martedì 17 maggio 2016

Diego Conticello: la dimessa resistenza nella poesia di Lucio Zinna

Della dimessa resistenza nella poesia di Lucio Zinna. Trent’anni dopo Abbandonare Troia.


Abbandonare Troia (Forlì, Forum/ Quinta Generazione, Collana “Poesia ‘80” 1986), libro cardine nell’intera produzione poetica di Lucio Zinna,  nato qualche decennio dopo l’acceso fervore degli avanguardismi – Lucio Zinna in quegli stessi anni flirtava con l’avanguardismo palermitano riconducibile al Gruppo 63, tuttavia mostrando quell’acuta intelligenza critica che, per sua stessa ammissione, lo faceva stare «con un piede dentro e uno fuori». Aveva dato vita al Gruppo Beta (nel 1965), interagendo però «dialetticamente e non pedissequamente» con quei propositi di rinnovamento che venivano dai Novissimi, rifiutando nel contempo di aderire al costituendo Antigruppo: «Si faceva più teoria che pratica della letteratura. Condividevo l’opportunità di un sommovimento sul piano formale, mentre rigettavo il puro formalismo, così come la teoria dell’identità tra ideologia e linguaggio.» –, rappresenta il raggiungimento delle vette espressive più autentiche nella poesia dell’autore siciliano (Mazara del Vallo 1938) per il suo amaro sarcasmo, per l’indignazione allo stesso tempo pacata e pregnante,  per l’uso centellinato e corrosivo della citazione letteraria e del prestito linguistico, per la ‘malinconiosa’ meditazione sul metaforico incendio distruttivo appiccato da qualche tempo al reale, che comporta l’incenerimento di qualsiasi valore. Il poeta pensa per un attimo di fuggire da questa perdizione e tuttavia preferisce ugualmente rimanervi, saggiando sulla propria pelle la sconfitta d’ogni giorno, la morale messa al rogo. Davanti ad una ideale biforcazione Zinna sceglie la strada infangata, il percorso accidentato che lo costringe a raccontare le difficoltà del vivere, evita insomma di rifugiarsi nell’idillio, nel lirismo puro e trasognato, affronta ‘di petto’ il marciume dell’esistenza opponendovi la fiera, pervicace e tagliente sciabola dell’ironia (si legga a tal proposito uno stralcio dalla poesia Il bivio).
E nonostante le coordinate imprese le ferree
volizioni le strategiche inquadrature ad ogni
bivio reale rivendica il caso il diritto ad una
compartecipazione alle scelte.
[…] Opera tu per la tua parte
mettiti in guerra la coscienza – insisti stringi
i denti – per il resto (sia chiaro) la vita
è vita e va (per la sua parte) dove la vita vuole
nei parametri suoi sceglie discreta a volte brutale
e all’improvviso arruffa sconvolge come un sisma
c’è una Scala Mercalli del vivere con cui
si ristabilisce il gioco delle parti il misto imperio.

Dopo le pause quasi idilliache di Sàgana (Crotone, Il Punto P.L.A. 1976) Lucio Zinna ritenta in questo volumetto, con effetti sorprendenti, la carta dello sperimentalismo polisemantico, sfruttando in maniera più consistente la citazione culta che, nel gioco parodistico della giustapposizione ironica, determina un ribaltamento del significato in direzione elegiaca (qui sotto uno stralcio da Odore di acetilene).
[…] Venti lire non erano
molte (poche neanche a quell’epoca) per considerare
nostra semenza. Si sgranocchiavano serate blu
e nostalgie campestri un seme appresso all’altro
in solitudo paesana la mente a vagare su trascurati
compiti di scuola su aggrovigliate vicende di Montepin
(«Il medico delle pazze») extravaganti evasive o su una
fanciulla sempre intravista avvicinabile mai…

