentativi: il surrealismo ha cercato la moltiplicazione del senso degli oggetti; l’esistenzialismo ha tentato di rarefare la significazione e la corrente del nouveau roman ha provato con una letteratura della pura constatazione. Per Barthes il dilemma si risolve partendo dal realismo socialista e cercando significazioni che non siano quelle borghesi. Su codesta via, si collocano le opere di Palladini, poiché egli è alla ricerca di ciò che ha valore e che sia, insieme, intimamente connesso con quanto è non borghese. Il problema della storia, che il romanzo a frammenti di Palladini eleva a soggetto, è già risolto in quanto l’opera è il prodotto della storia e, al contempo, è la resistenza a questa storia. La scelta della forma-romanzo, per frammenti, per stralci in sé autonomi, per ricicli, per appunti diaristici e per interviste, in Palladini, è prima di tutto messa in discussione del romanzo stesso (personaggio, intreccio, psicologia, bello stile). Tale forma non appartiene, per Lukács, alla forma tragica o epica, ma è la storia di una ricerca di valori autentici in un mondo inautentico. Attesta di un percorso che può dar luogo a una nuova rinascita, giacché una delle funzioni della letteratura è di presentare agli esseri umani l’immagine vissuta dell’altro. Solo in questo frangente si rende visibile la collettività, come comunità di lettori (giacché persino nel nucleo familiare, istanze, esigenze, cultura, desideri sono inconfrontabili).


Unico valore rimasto come residuo della tradizione umanistica è l’esibizione dei segni della comunicazione letteraria o del loro accumulo, sicché la letteratura somiglia sempre di più a una gigantesca risorsa per le discipline più varie: la filosofia, il teatro, la musica, la psicanalisi, la società. Vengono chiamate in causa categorie che sembrano collidere: abbiamo già visto come, da una parte, Palladini ricostruisce doviziosamente la storia e la cronaca di un periodo che abbraccia la famiglia dell’autore fino ai nonni e, dall’altra, il lettore è avvertito che si tratta di una restituzione inventata. L’apparente contraddizione è sufficiente a far uscire il lettore dalla credulità: egli è così  sempre consapevole che si tratta della forma-romanzo. Ritengo, pertanto, che il miglior lettore di codesto libro di Palladini sia quello che non lo legge come una mera autobiografia, immersa nell’attualità contemporanea, bensì quello che non crede a Palladini pedissequo narratore delle proprie vicende labirintico-esistenziali, non fosse altro perché ciascuno ha una propria visione dell’attualità o delle vicende storiche, ma che va a guardare sotto al tappeto, ritrovandovi una forma letteraria particolare. È essa che restituisce significatività agli eventi e alle persone. Che ricostruisce qualcosa di comune. Che è critica attuale allo stato di cose esistente.

Così, in finale, se Palladini ammette il naufragio del tentativo dell’autobiografia, così come della scrittura storica, non lo fa per azzerarne il valore, o mortificare il tentativo di narrare, bensì per aprire all’esistenza di tesi complesse, affinché si veda il retro delle cose, l’esistenza di altre facce della medaglia, la fallacia delle tesi a buon mercato, l’importanza di restare nello stallo con consapevolezza e non crederlo il migliore dei mondi possibili.


Rosa Pierno


giovedì 30 ottobre 2025

“La neve di Courbet” di Marco Furia sul libro “Paradossale Cromatico Trattato” di Rosa Pierno, Gattomerlino, Roma 2025


 

La neve di Courbet


Con “Paradossale Cromatico Trattato”, Rosa Pierno, autrice anche dell’acquarello dalla non comune intensità cromatica riportato in copertina, si interroga sul valore del linguaggio logico.

Leggo ad esempio a pagina 19


“Le teorie cromatiche sembrano voler trovare una ragione di quelle cose di cui non c’è ragione. Sistemi di regole vengono sottoposti a torsioni non indifferenti, ma l’armonia potrebbe appartenere anche a una discordanza”

e a pagina 47

“Ciò che è vero nella logica , non è detto sia reale. Ci sono differenze fra i due ambiti che fanno tremare i polsi! Meglio far coincidere l’opera con la realtà per trarsi d’impaccio, affermò il Bianco Coniglio, il quale non era affatto bianco se non logicamente”.


Viene da chiedersi: fino a qual punto la logica può ritenersi efficace? Esistono linguaggi validi non (o poco) logici? Otre c’è pur qualcosa?

Ovviamente risposta logica, esaustiva, non v’è: vengono alla mente atteggiamenti propensi a riti magici, misticismo, intense pratiche religiose, eccetera.

