mercoledì 12 novembre 2025

Marina Bindella “Gli occhi del cielo”, spazio espositivo Blocco 13, Roma, dal 18/10 al 18/11 2025

 


Nella mostra di Marina Bindella Gli occhi del cielo, allo spazio espositivo galleria Blocco 13, l’opera principale, che rappresenta la carta del cielo, introietta e sussume  tutto lo spazio espositivo. Ora è ad essa che si attribuisce l’estensione spaziale. Come a dire che il vasto cielo coincide con la sua rappresentazione e non con la realtà, che è stata solo un pretesto per la sua concezione. Nessuna mimesi; una sostituzione esemplare. Ad essa d’ora in poi si rivolgerà il fruitore per percorrere lo spazio, per farne esperienza.

Se la relazione fra il macrocosmo e il microcosmo appare una concezione culturale inamovibile, tant’è che la mostra si intitola, appunto, Gli occhi del cielo, dove gli astri equivalgono a pupille e le orbite dei pianeti alle palpebre, si deduce che le analogie recano con loro, a grappolo, altre analogie, variamente annidate in quelle che appaiono caselle cilestri e caselle tinte di rosa antico. Ne offriamo solo qualche accenno: tali similitudini sono solo apparentemente coppie di opposti; in realtà, designano relazioni che si dipanano senza soluzioni di continuità, ma hanno la forma discreta che è tipica della griglia. Cosicché forma/colore, materia/fantasma, opacità/trasparenza, rilievo/superficie piatta si distinguono per la loro posizione, ma non si distinguono nella loro opposizione. Sono appunto analogie, non concetti.

L’opera è formata da otto pannelli quadrati costruiti mediante un cartone ondulato incollato su tela. Alle regolarità parallele del cartone ondulato, Marina Bindella ha imposto linee verticali che si susseguono sviluppando dei multipli, le cui dimensioni diverse segnano la scala della rappresentazione. Equivalgono a porzioni diverse di un medesimo oggetto visto da distanze differenti. Ciò sembrerebbe far pensare che l’infinito sia richiamato dal finito: basterebbe allontanarsi per vedere sempre di più. Tuttavia, esiste il finito tra due numeri finiti e Achille raggiunge la tartaruga. Ma l’effetto è che il concetto dell’infinito è così evocato; ora è interno al quadro; è stato intrappolato come da una carta moschicida, al modo stesso dello sguardo. 

Le scansioni verticali e orizzontali prefigurano la presenza della geometria come se essa fosse quell’intervento, tutto umano, che incredibilmente quadra col mondo, individuando un ennesimo paradosso. Le vasche, intrappolate in codeste griglie, ricevono colore, ma intercettando le linee curve, che tracciano orbite e astri, si arricchiscono di ulteriori confini al proprio interno. La superficie che possiede rilievi mimimi non sembra più averne dal punto di vista visivo: essi sono rilevabili solo al tatto. Ecco una realtà nascosta all’occhio che osserva l’opera e questa volta l’occhio non è quello del cielo, ma del fruitore. 

Nondimeno, l’artista è sempre in agguato e mediante la creazione dispone del suo personale creato. È il mondo ideato, quello che infilza analogie e si pone al posto delle cose stesse. È il mondo della variazione seriale, ove se le ombre calano è per via dell’intensificarsi di puntini, un nugolo imprecisato con estensione nulla che si dispone come una nuvola di gas nei cieli iperurani. Il colore stesso è celestiale: scelto fra una gamma di celesti intensi o labili e di rosa carmini che impallidiscono fino allo svanimento. Anche il colore, dunque, crea un’oscillazione tra questi estremi cromatici e batte un tempo come se si trattasse solo di segnalare la sua stessa presenza o assenza, scansionato, a sua volta, sui ritmi precisi e ineludibili delle verticali. Il colore a questo punto oppone pulsioni alla scansione ritmica delle verticali. Il pigmento (acrilico o acquarello), a cui è stata sottratta la forma, avendogli donato l’artista una struttura per le variazioni cromatiche, si neutralizza assumendo solo una delle due variabili a sua disposizione: puro colore o forma colorata.  L’oscillazione celeste/rosa, serve a dotare di  profondità l’interno della casella, variazione che opera a livello strutturale. E, a un altro livello, funziona come un codice a tre valori: variazione susseguente, variazione precedente, a cui si aggiunge la variazione cromatica. L’occhio s’incapsula nelle cellette, mentre un meccanismo a grande scala lo trascina nelle orbite ellittiche del meccanismo che richiama quell’orologio a cui spesso è stato paragonato il cosmo. 

Il tempo, esaltato dal ritmo geometrico, pure, si stempera in relazione alle diverse distanze da cui può essere rilevato. Non c’entra il concetto di reversibilità; è semplicemente qualcosa di relativo a un contesto, a una distanza. L’emotività assume lo stesso valore: sempre attiva, ma la sua punta si presenta arrotondata, addolcita dall’erosione a cui il tempo l’ha sottoposta e tuttavia persistente quanto il respiro. Non sfugge, certamente, il lavoro, durato un anno, necessario alla realizzazione dell’opera.

Resta la meraviglia per un’opera che di sicuro rivela come la sua costruzione  sia incernierata a concetti filosofici specifici. C’era uno scavo ancora da compiere a partire da Dorazio, qualcosa da recuperare per mostrare che cosa farsene della variazione. Come costruire letteralmente mondi, anziché lacerti; visioni anziché paradigmi.


                  Rosa Pierno


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