mercoledì 13 luglio 2016

Seconda parte del testo "Cuffie deserte" di Gilberto Isella





  [INTERMEZZO ONIRICO, LABIRINTICO RISVEGLIO]


   Strisciamo nella pre-torba. Immagini morbide di morte serpeggiano tra le meningi, il pulviscolo intasa i timpani, si preparano scatti sinaptici sostitutivi. La palta confina con le  tomaie cerebrali, diventa il loro torbido confine. Su di esse cala una cuffia intasata di cacofonie ghiaiose, che volgono in gutturale sospiro. Fossimo almeno su terre. Trasciniamo, lottando col fango, un rugginoso carro (forse) stipato di attrezzi. Vorremmo pregare e in pari tempo bestemmiare. Sul carro spira vento acre, non ne conosciamo provenienza. Fa stridere impugnature ma è scomparso il corpo dell’arnese, vanga o piccone che forse, di malavoglia, un tempo usavamo. Del lumacume invischia le nostre affondanti calzature, tumidore di mollusco attenta le zone alte del fortino corporeo, o quel che rimane di esso. Sentiamo il risucchio delle gambe nei calcagni, il cigolio cadenzato delle vertebre dorsali, nessuna delle quali sta ferma al suo posto. Squittio in sordina. Si formano intercapedini. Tra le vertebre passa un volo di pipistrelli, finché ci prende voglia arcana di separarci da noi stessi, gridiamo “aiuto” al dio bendato che preme sulle cuffie. Il carro si arresta al limitare di una massa di organismi violacei, si svuota. Si svuota di noi, felici perché il nostro dissolversi, per quanto accumuli densi vapori e caligini, è corollario di vita. Contenti di trasformarci in riserva paludosa, biotopo dal volto cangiante. Siamo impasto di rane e canne elaborato da un ventriloquo in noi vento notturno, porzioni di prolungamento palafitticolo, magma da supporto a cemento armato
in espansione, tenero albergo Hered
                                con camini e camere
                                                   ardenti, verso cui
                                                                            esaliamo
                                              • • •

                                                 
                                              

                                                      Alla vendemmia ferita di noi morti non satolli
                                                      portaci un vassoio di locuste in allegria,
                                                      impenitenti dal tempo del deserto.
                                                                                                             Emilio Villa 

  Locuste non incombono, o solo su display mentale. Voli di storni sì, appena visibili in lontananza, il motore affronta, rimodulandole, placche elevate e falsopiani. Qualche raro giuggiolo e palmizio, oltre a rabberciati, spinacciuti cespugli non identificabili. Yoram, taciturno, si limita a segnalarci il passaggio di due ieratiche cicogne delle steppe. Probabilmente domani avrà qualcosa di meglio da dirci. La sonnolenza postprandiale è vinta dalla certezza di avvicinarsi alla regione di Makhtesh Ramon, il cratere spento.
   È curioso come, percorrendo un deserto, l’individuo tenda a rompere i ponti con lo spaziotempo reale, l’occhio si sfogli e sfarini, obliteri il generico panorama esterno, si arrotoli nelle celle disabitate dell’io. “Veni creator Spiritus/ mentes tuorum visita”, supplico tra me e me, cercando un virgulto nella misterica preghiera di Rabano Mauro. A poco a poco, quasi timidamente e senza violenza alcuna, il deserto ritira al viaggiatore il pensiero – passaporto inutile per questo imperscrutabile faccia a faccia  -  e se lo serba in pegno. Gli offre, per risarcirlo, una tabula rasa, il vuoto del ricominciamento, le campate dell’ascolto e della responsabilità. Silenzio da decifrare, ma nell’attesa di un codice che per consuetudine ansima, stenta.
    Emilia è concentrata su Giuda, al capitolo dove si parla dell’esodo di Shemuel: “Qualche mese prima aveva letto sul giornale di una nuova cittadina che stavano costruendo nel deserto, sul bordo del cratere di Ramon. Non conosceva anima viva lì…”, e aggiunge a voce alta: “E noi stiamo proprio per arrivarci!”. “Vi state familiarizzando col Neghev?” interviene con discrezione Yoram, “peccato siate venuti in tarda primavera. Per capire il senso profondo del deserto, almeno secondo noi ebrei, è indispensabile mettere in relazione la sabbia con la tenda. Se ci tornate in autunno potrete partecipare al Sukkot, che è la Festa delle Tende o dei Tabernacoli. Rimemora e celebra l’erranza degli Israeliti nel deserto durata quarant’anni, prima di raggiungere la Terra promessa. In quel periodo, appunto, essi vivevano in tende o capanne. Per voi, beh, ora c’è il lussuoso albergo Tiféret… immaginatelo una tenda di pietra, seppure dotata di conforti elettronici. Buona fortuna, vengo a prendervi domani”.