Mi pare però che non sia nei suddetti ambiti che Rosa intende muoversi.

Il suo è un perseverante, quasi battente, porsi quesiti dall’interno del linguaggio e la risposta per lei consiste nell’attento racconto di un interrogarsi che assume molteplici aspetti.

Leggo, ad esempio, a pagina 50


“Sembrerebbe esservi una differenza incolmabile tra la sfumatura che ha il cielo e la sua resa mediante pigmento”

e a pagina 54

“In un quadro di Courbet , la neve si colora delle tinte vicine. È un bianco-blu, un bianco-rosso, un bianco-terra, un bianco-sporco, un bianco-grigio. Neanche nel reale, la neve è mai bianca. Solo la parola bianca è interamente bianca, senza riflessi, né ombre”.


Siamo al cospetto di un intento di ricerca che del ragionamento non ignora i limiti.

La magia, il misticismo e certe pratiche religiose cercano e talvolta propongono risposte esterne ai parametri logici, Rosa indaga su contraddittori aspetti interni.

Contraddittori in senso stretto ma, per così dire, sopportati, spesso ignorati, nella vita quotidiana: continueremo ad apprezzare il quadro di Courbet, senza dubbio.

Il linguaggio, in ogni modo sempre aperto a ulteriori sviluppi, è indispensabile strumento umano, sicché talvolta occorre accettarlo così come si presenta (come dimostra la stessa autrice con il suo policromo acquarello).

Frasi quali


“Non si tratta di interpretare, ma di vedere. Di avere a disposizione poche regole: dall’oscurità non può stillare un lumeggiare, il bianco non è composto da altri colori, né può essere limpido. Sono proposizioni empiriche diventati concetti a priori nella grammatica dei colori. Nulla che serva agli artisti, i quali cercano a lungo il timbro giusto che completi il loro quadro”

e

“Sembrerebbe esservi una differenza incolmabile tra la sfumatura che ha il cielo e la sua resa mediante un pigmento. A dimostrazione del fatto che la pittura non è mai mimesi”


mostrano come, secondo Rosa, certi “concetti a priori” siano spesso d’intralcio (e, aggiungo, non soltanto ad artisti e poeti) ma in ogni modo esistano: ed è proprio nel rapporto-confronto con essi che “Paradossale Cromatico Trattato” trova la sua più intima ragione d’essere.

Non si devono sostituire a priori con altri a priori poiché all’esistere (artistico e non) occorre muoversi su un terreno scabro, talvolta irto di difficoltà, non su una liscia lastra su cui viene a mancare l’attrito del vivere.

Insomma, un perseverante invito a non ignorare certe problematicità ma a costruire tenendo conto di esse la via di una consapevolezza aperta a ulteriori sviluppi.

Anche scrivendo e dipingendo, senza dubbio.


                                                                                                        Marco Furia



Rosa Pierno, “Paradossale Cromatico Trattato, gattomerlino, Roma, 2025, pp.78, euro 15,00

sabato 18 ottobre 2025

Stefano Iori, Flussi 2023-2025, puntoacapo Editrice, 2025

 

Nella nuova raccolta di Stefano Iori, Flussi 2023-2025, libro sapienziale, oltre che poetico, il gusto della paradossalità trova la sua funzione più profonda nel coniugare cose che risultano impossibili da accostare: “ali guizzanti / in lento volo”. Oppure: “La dismisura della luce / nomina la notte”. Il senso è quello di scorgere il luogo nel quale gli opposti si toccano “con garbo / di fantasma”. D’altronde, ogni cosa interseca l’altra, la ingravida. Il vuoto, ad esempio, che col buio e col silenzio s’interpola, entra ed esce dalla pienezza del reale, dando quasi vita “a luce che non brilla”, giungendo così ad allacciarsi al tempo e alla fantasia. Ossia, il vuoto entra nell’ambito della realtà, indicando con ciò un’opposizione che è sempre solo apparente. Qui si scorge l’utile funzione del paradosso, il quale segnala che esiste la possibilità di due percorrenze equivalenti, mentre per consuetudine si tenta di costringere il senso in una sola direzione, causando laceranti attriti. Una delle principali antinomie, quella che definisce il tema della silloge, è l’angoscia della morte mentre più forte è il desiderio di vivere. La ricerca di Stefano Iori s’impernia sul dilemma “ansia di morte ansia di vita” che il risultato della sua riflessione, invece, vedrà, come scopriremo in seguito, convivere senza contraddizioni.


