lunedì 14 novembre 2022

Giulia Napoleone e Osvaldo Coluccino in “Essenze, assenze”, libro d’artista, 2022






Essenze, assenze, è il libro d’artista in 9 copie, con 3 poesie inedite di Osvaldo Coluccino, Essenza della montagna, Unione con le assenze e Il viaggio di ritorno, tratte dalla raccolta Quale leggerezza, e con 9 opere originali (una per ciascuna copia) di Giulia Napoleone, edizioni Rodriguez, Pescara, 2022.


Fra Giulia Napoleone e Osvaldo Coluccino sussiste un naturale legame: le loro sensibilità, che sono entrambe definibili come “estroflesso animo”, hanno la naturale tendenza a distillare essenze dal variegato, illusorio, aspetto. Una esemplare citazione, da Unione con le assenze, al fine di dimostrare la eterogeneità degli elementi in gioco, è “Da luce assente già incarnata”, in quanto vi gioca inesausto il rapporto tra entità non riassorbibili l’una nell’altra. Incorporeo, invisibile, materico sembrano consustanziali e, tuttavia, radicalmente estranei, tanto che il passaggio tra l’oggetto che è all’origine del dato percettivo, e la sua elaborazione concettuale sembra disturbata, incompiuta; sorgiva e caduca allo stesso tempo. Si vedano i primi versi di Essenza della montagna, la prima delle tre poesie di Coluccino. 

Viene in mente il mito della caverna di Platone, nella interpretazione idealista di George Berkley, il quale afferma che gli uomini non conoscono direttamente i veri oggetti di cui è costituito il mondo: piuttosto, ne conoscono soltanto l'effetto che la realtà esterna ha sulla loro mente, sicché quando si osserva un oggetto, si ottiene una semplice rappresentazione mentale del "vero" oggetto della realtà esterna. Per Platone, invece, le forme conosciute dalla ragione e non dalla percezione sono quelle vere, reali.


La visione che si dispiega nel libro d’artista di Giulia e Osvaldo, ossimorica e perturbante, mette d’altronde sull’avviso: come dal concreto si passi all’astratto dopo elaborazione personalissima, è questione che si mostra già allo sguardo, essere univoca nel bersaglio, ma operata da mobilissima posizione, opposta o a tratti non individuabile, giacché le essenze incorporano irrimediabilmente i percetti.

Se per Giulia le essenze sono metafisici concetti, ottenuti tramite trasformazioni che tendono alla geometria, conformazioni naturali di partenza da cui sono stati  sfrondati via via i dettagli corporei, cosicché divengono sempre più eteree, ma mai al punto da perdere il loro referente sostanziale, per Coluccino, s’intravedono boe saldamente disseminate, concretissime, che reggono il filo dei suoi sorvoli. Il rimbalzo è continuo e forse è più un filo che lega assieme le diverse percezioni, odore, suono, anziché un tentativo di disincagliarsene per risalire all’astrazione. Perché per Coluccino sembra essere questo il quid: le percezioni si danno assieme e appaiono non districabili, mentre la lingua non può che separare e forzosamente tentare la risalita a una impossibile distinta origine percettiva. Ma l’essenza per lui è, appunto, un assente.

Napoleone e Coluccino hanno entrambi studiato musica e credo che sia un elemento da tenere costantemente presente, mentre si sfogliano le loro ragguardevoli pagine. Ecco, la musica forse è l’assente presentissimo! 

Propenderei per un’affermazione trachant: tutto il resto è l’inevitabile mare di detriti che gli autori portano con sé nell’impresa di mostrare la distanza tra concreto e astratto  (mare, cielo, onda, viaggio), tra mente che sente/ pensa / percepisce e realtà stolida e ottusa. Tra elaborazione percettiva, ombra ed essenza assente. L’essenza come mistero mallarmeano: pur utilizzando una forma conchiusa, Coluccino rende il linguaggio vibrante, in senso semantico, attivandone la capacità evocativa, non descrittiva, né definitoria.


L’azzurro utilizzato da Napoleone per rappresentare di volta in volta, con le diverse tonalità, il mare e il cielo, ha un grado di astrazione che prefigura che  l’essenza sia, in realtà, il vero dato rappresentato, quasi ciò che di comune resta fra mare e cielo dopo che siano stati sottoposti al filtro che opera la decantazione. Potere dell’artificio,  quando realizzato da un maestro!

Coluccino dispiega davanti ai nostri occhi una cartografia vivente, con oggetti e persone (dee, figure, oggetti), in un racconto quasi lineare, mentre di fatto sta narrando di oggetti franti, provenienti da narrazioni prelevate dalla tradizione. D’altra parte, la tradizione è il repertorio costruito dal linguaggio (o dall’arte o dalla composizione musicale). I frammenti risultano utili proprio perché sono andate in frantumi anche le relazioni consuete, risultando così più maneggevoli per costruire relazioni tra percezioni ed essenza dove non si rintraccia più un legame diretto.

Ecco, in sintesi, quale sia l’unione e quale la differenza tra Napoleone e Coluccino: entrambe sono racchiuse insieme nel periglioso viaggio intorno alla mente a partire dalla materia, che è il libro Essenze, assenze.



Di seguito, le tre poesie di Osvaldo Coluccino dalla raccolta inedita Quale leggerezza (1990).



Essenza della montagna



Chi posò premendo in danza l’ala,

Alla montagna carpì incarnati,

Per tritarne fermezza, essenza 

Avendone, con diligenza, all’ombra 

D’effimero paese ai piedi, riportata.