Qui all’evidente citazione dantesca si sommano la ripresa latineggiante, oltreché il riferimento al romanzo d’oltralpe. Inoltre il passo è tutto giocato sulla meravigliosa sinestesia (serate blu) e sull’effetto straniante dello zeugma (Si sgranocchiavano serate blu e nostalgie campestri). Lo stile colloquiale attrae il lettore, immergendolo poi nello straniamento dato dagli ossessivi ‘ganci’ letterarî. Spesso Zinna propone anche il gioco allitterativo per creare tensione nella sintassi, allentando subito dopo il laccio con la sinestesia che apre il dettato al lirismo (Il bacio).
Intangibile fontana di riccioli occhi plenilunari
compagna di scuola selenica e soda (arcana ti girava
una qualche tristezza) a quel tempo in quei luoghi era
impresa l’amicizia qualora il sesso non fosse avverso
(già parlarsi con gli occhi era mezza avventura). Ebbi
(mite – parsimonioso) permesso di venirti a trovare
per catilinarie coseni / covavo un desiderio impudico
che presagivo condiviso come quella strana malinconia
da stradivari […] o compagna di scuola selenica e soda
leggera come la mariposa fiore di spina fiore di rosa.

L’uso della citazione diviene talvolta, come in Ridi pulzella, vera e propria parodia continuata di cui il poeta si serve per imbastire un personale ricordo-divertissement di matrice leopardiana.
Mi ridi pulzella appena invasa da un fremito dolce
te a te stessa celando. Si chiude un’esile epopea
di sguardi troppo orientati altrove («meglio di così
non riesco a guardare non guardando») mentre
per il limitare di gioventù spavalda e mite
con un confetto-camicia e bianchi bermuda t’inerpichi
io ridiscendo giorno secondo giorno a filo di capello
a diottrie a tenui zampe di gallina (che un velo
di emulsione pantèn – dicono – infrenerebbe) mi si
riduce il verde foglia a foglia. Ti sorrido connivente
e distanziato. Lascio le sudaticce carte e ti coltivo
                                  stupendamente viva in faccia al mondo.

Zinna è poeta che mal sopporta l’esibizione egotistica per questo, secondo Raffaele Pellecchia (La possibile resistenza nella poesia di Lucio Zinna, in Con le parole/ oltre le parole. Saggi di letteratura contemporanea. Pesaro, Edizioni Metauro 2006, pp. 329-340) utilizzando «[…] la tecnica della citazione parodiata e sottratta all’aura del contesto obbedisce di fatto, ad una sorta di pudore e di decenza, offrendosi come filtro di una soggettività che rifugge dalla teatralizzazione della sua sfera segreta».


Lo scarto, direi ai limiti dello scandalo morale, è feroce quando il poeta mescola – qui nella lirica Ne pollantur corpora – accenti opposti e diversissimi tra loro, ottenendo un violento effetto dissacrante.
Dentro mi sei come spina rimasta balestra
dei miei sogni intonso pube.
[…] Il fondo pallidi recò
sedimenti ascensionali e nella sbucciata
immagine di te – tu carponi – idolatra
offersi su quell’ara (oh quale) di linfe
un’ecatombe.

Si noti l’uso stridente del titolo latino, che peraltro deriva da un’opera di Prudenzio, l’Hymnus ante somnum, nel Cathemerinon  (Inni della giornata); proprio dall’autore cristiano Zinna riprende l’intitolazione: «Affinché i nostri corpi non siano contaminati» rovesciandola sarcasticamente.
Nella poesia che dà il nome alla sezione, Scartabello degli attimi invenduti, riprende la vena sperimentalista che fa giungere Lucio Zinna a risultati che ricordano la poesia visiva, molto in voga in quegli anni, di un Lamberto Pignotti o di un Emilio Isgrò: adesso il fare lirico stride fortemente col linguaggio tecnico.
                   un sentore d’alba i tuoi occhi nella città malata
(s’erano appena accese le luci dei lampioni l’asfalto
tremolava di minutissima pioggia) era il futuro
un lontano vivido ricordo da coltivare ancora

[…] Ci sarebbe così per Tesnière una traslazione
che produce (un’A la simboleggia) la funzione
aggettivale nella proposizione «appartiene al padre».
L’analogia profonda tra «paterna» e «che appartiene
al padre» e al tempo stesso la (superficiale) loro
differenza sarebbero rappresentabili per mezzo
di «stemmi». Ovverossia

(Lo stemma linguistico inserito da Zinna è derivato da O. Ducrot – T. Todorov, Dizionario delle scienze del linguaggio. Milano, ISEDI 1979).
Talvolta vengono descritte scene che di primo acchito potrebbero sembrare futile intermezzo scherzoso – come nel caso del componimento Uccelli del viale – ma che tuttavia nascondono intense considerazioni in margine ai disastri perpetrati a danno della natura da interventi iper-progressisti.