Ma andiamo con ordine: ogni cosa viene interpretata come simbolo nella non fattibile comunicazione tra essere umano e divino; si ha la certezza della non realizzabilità dello scambio verbale: “almeno un soffio di quel dire / ombra o luce di un intento”. Appena qualcosa, non il vero a tutti i costi. Il poeta sembrerebbe accontentarsi, ma solo apparentemente. In realtà, lo vuole strenuamente. E ciò allora sposta il punto focale: non attraverso il verbo si comunica. Con il verbo si annotano le domande, le intenzioni, i desideri, i sogni. Sicché, “Illusione ben accetta / miraggio ricercato” sono ora le nuove monete sonanti che attirano l’attenzione di Iori. Tutto ciò che è sparso nel mondo sembra volerci parlare di altro, eppure bisogna astenersi, accettare il frutto dell’immaginazione. Abbandonarsi al mondo, accettare che non abbia senso, come fosse la prova più grande da sopportare. E l'autore ci si dispone, sperimenta il proprio annullarsi, la mancata reattività dell’io; accetta di andare per il mare alla deriva. L’io deve coincidere con un anonimo adattarsi. Bisogna tenersi lontani dall’arroganza dell’individualismo che forgia, fissa e inchiavarda, anziché lasciare liberamente fluire il pensiero. E forse mai età, se non la vecchiaia, ha in sé l’antidoto contro un personalismo dominante: “È tempo di limare / la spocchia antica”.


Pur seguendo il passo di quei letterati e poeti che hanno cercato, a prescindere da ogni consapevolezza della perdita, la ricerca del senso, Iori provvede ad attuare un suo programma, quasi esercizi spirituali d’attenzione:


Assumere a ogni passo

impegno d'attenzione

fugando vani abbagli

di traguardi dell'istante


Nel lento scorrere delle ore si manifesta la via oscura, quella che conduce alla morte, giacché la vita può definirsi come ciò che muore, che si estingue. Iori si esprime con la laconica essenzialità dell’aforisma: “Brama di stasi inorganica / l'inerzia abituale del sasso”. Sebbene la consapevolezza di codesta verità sia pienamente assunta dal poeta, pure, bisogna imparare a morire, a considerare tale verità come peso che aggiusta ed equilibra tutte le cose esistenziali. E ciò può avvenire se si studia, appunto, un metodo, che vediamo esplicitato nei seguenti versi:


Far scorrere nel non finito

emozioni e sogni

Lasciare monchi i progetti

con piegata umiltà


Vi è anche l’assunzione di un opposto punto di vista sulla morte, poiché, se è scontato che quando siamo vivi la morte non c’è, c’è però il suo concetto ed è con quello che ci si deve misurare. Dunque, il ribaltamento ottiene che la “Morte è nascita al contrario”, per cui si ritorna verso il punto di partenza: il nulla.

Nella riflessione sul termine della vita, “la via ancora aperta / si confronta con ignota / misura”. L’io resiste appena alla vertigine dell’oblio. Si direbbe che sopravvive perché sa. Le parole che il poeta mette insieme sulla carta, inseguendo senso e storia, indicano che egli si dispone alla morte proprio denegando senso e storia. Cosicché le vere parole, dice a se stesso, “le ritrovasti nel vero silenzio vivo / senza ombre di dolore attorno / alfabeto d'emozioni del colore d'un ruscello”. È ancora l’orizzonte dell’immaginazione che disegna fondali, scenari, situazioni, valenze: un’immaginazione tutta umana, ma certamente capace d’inglobare in sé una nuova visione. Difatti, non si può uscire dalla condizione esistenziale se non con il termine della vita, ossia con la perdita dell’immaginazione, pertanto, conviene utilizzarla nel modo più creativo per dare la stura alla molteplicità; non per inseguire il divenire, ma per attestare della permutazione e del ribaltamento. Viene alla mente il quadro di H. Bosch Quattro visioni dell’Aldilà, alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, nel quale, in un cielo nero privo di profondità, si apre un imbuto di luce incandescente. Miracolo della perspicacia, potenza dell’immaginazione! Ritornando al metodo messo a punto da Iori, mi riferisco al ribaltamento come tecnica, poiché è di fatto una modalità da lui particolarmente utilizzata. La perdita della memoria coincide con la capacità di attraversare la bruma e di conseguenza:


