I testi teorici di Stefano Iori presenti ne L’albero della poesia, pubblicato nel 2025 da Terra d’Ulivi nella collana di saggi Angelus Novus, forniscono un quadro di interessi culturali variegato, approfondito ed esteso. Difatti, i testi pubblicati in saggi precedenti e gli editoriali scritti per rivista «Menabò», da lui diretta, si rivelano estremamente interessanti sia per cogliere in maniera chiara l’orizzonte di riferimento dell’autore sia per valutare, nell’estemporaneità delle occasioni, la mobilità di un pensiero che non si fa assediare da alcun luogo comune sulla poesia, né si chiude in una torre d’avorio. A riprova, si consideri che se è con quest’apertura che Iori ha maturato i suoi editoriali, è anche vero che non ha mai considerato la poesia un valore in assoluto, ma sempre da considerarsi in relazione con altri settori della sapienza umana: la conoscenza filosofica, la valutazione politica, il silenzio, la musica, la creatività, il tempo; idee che attraversano tutte le arti. Non ultima la relazione io/l’altro, la quale si riverbera nella relazione scrittore/lettore; relazione vista «con “spirito di comunità”»: si sta assieme per perdersi ancor più, dove perdersi ha il significato di cercare da sé la propria via, cosparsa, naturalmente, dalla presenza dei suoi autori prediletti. Sebbene una soluzione definitiva alle contraddizioni e alle disuguaglianze sia impossibile, ciò che conta è l’intesa tra i due diversi soggetti: lo scrivente e il lettore. Tale sintonia si stringe ancor di più quando si è nel labirinto, dentro il quale lo smarrimento è inevitabile. Tuttavia, nella loro percorrenza, i due soggetti svilupperanno un dinamismo crescente, «nel segno della vertigine che li accomuna» (dal volume collettaneo Poesia, la vertigine della bellezza, La Corte dei Poeti-Gilgamesh, 2017). Vista dalla specola della sfera politica, si tratta della lotta tra la creazione e la consuetudine, nel senso di indomito compito assunto dal cittadino contro il tentativo di omologazione perseguito dai poteri forti all’interno della società liquida, dove tutti i valori vengono dissolti. Le tesi di Stefano Iori, nate meditando su alcuni punti focali dell’ebraismo, per i quali la parola è centrale, e sulla poesia costituiscono una sfida all’ignoto stesso, poiché non si tratta mai di definizioni preconfezionate, ma di un dialogo incessante fra voci in lotta tra di loro, così come lo sono la luce e l’ombra, al fine di intravedere nuove vie da esplorare insieme e di ottenerne nuovi slanci e nuovo vigore. Addirittura, darsi la possibilità di traguardare da un labirinto a un altro, di trascorrere da una complessità all’altra giacché, e non risulti un compito ingrato, ossia senza risultati, è il percorso stesso, l’attraversamento, la misura delle prolifiche differenze a evitare il fallimento. È l’essersi eticamente impegnati nella ricerca della propria irriducibilità, nell’aver forgiato il proprio metodo conoscitivo, nel non aver abbandonato l’arduo compito, a dispetto della dimensione dell’incertezza in cui affondiamo, giacché «Scrivendo poesia abbracciamo pratica di vita e di perfezionamento etico e spirituale».
La poesia è labirintica come tutte le forme di conoscenza sapienziali. In questo senso, essa si distingue dalla logica, perché non si sussume in un concetto, ma lo esplora e lo sfonda. La stessa forma sistemica della filosofia si contrappone alla poesia, laddove quest’ultima consente l’accesso all’incomprensibile e all’ineffabile. Eppure, ciò non toglie che ci sia un confine poroso tra le due discipline, per cui entrambe tentano di conquistare alcune porzioni appartenenti all’altra, senza tuttavia mai perdere la propria specificità. È questo il senso dell’intervento di Iori nel volume collettaneo Poesia e Filosofia. I domini contesi, pubblicato dall’associazione La Corte dei Poeti nel 2021, qui riportato. È anche vero che il filosofo e il poeta inseguono entrambi la verità: «combattono l’appiattimento del pensiero liquido dominante, ne costituiscono l’alternativa necessaria», sono custodi della lingua.
Quando il silenzio viene definito «“forma non forma” dei nostri modi di affrontare (pensare) l’ignoto», il lettore ha a disposizione una mappa che non lo obbliga, ma gli indica contatti e allontanamenti, assonanze, disguidi. D’altronde, il silenzio è anche pausa, vuoto bianco tra le parole, alterità che consente l’esistenza stessa del ritmo musicale. È l’albero della vita a simboleggiare gli opposti, il perenne movimento a due, che genera l’altro da sé, il mutamento. L’obiettivo è certamente raggiungere l’equilibrio attraverso un intreccio di «intuizione emotiva e raziocinio». In questo movimento, la memoria assume un ruolo imprescindibile, in quanto, dalla lotta che produce frammenti e residui, solo essa è artefice di una re-invenzione che rilegge ciò che è trascorso, dando vita a una nuova visione del passato che è contemporaneamente nuovo presente e futuro.
La parola sacro, in questo quadro, si rivela strettamente attorta alla parola utopia: da una parte è necessario ridare sacralità alla vita contro le vie dell’onnipotenza umana che giunge a distruggere il suo stesso ambiente, dall’altra è la visione utopica che, pur in queste difficoltà, può giungere a individuare i cambiamenti necessari. Stefano Iori propone la poesia come prassi che ci fa avvicinare alle istanze più profonde e originarie e ci fa aprire alla nostra essenza umana: «Essa coglie il più profondo senso della vita e tende a farsi essa stessa vita». La speranza che il dialogo fra poeta e lettore, a cui la poesia dà luogo, possa essere ricostitutivo dei valori coincide con il paradosso dell’attesa che è «l’esperienza cruciale di chiunque cerchi di costruire i propri strumenti per sperimentare se stesso e gli altri. Colui che attende trova. La non-attesa garantisce la non-scoperta». È pertanto sempre possibile che l’umanità muti in senso positivo e, a maggior ragione, tale posizione ha, negli attuali frangenti storici, una valenza di non supina accettazione della realtà. Proprio la poesia si pone, grazie al presente insito nella tradizione, come un nuovo modo di vedere e di pensare rivolti verso la direzione del progresso. Spesso, negli editoriali, pare di ascoltare la voce appassionata di Iori che incita a non accettare supinamente le situazioni sociali e politiche in cui siamo immersi. È un invito a ricostruire se stessi e gli altri con i valori letterari, i quali sono gli unici in grado di indirizzarci e di unirci. Seguire Stefano Iori nelle sue rabdomantiche peregrinazioni, che si svolgono toccando il silenzio, il nulla, l’ignoto, è veleggiare su un mare che s’addentra nelle tenebre con l’illuminazione poetica a indicare la rotta.
Rosa Pierno
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