lunedì 20 settembre 2021

Roberto Pellegrini “Ateliers”, sedici ritratti di artisti fotografati nei loro Ateliers. Hyunnart Studio, Roma




Hyunnart Studio, Roma

da sabato 25 settembre ore 18

25/09/2021 – 25/010/2021


Appostato nel suo studio come su una tela di ragno che lui stesso ha provveduto a secernere, l’artista appare vieppiù immobile nel ritratto fotografico che Roberto Pellegrini  ordisce. Il fotografo svizzero prosegue la sua ricerca sullo spazio – iniziata fin  dal 2009, con  l’indagine sulle coppie oppositive ‘pieno e vuoto’, ‘sopra e sotto’, ‘dentro e fuori’ – presentando  a Roma, presso lo spazio hyunnart, la mostra Ateliers, nella quale le fotografie (cm. 100 x 70) di sedici artisti sono proiezioni luminose intorno alle quali lo spazio del loro laboratorio artistico si raggruma come fosse una concrezione fisica. L’intento di Pellegrini difatti è quello di fotografare tale spazio e non l’artista, se non in seconda battuta, sebbene la potenza luminosa emanata da quest’ultimo sia inversamente proporzionale all’interesse del fotografo. Non si tratta, dunque, di rendere qualcosa dell’artista come potrebbe farlo un ritratto. È lo spazio l’elemento da scoprire. L’atelier è il cuore cavo avvolto dalla penombra, è il luogo generato dalla personalità creativa tramite utensili, ingombri, opere. In quell’area non esplorata, piena zeppa di tranelli, a volte caotica, si delineano quelle caratteristiche spaziali che attraggono Pellegrini in modo ossessivo e lungimirante. 


Rendere palpabile lo spazio è azione che mira a scrollarlo dalla nicchia dove lo colloca l’idealizzazione al fine di coglierlo nelle sue occorrenze contingenti e irripetibili. Lo spazio per un artista è sempre concreto, tuttavia, il suo luogo di lavoro è la risorsa meno esplorata quando si studia la sua personalità. Illuminato fino ad apparire ritagliato dalla luce, l’artista vi torreggia, ma il peso dello spazio in penombra riequilibra quello della sua figura, in quanto emerge come parte oscura dell’individualità artistica. Non si tratta del semplice rapporto conscio/inconscio, ma del lato faber dell’essere umano, il quale nel proprio antro ha ammassato e ricostruito il mondo a sua immagine e somiglianza. L’emersione del rapporto tra luce e ombra, fortemente dialogizzato, è ottenuto da Roberto Pellegrini tranciando qualsiasi relazione tra artista e spazio, tra gesto e utensili e producendo di fatto un’alterità irrisolvibile, segnalandoci, appunto, una doppiezza nella fotografia: si tratta di una relazione di sola verosimiglianza rispetto alla realtà. Inoltre, Pellegrini sceglie la posizione in cui l’artista deve collocarsi, dopo aver deciso la sezione del cono prospettico, che assicura la visibilità dell’intero ambiente. Con esso, Pellegrini crea una specie di prolungamento, di deformazione, di falsa prospettiva; ed è grazie ad esso, pura invenzione del fotografo svizzero, che lo sguardo del fruitore sembra convergere su due fuochi. Se lo spazio è sempre una costruzione, si assiste in codeste fotografie a una costruzione al quadrato: lo spazio è prodotto dal fotografo che guarda lo spazio prodotto dall’artista.


La mostra presenta dodici dei trentaquattro scatti già presentati presso il Museo e Centro Culturale Elisarion di Minusio nel 2018: Pascal Murer, a figura intera, integralmente circondato dalle sue sculture; Gianfredo Camesi, seduto fra le sue opere seriali, ordinatissime; Guido Strazza intercettante la luce proveniente dai fogli; Giulia Napoleone  quasi fluttuante nella luminosità dalle sue opere blu, mentre Loredana Müller spunta fra quadri e utensili disposti senza soluzione di continuità. È possibile scorgere Paolo Di Capua fra le sue costruzioni lignee come attraverso le paratìe di una fortezza; Fabiola Quezada si staglia lungo una direttrice defilata e centrale al tempo stesso; Klaus Prior, in piedi come su una tolda, è il punto focale dell’intero spazio; Cesare Lucchini domina l’ambiente che valorizza il vuoto; Simona Bellini guarda verso lo spazio esterno; Fiorenza Bassetti toccando una sua installazione sembra farne parte; Paul Wiedmer appare via via rimpicciolirsi rispetto al giganteggiare dei propri utensili.

La mostra si arricchisce anche degli ultimi quattro scatti, effettuati,  fra il 2020 e il 2021,    presso gli atelier di Paola Fonticoli, Marina Bindella, Ettore Consolazione e Ernesto Porcari: la loro distanza dall’ambiente nel quale pure si collocano appare asintoticamente maggiore di quel che è nella realtà, denunziando un’alterazione ancora più marcata fra spazio esistenziale e spazio artistico.


Può dirsi, al fine, che Roberto Pellegrini getti una luce sullo spazio costruito e sul suo costruttore per meglio deviare. Geniale stratagemma per far emergere quell’io che ogni giorno cerca di attingere al mondo delle forme. Il buio in cui Pellegrini affonda lo studio è solo un modo per ricreare il luogo dell’interiorità, mostrando la tenzone mai risolta tra stato interno e forma prodotta. Lo iato è evidentemente non suturabile, ma val la pena di indagarlo per rintracciare una, anche solo supposta, corrispondenza tra l’artista e la sua produzione. Dinanzi alla macchina visiva architettata da Pellegrini, si ha l’impressione che la motivazione tra la presenza degli oggetti e il lavoro artistico comunque sfugga. Il rebus non va risolto, va solo assaporato. La persona posta sotto il faro diviene emblema, non chiave per decifrare il luogo. La costruzione scenografica di Pellegrini ha già predisposto alcune equivalenze a cui il fruitore non potrà mancare di prestare attenzione e che sono quelle meno agevoli da decifrare. Innanzitutto, la voluta oscurità in cui è immerso l’ambiente, con le ombre liquide, semoventi, rispetto alle quali la fissità dell’artista ritratto risulta ancora più radicale. L’ombra appare come oggetto fra altri oggetti, non un effetto della luce: un’addizione che è funzione dello spazio: sua diretta emanazione. Così, mentre lo spazio diviene via via più penetrabile, il fruitore si sfila dalle maglie della realtà e aggancia quelle dell’interiorità. Un’interiorità, e a questo punto è chiaro, soltanto immaginata.


Se vediamo la persona ritratta e le opere artistiche prodotte, ma non vediamo il fotografo, a cui lo sguardo degli artisti è rivolto, è perché vi è una sorta di estraniante incastro che altera, specchiandole in reiterate traiettorie, le reali componenti in gioco.  Non è un caso che in codesti laboratori artistici, l’opera non sia in bella mostra: in alcune fotografie non è facilmente individuabile, in altre non c’è affatto. Forse l’opera è la cosa meno importante in un atelier. È quest’ultimo a costituire la fucina delle meraviglie, l’antro dell’improbabile, il luogo costipato da cui un’opera d’arte nasce. L’artista, creatore di ogni accadimento nella propria grotta, sottopone all’incertezza visiva del nostro rapinoso sguardo una pluralità di tracce e frammenti. Noi sappiamo che ogni atelier è un’isola dal cui incantamento non possiamo tenerci distanti e al di là della camera fotografica di Roberto Pellegrini possiamo difatti udire distintamente il suadente canto delle sirene.


                                                                                      Rosa Pierno 




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