Inutili certezze svaniscono

nell'aria d'alabastro

perdendosi in dubbi 

taglienti più del vero


È dunque il gioco degli opposti a consentire al poeta di non stazionare in caselle bloccanti o fuorvianti, di non irrigidire il suo pensiero, ma di lasciarlo libero di aggirare gli ostacoli: quei concetti talmente evidenti da cui è altrimenti facile farsi abbindolare. Ricordi, pregiudizi, convenzioni, i quali non combaciano nei tentativi plurimi della volontà di ricondurre tutto ad unità, hanno una cattiva influenza sulla mente che si dichiara delusa dalla realtà, come se essa stessa non appartenesse al medesimo ambito. Tuttavia, in questo gioco, si delinea almeno la consapevolezza del valore che la distanza dalle illusioni può fornire, profilando una vaga traccia de “l'imperfetto regno / di ciò che verrà”. Il sogno, in questo senso, prende il posto dei desideri, quelli sbrananti, distruttivi, come il rimpianto, compagno della depressione, e modifica la direzione, mostrando appunto un’altra via. Persistono gli enigmi nei sogni, ma si può constatarne la presenza senza arrovellarsi per risolverli. Anzi si può tornare al non sapere: “Fino a fluida sincronia / col dilatarsi dell'ignoto”. Sarebbe questo “il poetico vero”, lo stadio di massima apertura al nulla, anziché l’ingresso nelle gabbie della ragione.

Pertanto, la vera posta in gioco sembrerebbe essere la compresenza “d'armonie e dissonanze / in perpetuo divenire”, non in quanto scopo o bersaglio, ma in quanto condizione in cui si attenuano le illusioni e si accede all’equivalenza dei termini. 


Che cosa si diventa dopo? In quale condizione ci si ritroverà? In una “straniata immisura / permeante e scura”. Tuttavia, anche la terra ha una sua giustizia: 


Senza il pavido 

lo sconcio non sarebbe re” 

dirà quel giovane 

invocando il tempo 

in cui solo gente di seta 

abiterà cielo e terra”


Allora, i legami fra terra e cielo, bellezza e disperazione, dolore e gioia, pieno e vuoto esistono e non sono recidibili come banalmente si crede. Sicché anche il confine tra vita e morte è in realtà illusorio. È necessario aprire mente e cuore per auscultarne il battito all’unisono. 


Rosa Pierno




venerdì 3 ottobre 2025

Stefano Iori, “L’albero della poesia”,Terra d’Ulivi, 2025

 


I testi teorici di Stefano Iori presenti ne L’albero della poesia, pubblicato nel 2025 da Terra d’Ulivi nella collana di saggi Angelus Novus, forniscono un quadro di interessi culturali variegato, approfondito ed esteso. Difatti, i testi pubblicati in saggi precedenti e gli editoriali scritti per rivista «Menabò», da lui diretta, si rivelano estremamente interessanti sia per cogliere in maniera chiara l’orizzonte di riferimento dell’autore sia per valutare, nell’estemporaneità delle occasioni, la mobilità di un pensiero che non si fa assediare da alcun luogo comune sulla poesia, né si chiude in una torre d’avorio. A riprova, si consideri che se è con quest’apertura che Iori ha maturato i suoi editoriali, è anche vero che non ha mai considerato la poesia un valore in assoluto, ma sempre da considerarsi in relazione con altri settori della sapienza umana: la conoscenza filosofica, la valutazione politica, il silenzio, la musica, la creatività, il tempo; idee che attraversano tutte le arti. Non ultima la relazione io/l’altro, la quale si riverbera nella relazione scrittore/lettore; relazione vista «con “spirito di comunità”»: si sta assieme per perdersi ancor più, dove perdersi ha il significato di cercare da sé la propria via, cosparsa, naturalmente, dalla presenza dei suoi autori prediletti. Sebbene una soluzione definitiva alle contraddizioni e alle disuguaglianze sia impossibile, ciò che conta è l’intesa tra i due diversi soggetti: lo scrivente e il lettore. Tale sintonia si stringe ancor di più quando si è nel labirinto, dentro il quale lo smarrimento è inevitabile. Tuttavia, nella loro percorrenza, i due soggetti svilupperanno un dinamismo crescente, «nel segno della vertigine che li accomuna» (dal volume collettaneo Poesia, la vertigine della bellezza, La Corte dei Poeti-Gilgamesh, 2017). Vista dalla specola della sfera politica, si tratta della lotta tra la creazione e la consuetudine, nel senso di indomito compito assunto dal cittadino contro il tentativo di omologazione perseguito dai poteri forti all’interno della società liquida, dove tutti i valori vengono dissolti. Le tesi di Stefano Iori, nate meditando su alcuni punti focali dell’ebraismo, per i quali la parola è centrale, e sulla poesia costituiscono una sfida all’ignoto stesso, poiché non si tratta mai di definizioni preconfezionate, ma  di un dialogo incessante fra voci in lotta tra di loro, così come lo sono la luce e l’ombra, al fine di intravedere nuove vie da esplorare insieme e di ottenerne nuovi slanci e nuovo vigore. Addirittura, darsi la possibilità di traguardare da un labirinto a un altro, di trascorrere da una complessità all’altra giacché, e non risulti un compito ingrato, ossia senza risultati, è il percorso stesso, l’attraversamento, la misura delle prolifiche differenze a evitare il fallimento. È l’essersi eticamente impegnati nella ricerca della propria irriducibilità, nell’aver forgiato il proprio metodo conoscitivo, nel non aver abbandonato l’arduo compito, a dispetto della dimensione dell’incertezza in cui affondiamo, giacché «Scrivendo poesia abbracciamo pratica di vita e di perfezionamento etico e spirituale».