   Nel cuore dell’altopiano la pionieristica, poco attrattiva città di Mizpe Ramon si snoda alle pendici dell’enorme cavità, il Makhtesh Ramon, che sprofonda per quattrocento metri di collera divina e asteroidea, mandando in polvere mappe e piani cartesiani. Una prosecuzione filosofica, una replica lavica del Mar Morto. L’avveniristico albergo Tiféret – eccolo svettare  - strutturato in moduli abitativi simmetrici e in sostanza niente male dal profilo archi-teatrico. Ogni sua suite dispone di piscina, collocata sotto l’ampio balcone. Aggetta spavaldo sul cratere, costringendo per così dire gli ospiti a mutarsi in ossessivi fruitori di vertigini, a trottolare nottetempo con turbini giallo-ocra. Ramon multiprospettico,  palestra di sguardi rientranti, onirici. Il convesso sistemato a bivacco sul concavo,  carapace frenato sull’orlo dell’abisso. Comunico a Emilia, che, non appena riposta la valigia sul letto, impaziente vorrebbe sgranare
                                                                                         sgranare il rosario dei gradini e toccare uscio,  incamminarsi sui ciglioni aspri e slabbrati del paesaggio che ammicca oltre la finestra, le comunico un pensiero d’allocco: “Ci troviamo in una proiezione distorta dell’eternità, nel suo rassicurante simulacro postmoderno”. “Ave, cervello in tilt”, conclude lei. Le replicherei volentieri che ogni punto di vista umano, il mio il suo, è solo un infimo frammento
                                                                                                            un infimo frammento del deserto occhiuto che si sbriciola in noi da sempre, coronato da un bianco che nulla emana e nulla trattiene, il metafisico bianco delle pagine  bianche. Che siamo giunti a un sito dove l’interno non si distingue dall’esterno perché, come dice Edmond Jabès, “Il dentro e il fuori sono soltanto la parte arbitraria della divisione di un infinito-tempo, per cui ogni minuto rimette costantemente in causa il centro”. Centro e soglia a piacimento. La soglia simbolica di tutte le case d’Israele, dove accanto alla porta d’entrata trovi un astuccio metallico contenente la Thorà. Domestica voragine in forma di spilla, fissata al muro come un geco incolore. Parola divina che si occulta per difendersi dalla violenza di un mondo autarchico che ha ripudiato le proprie soglie.

    Scrutato da presso, nella sua evidenza geologica, il cratere non presenta granché  a parte il fascino crudele del dislivello: una lunga faglia piatta, si dice popolata da feroci ma invisibili leopardi. Il cratere ripercorso nella rêverie, invece, gola frastagliata e gravida di effetti ottici, è chimera siderale. Basta un capogiro, un lieve sbalzo di pressione, e inquiete sagome si levano.
   Saliamo  la  sterrata, breve tratto. Ci teniamo per mano, avanzando con le scintille negli occhi, sono folletti di fuoco estromessi dalle mobili soglie del circostante.  Improvvisiamo una ronda intorno alla gran bocca defunta che veglia su di noi. Sfaccettature di panorama polimorfo. Nervature, ripiegamenti, fenditure e spuntoni di roccia si mutano in spire, quasi volessero avvolgere  fettine d’universo tornate d’improvviso diafane e imponderabili, umida insorgenza. Alle spalle il guscio sonnacchioso del Tiféret. Modesti esercizi d’equilibrio: lanciamo ciottoli nella gran buca, oh non piombano, scendono come piume! Un sorriso, poi qualcosa succede. La buca si sta riempiendo di tende rotonde, o forse  sono altra cosa, distanza inganna. Che siano le testoline già conosciute da noi  nel Mar Morto, consegnate per un attimo fuggente a lave e basalti? Cuffie d’uomo che voleranno via, e  qualche falcone di passaggio le carpirà. Si alza, improvviso, il vento rosicchiante del crepuscolo, torniamo sui nostri passi, rientriamo nell’effimera tenda abramitica, per un pugnetto di ore. 

