domenica 7 ottobre 2012

Ida Travi “Il mio nome è Inna”, Moretti&Vitali, 2012




Prima ancora che con gli essere umani, il rapporto principale è con le cose, è con esse che si cerca disperatamente un colloquio. Nonostante, infatti, ne “Il mio nome è Inna”, Moretti&Vitali, 2012, (postfazione di Alessandra Pigliaru), ultimo lavoro di Ida Travi, ci siano quattro personaggi, è la sola Inna  che sembra parlare, con voce accorata, agli altri (vogliamo effettuare un breve riferimento al fatto che la donna, l’adolescente, il bambino, la vecchia sono personaggi iconici che ritroviamo anche negli altri libri di Ida Travi e che in quanto pure immagini hanno valenza mitica); tutti e quattro però si relazionano con le cose (oggetti o elementi naturali), attendendone una risposta risolutiva. Parrebbe trattarsi di un vero e proprio panteismo, un ritorno a un sentire naturale, organico al mondo circostante, se non fosse che contemporaneamente la voce di Cassandra si sovrappone a quella di Inna per affermare che nemmeno a questo bisogna credere o per dire che bisogna credere e non credere contemporaneamente: poiché questa è la doppia natura affettiva e inaffidabile delle cose. Ci riferiamo al fatto che la proiezione di sé negli oggetti quotidiani non è mai ingenua, è sempre già macchiata dall’umano,  come anche la pochezza delle parole, la loro insufficienza è da mettere al bando, a tal punto che si potrebbero usare soltanto i gesti, le azioni.

Questo assumere i caratteri delle cose, addirittura l’identità: “eravate la pietra ardente”, questa personificazione degli oggetti: “La maniglia piangerà sotto la mano” e “sotto il tavolo arrossisce / lo sgabello a tre gambe”,  questo attribuire una finalità alle cose: “Non c’è dubbio, non c’è dubbio / queste cose sono qui per noi” vuol dire avere creato un elenco delle relazioni che è possibile stringere con gli oggetti –  e non solo quelle istituite alla luce del sole, ma anche quelle tessute nell’ombra – poiché a tratti sembrano più importanti della presenza degli esseri umani, fra cui, lo ripetiamo, non c’è dialogo, ma solo un appello che ciascuno rivolge all’altro senza mai ottenere risposta. Persino la nostalgia di non essere cosa entra a far parte dell’elenco: “Volevo crescere con loro / volevo vivere con loro / tra gli attrezzi” giunge a una trasformazione del soggetto in cosa: “Piove sull’acqua, piove sul ferro / il petto è più freddo della schiena”.

C’è, però, accanto al terrore di perdere le cose, o che non più funzionino, il terrore di diventare un oggetto: “ – bisogna vivere da umani, lo capisci? –“. In ogni caso, se vengono meno anche gli oggetti viene meno il fondamento del soggetto, il quale non può fare affidamento su nessuna trascendenza. Nessuna ricerca dell’essenza, nessuna metafisica. A suffragio della nostra ipotesi anche  la mancanza totale del simbolo: un libro che è un ammasso di oggetti e in cui mai si determina la prolificazione di un senso astratto. E immediatamente a ridosso si rileva che i mezzi linguistici messi a punto dalla Travi sono limitati all’uso di sostantivi e di verbi: pochissimi aggettivi. I versi hanno un andamento prosastico, ridotti all’osso gli strumenti retorici della poesia.

Il corto circuito fra gesti e cose sarebbe sufficiente a tracciare il fondo oscuro da cui provengono gli umani e il chiaro albume verso cui si dirigono. Ma del resto proprio al linguaggio è affidato il compito di designare le terre, il percorso, le cose, le relazioni, sebbene si preferisca la parola detta a quella scritta, la quale è guardata con maggior sospetto, quando non respinta con ribrezzo (e si tenga conto di questa posizione che è agli antipodi rispetto a quella di Jacques Derrida).

“Ogni grido è uguale al silenzio, ogni cosa / è uguale al silenzio // Anche l’occhio lo sa / anche il piede lo sa // anche il letto / è diventato bianco”. La parola, le cose, il soggetto collassano nel silenzio: sembra un’agglutinazione, un rendere alfine appartenenti al medesimo comune fondo anche le cose più differenti. Pure il tempo è sottoposto alla medesima personificazione: “Un’ora se n’è andata / È uscita dalla porta” e “l’orologio ti guarda / l’orologio capisce tutto”. Il tempo sembra utile a porre le tacche distintive, quasi una misura scientifica a cui appellarsi nel paradosso della propria posizione umana; serve forse solo a tracciare le apparenti coordinate di una storia, di una narrazione, di cui, peraltro, si sono rigettate tutte le  convenzioni: prima e dopo, causa ed effetto, inizio, svolgimento e fine, in una completa perdita di riferimenti.

E’ davvero come stare a osservare una mosca imbottigliata di cui si possono osservare i moti che la sfiniranno. Si salta la frattura solo con gli occhi chiusi, solo dimenticando ciò che si sa e persino le profezie di cui il testo è disseminato. A tutto togliendo credito, a ogni cosa credendo. Eppure, si direbbe che la natura qui abbia ruolo autonomo rispetto agli oggetti: “Tu metti il fiore nell’acqua / e il fiore si riprende / Il fiore non sa quel che fa / ma quel che fa è meglio”. È la natura che garantisce la continuità: “Il sole sorgerà un’altra volta, te lo giuro /  cresceranno le mele rosse”. Miracolo dell’esistere. Di cui peraltro i figli sono il testimone più concreto di qualsiasi parola: “I figli sono fiori / un giorno si levano il berretto / e parlano come mai avresti sperato”.

Abbiamo fin qui seguito pedissequamente il libro per ritrovarci all’ultimo capitolo “Ur il ferramenta” in cui i fili vengono tirati e quello che poteva definirsi come un continuo smottamento tra angoscia e speranza, tra un ritrarsi e un aderire del tutto genericamente riferibili all’esistenza umana, ora si mostra – come se con una lente si fossero restituite le giuste proporzioni alla figura dipinta in maniera deformata, (celebre l’esempio  presente nel quadro “Gli ambasciatori” di Hans Holbein) – un luogo dove l’angoscia ha raggiunto il massimo grado dell’esperienza umana: il lager, ma anche il luogo in cui la speranza per rinascere può solo ricollegarsi alla natura. Disseminati nel testo i termini campo, filo spinato, baracche, non lasciano dubbi e risucchiano come in un imbuto senza fondo il senso dell’intero testo. 

                                                                Rosa Pierno 

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