venerdì 30 dicembre 2011

Alejandra Pizarnik “Poesia completa”, Lumen, Barcelona 2016, traduzione di Alessandro Ghignoli



È possibile riscontrare un particolare esempio di relazione tra poesia e prosa nel libro di Alejandra Pizarnick, “Poesia completa”, Lumen, Barcelona 2016, nella traduzione di Alessandro Ghignoli.  Alla prosa viene affidata l’espressione di una visione del mondo di fatto poetica e alla poesia numerose volte l’autrice fa riferimento come a un traguardo irraggiungibile:


Sulla vetta dell’allegria ho dichiarato riguardo a una musica mai ascoltata. E cosa? Magari potessi vivere solamente in estasi, facendo il corpo della poesia con il mio corpo, riscattando ogni frase con i miei giorni e con le mie settimane, infondendo alla poesia il mio soffio man mano che ogni lettera di ogni parola è stata sacrificata nelle cerimonie del vivere”.


Dunque, la poesia sembra essere irraggiungibile, almeno come condizione dell’animo che non soffra di soluzione di continuità. Rispetto ad essa, il ricorso alla prosa appare il trampolino di lancio dal quale tentare un avvicinamento alla soglia poetica, che si sa fin d’ora già affetto da saltuarietà. Ma la prosa mostra di evitare anche certe finte derive del poetico, che hanno il sapore di un dolce troppo carico di zucchero. Essa, inoltre, consente di evitare la maggiore astrazione del linguaggio poetico e sviluppare un discorso solo in apparenza affabulante, in realtà logicamente strutturato, poiché nessuno dei punti che costruiscono il discorso può essere saltato: cambierebbe senso, non si gusterebbe il sapore del ragionamento che, in siffatta teatrale scenografia, onirica, infantile, mnemonica, sinestetica, pure, la poetessa argentina innalza con grande saldezza.

Se la poesia, in aggiunta, appare in veste di chimerica essenza, poiché sembrerebbe nascere solo dalla trasfigurazione alchemica del proprio corpo, del proprio tempo, persino del tempo sprecato “nelle cerimonie del vivere”, allora si constaterebbe un divario non rimarginabile tra poesia e prosa. Tuttavia, non pare esservi traccia, nella prosa di Alejandra Pizarnick, di nulla che rimandi alla banalità del quotidiano, alla perdita. Tutto vi appare favoloso, intriso da fervida immaginazione e percorso da una musica continua:


“La bellezza dell’infanzia ombrosa, la tristezza imperdonabile tra bambole, statue, cose mute, favorevoli al doppio monologo tra me e il mio antro lussurioso, il tesoro dei pirati sotterrato nella mia prima persona singolare”.


La sinestesia diviene uno dei più produttivi strumenti in tale prosa: un mezzo di classificazione (“Vedo la melodia”), uno strumento epistemologico senza il quale non potrebbe darsi alcun ordine all’esistente. Essa salda realtà e visioni, connettendole in un tessuto privo di asole o sovrapposizioni, ove oggetti disomogenei paiono avere la medesima sostanza, saldandosi in continuità. Con una straordinaria capacità, Pizarnik forgia la sintassi come se la lavorasse su un’incudine, ottenendone risultati stranianti e metamorfici; la rende elastica, morbida, poliforme:


“Conosco la gamma delle paure e quel cominciare a cantare lento nel passo che riconduce verso la mi sconosciuta che sono, la mi emigrante di sé”.


“La solitudine è non poter dirla per non poter circondarla per non poter darle un volto per non poter farla sinonimo di un paesaggio”.


Un simile uso della lingua, naturalmente, le risulta necessario per dare voce a un’interiorità capovolta, come accade nella retina, prima che la mente corregga la visione. Il risultato mirabolante, così ottenuto da Pizarnik, è che ciò che è esterno appare inusuale e ciò che è interno appare estraneo. È un meccanismo che  sospende il senso, che consente di restare sui bordi di materiali o concetti che altrimenti, come se fossero posti su una china, cadrebbero risolutamente verso un senso definito. La Pizarnick mantiene il senso in una sospensione collosa, ce lo fa osservare come se attuasse un esperimento grazie al quale è possibile effettuare operazioni che trascendono la realtà, indicando, in tal modo, che, quando ci si immerge nel linguaggio con libertà, la distinzione, tra realtà e visione interiore diviene inesistente:


“Disegno sui miei occhi la forma dei miei occhi, nuoto nelle mie acque, mi dico i miei silenzi”. 


La poetessa risolutamente si dirige verso l’abbattimento di quei limiti che non ci consentono di guardare oltre la fisica. E, tuttavia, è consapevole che il già il solo tentativo, operato col linguaggio, restituisce il traguardo agognato. In questo senso, “Non credere che siano vivi. Non credere che non siano vivi” è esattamente ciò che intendevamo all’inizio, quando facevamo riferimento a una logica, anch’essa riformulata, che acquisisce un ruolo attivo nella costruzione del cosmo poetico interamente ricreato in alchemico antro dalla poetessa. È un insieme ordinato di cose all’origine incongruenti, che la portentosa capacità poetica di Alejandra Pizarnik sostituisce al  nostro consueto universo e all’interno del quale c’intrappola come in una favola lucida e crudele. Una sua affermazione,“La solitudine sarebbe questa melodia infranta delle mie frasi”, starebbe proprio a  dimostrare che l’unica realtà è quella della propria visione formulata attraverso il linguaggio e che soltanto da quest’ultimo può scaturire una fiabesca unione. Senza più distinzione tra poesia e prosa.




                                                                                        Rosa Pierno

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