lunedì 17 ottobre 2011

Jean-Jacques Du Plessis “Field Of Signs” a cura di Pia Candinas


che cosa sappiamo dei segni
e del loro bianco vapore
ciò che fa vedere

non è più visibile
del didietro
dell’occhio

Bernard Noel

Quando nel settembre del 2010 Jean-Jacques du Plessis arrivò a Roma, aveva appena cominciato a usare un nuovo metodo di dipingere: fissava al muro una grande e spessa tela grezza sulla quale incollava delle forme ritagliate da tele dipinte. Dopo nove mesi di sperimentazione, l’artista ci presenta un gruppo di dipinti ricchi di colori e forme ritagliate che sembrano simboli o segni sconosciuti. Nel corso di pochi mesi l’artista ha perfezionato questo nuovo modo di dipingere, e acquisito un linguaggio che, come tutti i nuovi linguaggi, apre una strada che a sua volta ne apre altre. Il risultato è questa mostra piena di allusioni, invenzioni e sperimentazioni pittoriche.

La tecnica è ingegnosa e semplice: du Plessis dipinge dei pezzi di tela usando colori piatti e uniformi, poi li ritaglia e crea delle piccole forme. Queste figure vengono in seguito distribuite sul campo della tela, modificate a più riprese, spostate millimetro per millimetro, finché ognuna di esse prende un suo spazio definitivo. Le composizioni sono il risultato delle regole stabilite dall’artista, e il risultato finale consiste in un insieme  di opere in cui domina leggerezza, luce e  movimento.   

Si direbbe che il pittore ci inviti a viaggiare insieme a lui tra colori netti e vivaci, come quelli che si trovano talvolta nella vita quotidiana. Du Plessis, usando l’acrilico e colori semplici, inventa via via forti accordi di colore di intensa impronta emotiva. Lo stesso accade con piccole figure che assomigliano a ideogrammi  indecifrabili. Sono immagini dense, distribuite come “appliqués” che fanno venire in mente la tecnica degli aggiustamenti millimetrici usata da Mondrian per il quadro “Broadway Boogie-Woogie”.

E vengono alla memoria i frammenti di pittura messi in gioco dalle avanguardie del secolo scorso: i ritagli di Matisse, la lucidità e l’eleganza di Boetti, i simboli dell’arte post-moderna italiana.  Nel nostro caso l'artista mette in gioco centinaia di forme  e segni diversi, spazi bianchi, collages; attinge in modo disinvolto alla memoria di secoli di pittura. In alcuni casi si riconoscono immagini che nascono dai video-games, da immagini segnaletiche, da calendari, da partiture musicali, da diagrammi, ma anche da antiche tradizioni artigianali come arazzi, stoffe ricamate, patchwork, per citarne solo alcune. Recentemente mi è capitato di incontrare in vari luoghi opere d’arte non solo contemporanee e moderne, ma anche antiche, che mi ricordavano i quadri di Jean-Jacques:  tuniche peruviane di centinaia di anni addietro decorate da infinite file di piccoli simboli geometrici, dipinti murali egizi fatti da geroglifici disposti su grandi spazi color grano; quilts americani, un’immensa pittura murale di Keith Haring, come anche un arazzo di Picasso del 1934 intitolato Confidence. Tante cose nei nostri musei mentali confermano che du Plessis fa un’arte che appartiene al tempo esteso della pittura e anche se le sue immagini non rivolgono lo sguardo indietro verso l’arte degli indigeni o verso l’arte manuale  (fabric arts), sono comunque testimoni del suo profondo legame con la pittura e per la sua lunga storia.

Nel XX secolo il collage era diventato dovunque un linguaggio potente per rivoluzionare le tradizioni artistiche. Oggi che le immagini digitali sono create da pixels impercettibili, la pittura ha il compito di riuscire a rendere visibili le minime parti di una composizione, anche quando non sembrano determinare l’idea dell’insieme della sua superficie. Du Plessis costruisce questo insieme grazie alla sottile e quasi impercettibile tessitura degli appliqués  che funzionano come fondo uniforme della tela. Sceglie con cura  la posizione delle forme e dei colori: assomigliano a note musicali estesi in accordi, armonie, ritmi, contrappunti. Ci si propone un mondo talmente complesso da apparirci semplice.  


When Jean-Jacques du Plessis arrived in Rome last fall attending his first year as a graduate painting student at Temple University Rome, he had recently invented his technique of stapling a canvas directly to the wall and then gluing bits of painted canvas to it. By spring he had produced this fresh and elegant group of paintings. If not for the practical demands of an exhibition, they might still remain works of free-hanging fabric. In a brief period, Jean-Jacques du Plessis perfected his new way of painting, inventing a language of his own that is open-ended and capable of saying many things.
The technique is ingenious and simple: Jean-Jacques paints pieces of canvas in flat, even colors, and then carefully snips out invented little shapes. He arranges these on the canvas field, making constant, millimetrical adjustments, until finally he fixes them permanently­­, the way Mondrian moved around strips of tape while composing Broadway Boogie-Woogie.  Like Mondrian, Jean-Jacques seems to follow a secret set of rules. Despite their precision, the paintings are not a bit solemn, but instead communicate jazz-like improvisation, lightness and good humor.
On a recent trip to New York, I kept encountering art­­––not only modern, but also ancient things––that reminded me of Jean-Jacques' paintings:  thousand-year-old Peruvian tunics adorned with rows of little geometric symbols, and Egyptian wall paintings, with their repeated hieroglyphics on open, straw-colored fields. American quilts. A huge wall drawing by Keith Haring, a musical score at the Morgan Library, and even a 1934 tapestry by Picasso called Confidence. These artifacts were all highly tactile and material. Repeated elements were often arranged in a kind of strategic formation, like soldiers or chess pieces on light-colored, open grounds. The structures seemed to be diagrams of a sort, or codes; they had been made for other eyes than my contemporary ones, but my ignorance of their grammar did not spoil my pleasure in their obvious intentionality and physical presence.
I don't mean to suggest that these works of Jean-Jacques are looking backwards at indigenous art or "fabric" arts. Their appearance is entirely contemporary, because they evoke our daily world. We can't help thinking about supermarket packaging, game boards, video games, signage, calendars, informational diagrams, and the like.
Above all, Jean-Jacques is in love with painting and its long history. While renouncing the seductive, expressionistic touch of oil paint in favor of flat acrylic shapes, Jean Jacques paradoxically finds a way to reinterpret the idea of "painterliness." He shares the modernist idea of making visible his materials and means. A contemporary collagist, he synthesizes the whole from disparate fragments. Collage is the emblematic art-making principle of modern art, a ubiquitous metaphor for the disjunctions, random juxtapositions, and atomization of modern life: cells, particles, pixels. In painting, the trick is to keep the component parts individually visible, but at the same time subordinated to an integrated whole. Jean-Jacques achieves this wholeness through the uniformity of the canvas ground, the subtle texture of the appliqué, and his careful disposition of shapes and color, which at first look bland and even childish, but are really like notes in music, which add up to chords, harmonies, rhythms, counterpoint, and finally, magically, to a newly imagined world.
                                                                                            Pia Candinas

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