La poesia è labirintica come tutte le forme di conoscenza sapienziali. In questo senso, essa si distingue dalla logica, perché non si sussume in un concetto, ma lo esplora e lo sfonda. La stessa forma sistemica della filosofia si contrappone alla poesia, laddove quest’ultima consente l’accesso all’incomprensibile e all’ineffabile. Eppure, ciò non toglie che ci sia un confine poroso tra le due discipline, per cui entrambe tentano di conquistare alcune porzioni appartenenti all’altra, senza tuttavia mai perdere la propria specificità. È questo il senso dell’intervento di Iori nel volume collettaneo Poesia e Filosofia. I domini contesi, pubblicato dall’associazione La Corte dei Poeti nel 2021, qui riportato. È anche vero che il filosofo e il poeta inseguono entrambi la verità: «combattono l’appiattimento del pensiero liquido dominante, ne costituiscono l’alternativa necessaria», sono custodi della lingua.

Quando il silenzio viene definito «“forma non forma” dei nostri modi di affrontare (pensare) l’ignoto», il lettore ha a disposizione una mappa che non lo obbliga, ma gli indica contatti e allontanamenti, assonanze, disguidi. D’altronde, il silenzio è anche pausa, vuoto bianco tra le parole, alterità che consente l’esistenza stessa del ritmo musicale. È l’albero della vita a simboleggiare gli opposti, il perenne movimento a due, che genera l’altro da sé, il mutamento. L’obiettivo è certamente raggiungere l’equilibrio attraverso un intreccio di «intuizione emotiva e raziocinio». In questo movimento, la memoria assume un ruolo imprescindibile, in quanto, dalla lotta che produce frammenti e residui, solo essa è artefice di una re-invenzione che rilegge ciò che è trascorso, dando vita a una nuova visione del passato che è contemporaneamente nuovo presente e futuro. 

La parola sacro, in questo quadro, si rivela strettamente attorta alla parola utopia: da una parte è necessario ridare sacralità alla vita contro le vie dell’onnipotenza umana che giunge a distruggere il suo stesso ambiente, dall’altra è la visione utopica che, pur in queste difficoltà, può giungere a individuare i cambiamenti necessari. Stefano Iori propone la poesia come prassi che ci fa avvicinare alle istanze più profonde e originarie e ci fa aprire alla nostra essenza umana: «Essa coglie il più profondo senso della vita e tende a farsi essa stessa vita». La speranza che il dialogo fra poeta e lettore, a cui la poesia dà luogo, possa essere ricostitutivo dei valori coincide con il paradosso dell’attesa che è «l’esperienza cruciale di chiunque cerchi di costruire i propri strumenti per sperimentare se stesso e gli altri. Colui che attende trova. La non-attesa garantisce la non-scoperta». È pertanto sempre possibile che l’umanità muti in senso positivo e, a maggior ragione, tale posizione ha, negli attuali frangenti storici, una valenza di non supina accettazione della realtà. Proprio la poesia si pone, grazie al presente insito nella tradizione, come un nuovo modo di vedere e di pensare rivolti verso la direzione del progresso. Spesso, negli editoriali, pare di ascoltare la voce appassionata di Iori che incita a non accettare supinamente le situazioni sociali e politiche in cui siamo immersi. È un invito a ricostruire se stessi e gli altri con i valori letterari, i quali sono gli unici in grado di indirizzarci e di unirci. Seguire Stefano Iori nelle sue rabdomantiche peregrinazioni, che si svolgono toccando il silenzio, il nulla, l’ignoto, è veleggiare su un mare che s’addentra nelle tenebre con l’illuminazione poetica a indicare la rotta.


                                            Rosa Pierno