Abbandonano gli uccelli l’anticrittogamica campagna.
Attentàti da diserbanti e bracconieri emigrano
con celeste meridionalità e s’inurbano.
[…] stazionano sui rami con disinvolta discreta vucciria
volano a folte squadriglie sui tetti perlustrando.
Sistematici rivestono marciapiedi sedili di un bigio
escrementizio bersagliano cofani pellicce incomparabili
aerei cecchini.
[…] Sorge un’era di urbanesimo ornitologico un pennuto
sessantotto si profila…


Il divagare per memorie letterarie affiora sempre improvvisamente, fungendo talvolta da vera e propria citazione manifesta: in Memoria di scirocco Zinna riporta alcuni versi di Lucio Piccolo, creando un’affinità emotiva che lo conduce a far rivivere uno scorcio non diversissimo per sensazioni dallo Scirocco dei Canti barocchi.
La siciliana arsura dell’estate parafricana
coloniale si stempera con douceur al primo
autunno (qui – come tutto – tardivo) in questo
novembre già così sufficientemente malinconioso.
Bevo le prime celesti gocce e m’assaporo
l’odore bagnato della terra il lucido dell’asfalto
la rarità del grigio in cui s’inglobano Piazza
Politeama i pizzardoni ormai di nero con tanto
di casco a pera – in un innaturale frammento
londinese. […] L’ultima sciroccata
i giorni biblici (43 all’ombra) prima che si movesse
per il Casentino vogliosi d’altre atmosfere («siamo
in una conca una settimana così rastrema mesi
d’energia») il treno proiettava di campi riarsi
un giallo vangoghiano – un’ora fermi non so dove
per un accenno d’autocombustione ai margini
della ferrovia – affioravano versi di Piccolo
con la sua esatta scienza di poeta («di virgulti
fa sterpi, / in tromba cangia androni, / … ghermisce
le foglie deserte / e i gelsomini puerili»).
Anche l’autunno è desertico anche l’inverno (ci salva
la nostra coesione un singolare modo di tenerci a galla
persino la zuppa di fagioli che ci attende stasera).

Nella terza sezione del volume, Lamentazioni d’Orfeo, i toni si fanno più accesi e risentiti, il verso acquisisce connotati ‘civili’ di manifesta indignazione. Il poeta esce per un attimo dall’universo delle memorie, accordando lo strumento del disagio, per poi intonare uno sfogo composto  e dignitoso sulla perdita della civiltà (qui delineato in Resistenza).
Imparo ogni giorno a costruirmi questa vita
contro visibili storture sotterranei tentativi
di sopraffazione spesso disancorato cerco
rammento propongo ampliamenti progressivi di umani
spazi ulteriori conquiste di civile dimensione.

Fido nella memoria. Altra funzione non v’è
che sia così cosciente così controllata così
di sé consapevole (Galluppi). Vigile memoria
di sconfitta barbarie. Quando si vede il nero
proclamarsi luce ordine il caos quando la filosofia
della morte violenta pretese gloria nei secoli
fu obbligo – e sacrificio – lo smascheramento.

[…] Coltivo un’utopia di nome libertà. Uomini e idee
andare sicuri nel mondo. Una possibile
utopia. A volte stringo i denti urlo se capita
difendo mi difendo continuamente resisto.