  Ospitalità, solo fisico passaggio, transito di anonimi. Nella sua sciagurata maestà il deserto ti costringe a un simboleggiare impotente. Accumulo di tracce che non hanno direzione, orientamento. Forza della terra nuda che  ti trattiene e nel contempo espelle dal suo grembo, ti getta nella specchiera della  disparizione. Ora il tramonto getta bagliori obliqui, l’atmosfera  si ripigmenta, straterelli di tinte friabili che volgono al cupo,  e allora perché
                                                                                                 perché rimanere così a lungo in questa camera? “Vieni, corri sul balcone”, la voce di Emilia mi scioglie dal torpore, “ma non dire una parola”. Lì sotto uno stambecco del deserto, occhi bruni e corna alpestri, attratto dal richiamo dell’elemento vitale, si sta abbeverando alla piscina. Assorto, non si cura di noi. “Come la cerva sospira le sorgenti dell’acque, l’anima mia ti desidera…” (Salmo 42). Icona della terra, il suo esilissimo invìo di luce maculata ci accompagna giù per la scala.
 E domani, nel vortice del tempo, questo giorno sarà un giorno qualsiasi trascorso, una  locusta errante.                                                                                     

     



     

Un frammento inedito


Pagine di muro gerosolimitano


 Quel terreno non ha nome che ne inquadri zone, nessun raccoglimento lo piega a vela, pietre gemelle solo a emanare orienti
uniformi che si annerano.
  
   Hakotel Hama’aravi, tempio di Salomone. Parete il cui duro sasso piange, e tutt’intorno le pagine di un libro. Assonometria cupa, cucita nel provvisorio aperto. Pagine non in ascesa non in discesa, nubili èsche. Viaggiano per tramite di aere fermo, direzione informulabile, formano alta piramide dalle cento facce-fogli. Cento facce, altrettante ecatombi? Scorze che procedono, camminano nel mondo, poi nell’oscurità convergono.
   Emilia ed io avevamo passeggiato su una scorza di tappeto. Tappeto, lungo fulmine piatto, carro di concatenati tizzoni, mormorativa lingua di soli nodi dipinti, tappeto uguale a libro di lentissime stille. Dona flusso, perché deriva dall’albero di pianto e conoscenza. L’aveva scoperto, Emilia, presso un rigattiere sulla Via Dolorosa. “È fatto con tefillin tenuti insieme con la colla. Non è stato concepito per voi, ve lo vendo per mestiere, ma non parlerà a voi”. Titolo da tradurre forse così: Pagine di muro gerosolimitano. Autore: l’eterna fumata di rovine, colei che gli sguardi derubricando installa. 
  Cupolette d’ologrammi, noi due, sul volume. Vi abbiamo infilato cento segnalibri multicolori, uccellini pronti a volare
                                     a volare dal e nel libro. Dentro, fuori, l’appena dove che, diafano, protegge le pietre. Tappeto a spiccare aspro volo, combusto in traiettoria. Diviene, prima di desolarsi in cenere, cento cantillazioni per fessura, cento danze della schiena, sono i supplicanti in nero, sotto pellicciosi copricapi chassidici. Veniamo scansati da un rabbino coperto di balsami: “A causa delle mura che hanno abbattuto, siamo seduti solitari e portiamo virgole tristi”.  Lutto d’armatura retrocessa, sospettiamo Michele Arcangelo, lacrime spillate dalla mappa delle quattro regioni del mondo.  Tre volti animaleschi – Leone, Toro, Aquila – e l’Aquila ad ardere il volto dell’Uomo. Sospesi
                                                      sospesi come dolo d’oriente dentro la nostra faccia cupola e due fori, strozzati da pagine e pagine, assediati da punteruoli di scritture. Decifriamo su  nuvola che rimonta alla Spianata
un nastro di parole lunghe, con “Muore imitando l’astore notturno vibrante nelle intercapedini, per altre vie di fame si è giocato il midollo
e dentro la mela di bronzo che i martelli picchiano
per farla suonare
ha incontrato il dolore orientale”.
E dall’altra metallica bocca del nastro : ““Gli assi del mondo s’incrociano in un ventricoloso centro, nell’arco calvo della campana spunta il batacchio-labirinto”.

  Dietro a quell’enigma di pietre di ammonticchiate che ci sovrasta, siede un grande occhio. Da spiragli fuoriescono rantolii di shofar. C’è, tra gli astanti, chi da fonda tasca toglie un cartiglio, povero angolo
                                                                              povero angolo giallognolo vergato. Procede, lo scuote per sincopi, lo preme nella strettoia, blocco di Hakotel inghiotte. I megasassi lasciano defluire lacrime d’issopo e di cappero selvatico, arcaiche sferette di rugiada. Quello che intorno a noi declina è scorza. Non importa: “Dal punto supremo al confine delle cose ogni scorza è un cervello. Una nell’altra, cervello nel cervello, scorza per scorza” (Zohar, Berechit I). Non importa: il rosso tappeto della bocca mia e di Emilia, la lingua del fiato danza qui. Tantissimi tropismi di scorze, verso il vertice pietroso di quella piramide.




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