In sipariate rocce abita inaudito suono

E invitano sensibili le tempie appoggiarsi

Per cercarlo e nobile sede venerare,

Che adempia alle suppliche d’indire,

Con fumi cauti e riverberi, la scena.


La allestirebbe, e accosta, il suo senso, 

Che sfugge o lo s’ignora, reciterebbe,

E appresso recherebbe una cesta, 

Sul proscenio naturale, chi le piante 

Spiega a ogni istante, sempre munifica, 

L’oreade, dei suoi frutti chiari.


Invero non v’è altra reggia al mondo

Con magione e trono tanto oscuri,

E verità, fra rovi, non discopre che d’aroma:

Sedimenta, come insegna di caverna, 

Sull’ingresso ove inizia a interdire, 

Silenzio, contenersi tanto strenuo sino 

Al conflagrare, all’imbocco, d’un effluvio.


Così chiama, quando in sorte quel 

Profumo ha di vagare, e bacia un respiro, 

Quando il manto allunga, e concede, 

Dei nidaci e il ludo sospeso fra 

Ammontati rami, fermentati e lesti 

A intrecciare fragranze quanto 

Alacri voci, nell’attimo intesi 

Operare con bando, sospiri. 


Il volatile adagio volteggiando si aggira

Sui bui olezzi e s’arrovella, per intendere,

Frale, tanto fine con mira cui salgono.

« Quale spirito dotato di visitatore, 

Fra leggi di roveti e attese, trasmigrato 

Dal costume montano che agogna,

Saprà schiudere la mia lassa grotta

Riposta nello splendore inferito? »


Dalle pendici (gli abeti 

Brillanti per i riflessi in volo) 

Alla testa della montagna, che,

Largendo qualche vaga assonanza,

Confortava l’alone vaporoso dei frulli. 


Alle falde del monte lasciata, 

Ove morì, l’ala, il fossile che, 

Ai pesi negato, s’infisse.





Unione con le assenze



Vive, sui vetri imperlati,

Anche al destino ignote,

Riescono ad arrivare,

E con magia incontrano. 

Sopravvivono se cancella

Agile un appanno arrampicato.

E ci si presentano, estroflesso 

Animo, lì nei tiepidi colori 

Alla finestra, ove fungono 

Da luce assente già incarnata,

E narici calzano quell’aria,

Che impregnata manda, d’evasione,

La sua essenza a appartenere,

Liberata dalla storia, a un’unione.


Ora al desco sono acuti 

Angoli smussati, per ambire, 

Dal principio, a conciliare,

E già confida la bevanda 

Nel non più suo, ma di miscela, 

Fido succo, ed è speranza 

Delle sedie, afflati accanto

Aggregare d’un sol fiato.


Ci si stringono le più prossime

E si pèrdono i contrasti. 

E appianati sono i ceti 

E le parvenze distintive.

Di chi più, nelle bizze, 

S’inarca il sopracciglio

Per alludere a rivalità?

Essere, in piena assemblea, 

Contigui a estraneità, e dove, 

Spinti fra i traguardi, di regola 

I princìpi si tramezzano,

Ora, insegne d’uguaglianza,

Nei riguardi dell’altro stendardo,

Sprizzare comunione come luci.


Nel risveglio d’avvento

Le si scorga a sussistere, 

Nel croscio di alba

L’alzarsi fedele mattino,

Nelle grida di corvi incitare, 

E nello stirarsi di diafani, 

Che annunciano smalti, 

Primi raggi solari.


Lungo, e restando fedele a,

Un piacere di fiorire,

E sempre, ove s’alza esortante

Il germogliare nuovo, 

E scoprendo una feritoia 

Che per metà faccia intuire,

Un buon tappeto regalato,

In cui, fra il velame naturale,

S’intessono e accolgono. 


Ora, in cunicoli e vasi scivolate,

Si avviano alle nostre strutture calde,

Modo d’oliare, aggiustare un animo 

Labile della loro, balsamica, affezione.

È dentro, il nostro sisma còlto

Che piallano e sfebbrano, e, 

Di barbaro gualcire e disperate 

Danze, spezzano il gran ritmo.


Ma giungono alla fine del viaggio…

Nei volti familiari lacrime,

La fronte nelle mani 

– Per l’oltraggio dell’addio.

Una scolla il braccio mestamente,

Come in principio l’amicizia 

Accollava, mentre arretra.


Freddo nella sera un gran falò.

Trema nel deserto, a braccia chiuse,

E non più fuma, nera brace,

Abbandonata unione.


Nel trasposto termico l’accomiato 

E ciò che riduce a un mirarle;

Dalla finestra, entro lo spazio 

Ormai di casa, come prima. 

E si pavoneggiano, patetici, 

Palliativi tronfi, processi veri

D’introiezione d’un’infima cura.




Il viaggio di ritorno



Conserva, lana ostile, il viaggio addosso.

Tutto, onerosa cassa di dovizie, 

Porta, sul suo fondo e al derma,

Somatica malattia d’esistere.


Ritornando verso quel suo ambiente antico, 

Quando le movenze d’ansito sospingono

All’indietro, si riprende, se lo aspettano, 

Le apparenze rarefatte di una volta. 

Magia che, toltagli, ora girovaga qui

Colpendo la sua ombra, illusa, sulla nuda terra. 


Io sono io, e il mio perdono

Purché non mi somigli più 

Fantasma dall’affetto untore! 


Crescesse, a quell’origine riandasse,

Sferzando il vezzo di sperare, 

Estinti il ruolo e la funzione, 

Annientata volontà, l’essenza. 

Ancora visti vivi, ma per salutarli,

I passi, e non riaverli in peso 

Come osare, su proibitive tracce,

Ancora e ancora…





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