Questi versi fanno comprendere, per dirla con Antonino Contiliano (L’ironia nell’opera poetica e letteraria di Lucio Zinna. «Libera Università di Trapani» 23, anno VIII, novembre 1989, pp. 145-152) quanto
[…] la capacità poetica e letteraria di Lucio Zinna di utilizzare lo strumento linguistico, con la misura e l’architettura di chi ha un habitus di “preziosa e ironica curiosità”, è di notevole fattura, e che l’impiego dell’ironia-interrogazione, indagine, euristica, ermeneutica, va oltre il soggettivo psicologico e il contemplativo nostalgico o disincantato del nostos o “ritorno”, e che la sua poesia non può essere chiusa entro i confini positivisti dell’espressivo.

Il motto che fa da sfondo a questo ‘lamento’ è lucido e disarmante: «e poiché non offendo m’è dura fatica il perdonare» (da Frammenti per le creature).
Il fulcro-tarlo della poesia di Zinna è certamente la memoria, a cui si associa il motivo dello scorrere inesorabile del tempo che, come accade costantemente anche nella poetica di Lucio Piccolo, preclude ogni possibilità di costruire la dignità umana, nella cui mancanza di utopie si realizza un ineludibile ‘spreco’ del miracolo dell’esistenza. Si legga a tal proposito questo confronto tra Tabes del nostro e due liriche, Le Carte in cammino e Gioco a nascondere, di Lucio Piccolo.
E le ore dissolte nel quotidiano da noi a noi stessi                    […] e i giorni mutano volto
rubate (come a noi giammai appartenute) dal ricordo               e muta volto la vita
imperfetto poi riassunte nella memoria da un’immagine          i quadranti dicono i segni
un gesto – e tutta vi consiste una fetta di vita.                           degli impossibili ricorsi
Spesso sono eventi improvvisi a segnare pietre miliari             nell’eterna dipartita.
nella carreggiata di ciascuno.
                                                                                                   […] e la rete dell’ombre sui banchi
[…] Per ora ci accomuna un costante spreco di noi                  vuol chiudere i fantasmi dell’ore
un pervicace sfascio di tutto la premura infiltrata                     che non sono, che non saranno:
nel midollo. Anticontemplativo irremovibile                            i giorni sono stanchi
questo nostro presente questo impercettibile approssimarsi      sebbene i rami in fiore.
all’attimo che ci rende imperpetuo il moto definitiva
la stasi impietoso il dissolvimento d’ogni fattezza.                   […] e noi trascorriamo inerti spoglie
                                                                                                   d’attimo in attimo, di flutto in flutto
Resta (perplessa) la speranza di uno squarcio                           senza che ci fermi il giorno
aperto nell’ignoto. Che una rigida ragione non precluda          che sale o la luce che squadra le
spazi che non sono di memoria.                                                                                             [cose.


Secondo la ‘filosofia’ di Zinna anche l’evento improvviso può determinare la direzione vitale d’ognuno, finché non subentra l’ineluttabile avvicinamento all’attimo in cui ogni cosa si dissolve nella fine.
Entrando più a fondo nel proprio ambiente di vita (il riferimento obbligato è alla Sicilia, ma l’inferenza è universale), Lucio Zinna, in Sudità, enuclea un sottile ragionamento sull’atavico fardello che investe la mentalità ‘meridionale’: una sorta di sudditanza psicologica; riflettendo argutamente sul fatto che i cosiddetti ‘mali’ esistono ovunque e che bisognerebbe seriamente stigmatizzare questo ancestrale senso d’inferiorità che conduce solo ad una malata ‘autocommiserazione’.
Chi disse si debba eternamente piangere il peccato
(così scarsamente) originale di questa oltranzosa
sud-ità irremovibile sudditanza implume vecchissima
insularità da viversi sulla pelle come nigritia.
Chi vuol essere geronimo sia. […] Più non è tempo d’auto-
commiserazioni semmai di segnare altro lamento
(che basta coi lamenti) che ha d’esser convien sia.

Esistono le mafie ed i fascismi e sono planetari
e sono mascherati esistono ascari e colonizzatori
ogni speculatore ha portamento signorile la calma
è la virtù dei provocatori. Siamo un (generoso) popolo
di oppressi ed oppressori siccome in ogni particula
mundi ci coglie sino qui il montaliano male di vivere.

Per quanto mi concerne – Marina – ‘i mi son un che quando
il sole picchia ne riceve fastidio e non s’abitua
[…] resto imbevuto di continentale letteraria
cultura secondo l’aspetto climatico-geografico mi configuro
uomo del nord (Sicilia mio nordafrica) né mi cale se tu –
così soavemente lombarda – sia donna del sud (del
                                                                  sudeuropa intendo).

Al di là delle frasi trasformate sulla base di citazioni da Lorenzo il Magnifico a Dante, da Leopardi ai proverbi è da notare, ancora una volta, l’intromissione dell’elemento divertito a spezzare le trame dell’invettiva.
Il poeta riesce a creare argute composizioni, ancora sul versante satirico, tutte giocate sul conio di estrosi neologismi, forse ultime reminiscenze neo-avanguardistiche: «Recito controvento controcampo controgloria./ Ridopagliaccio e infarino (a volte m’incavolo/ e dice Elide mi si potenzia l’ironia)» (da Controcanto); oppure in A volte qualcuno rimane, attraverso una disinvolta struttura metaforica continuata,
Di poesia mi reputo un antico drogato

(Iniziai per solitudine a quattordici anni
con spinelli in terzarima a sedici mi bucavo
versisciolti più tardi m’iniettai – quel tanto –
parolibere in esperienze neoformaliste)

Da tempo mi coltivo (solitario) la roba
non soffro crisi d’astinenza evito cauteloso
l’overdose

M’affratello ai clandestini della parola
ai tossicopoesiomani ai liricodipendenti

agli indifesi in più plaghe temuti dal potere
mentalmente perquisiti destinati a campi
di deconcentrazione

È canapa indiana la parola e cresce
in terra di libertà parola trasmutata
risignificata – vena musica fionda – era
in principio

[…] (A volte qualcuno rimane accartocciato
in un angolo accanto a versisiringa a volte
poeti si muore)

Raffaele Pellecchia, nella prefazione al volume, sottolinea come dato pregnante
la presenza di un pluralismo […] che investe tanto la sostanza lessicale quanto la strutturazione sintattica e contestualmente l’effetto tonale del discorso poetico che, tuttavia, conserva, come suo segno distintivo, un abito di preziosa e ironica curialità. Una sorta di aura domestica si diffonde tra elementi sontuosi e raffinati, senza provocare stridore kitsch né tendere a esiti dirompenti e corrosivi.

A me pare più esatto parlare di ‘eclettismo’, visto che Lucio Zinna tenta costantemente di recepire quanto di meglio possa offrire ogni registro linguistico, ivi compresi certi particolarismi verbali delle avanguardie; ciò che effettivamente provoca stridore è invece il modo in cui la pacatezza dei toni riesca ad aumentare a dismisura il quoziente icastico ed urticante del messaggio. Esempio emblematico è senza dubbio Sessantacinque versi per il treno della Maiella, poemetto conclusivo della silloge dove il poeta, s-travolto dalla distruzione che imperversa nella sua amata/odiata Palermo-Troia, coltiva l’anelito ad un definitivo ‘abbandono’ che provochi una rinascita-sospensione nella bellezza, annullando di colpo i contrasti del mondo.
Filtra lento un senso angoscioso di quiete.                            
Piantare tutto. Allogarsi da queste parti                                  
con la sacra famiglia nel più remoto villaggio                        
mettersi in pensione anzitempo vivere del minimo            
prima che entrino falsi cavalli abbandonare Troia                
con semafori zebre ciminiere mitragliette skorpion            
e kermesses mondane e sindacati autonomi e confederali  
e impossibili scuole (elefanti di mala educazione              
di presunzione e droga) recidere i fili                                  
coi tossici milieux culturali                                                        
di questo molle-agonizzante impero.                                  
Comprimere la fretta rallentare i gesti                                
reinventarsi le albe e i tramonti.


                                                                 Diego Conticello

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